La finale di USA ’94 mette in palio tra Brasile e Italia il quarto titolo di campione del Mondo, la possibilità di staccare tutte le altre e di ergersi, quindi, in solitaria come la squadra più titolata di sempre. È altresì la quarta grande sfida fra le due nazionali nel corso dei Mondiali – a dirla tutta è la quinta, volendo tenere in considerazione anche la finalina senza alcun valore del ’78 -, e sono state tutte, in un modo o nell’altro, decisive per l’assegnazione della Coppa: semifinale nel ’38; finale a Messico ’70; girone dei quarti dodici anni prima in Spagna. I brasiliani hanno la possibilità di pareggiare il conto poiché l’Italia ha vinto il primo e il terzo degli incontri citati, per quanto il Brasile si sia imposto nell’unico precedente in finale. Pur deludendo le attese in termini di gioco – non di certo sul versante del pathos –, anche questa finale è necessariamente destinata a entrare nella storia. Ma ha poco senso auspicare uno spettacolo di alto livello calcistico nel pieno del caldo californiano estivo.
Giocata alle ore dodici e trenta del 17 luglio 1994 allo Stadio Rose Bowl di Pasadena (Los Angeles), con trentasei gradi sul termometro, il sole al suo punto più alto e nemmeno un filo d’ombra, l’atto decisivo del Mondiale americano emana calore soltanto a guardarlo dallo schermo. Si sarà ormai capito che questo è il racconto del torneo iridato più caldo di sempre. I brasiliani scendono in campo tenendosi per mano, gli italiani per evidenti ragioni di sponsor indossano la giacca della tuta, in poliestere o simile – caso mai prendessero freddo durante l’esecuzione degli inni. La presenza in campo di Roberto Baggio, il dubbio che ha accompagnato tutti i commenti della viglia, è risolta in senso positivo: il fuoriclasse azzurro gioca, con un vistoso tutore avvolto alla coscia destra. Costacurta è squalificato ma torna Baresi a soli venticinque giorni dall’infortunio e dall’operazione al menisco; a centrocampo Sacchi schiera Berti e in attacco Massaro. Il Brasile si presenta con la formazione ormai diventata titolare da tre partite a questa parte, eccola: Taffarel; Jorginho, Aldair, Marcio Santos, Branco; Mazinho, Mauro Silva, Dunga (capitano), Zinho; Bebeto, Romario. Italia in campo con: Pagliuca; Mussi, Baresi (capitano), Maldini, Benarrivo; Donadoni, D. Baggio, Albertini, Berti; R. Baggio, Massaro. Arbitra l’ungherese Puhl.
Al quarto minuto Mazinho, comunque molto attivo, è già ammonito per un brutto intervento su Berti: è un Brasile che non lesina falli quando necessario, ribaltando così un consolidato cliché che caratterizza le sfide fra verdeoro e azzurri. Nessuna delle due squadre affonda il pressing, ma i sudamericani sembrano avere la forza di controllare il gioco e tengono maggiormente la palla tra i piedi, benché per buona parte del tempo si risolva in un possesso sterile. Difese molto attente e squadre ben schierate in campo sono motivi che tenderanno a ripetersi, e pur attraverso una prevalenza brasiliana in quanto a numero di conclusioni, il dato fondamentale di tutto l’incontro sarà l’equilibrio.
Si assiste alla prima occasione dell’incontro dopo dodici minuti: cross di Dunga, colpo di testa centrale di Romario – il quale, come sempre, torna verso centrocampo facendosi il segno della croce. Poco dopo un contropiede condotto da Romario e Bebeto, in seguito a una palla persa malamente da Mussi, viene salvato da Maldini. Al diciottesimo c’è una grande occasione per l’Italia: su lancio proveniente dalle retrovie, Massaro sguscia tra i difensori brasiliani e si presenta al cospetto di Taffarel, ma il tiro di esterno destro non è granché e il portiere brasiliano blocca la sfera.
Intorno alla metà del tempo entrambe le squadre sono già costrette a ricorrere al cambio causa problemi fisici: Cafu per Jorginho da una parte (ventiduesimo minuto), Apolloni per Mussi dall’altra (trentaquattresimo), con Maldini che torna sulla fascia. Branco ci prova su punizione e Pagliuca para in basso a destra; Romario penetra in area e il suo tiro è smorzato da Baresi prima di finire tra le braccia dell’estremo azzurro. Maldini sradica la palla a Bebeto e avvia una ripartenza italiana condotta da Baresi a Baggio, con il capitano italiano anticipato poco prima di entrare in area. Al trentottesimo è ancora Romario a tentare la conclusione da fuori area. La selecao chiude il tempo in attacco senza però creare pericoli, per cui si va negli spogliatoi sul risultato di zero a zero, tutto sommato corretto: il Brasile ci ha provato di più e ha giocato un po’ meglio, ma l’Italia ha avuto l’occasione migliore. Le aspettative restano vagamente deluse.
Ripresa. Fra i brasiliani Dunga e Mauro Silva, che di fatto gioca come difensore centrale aggiunto e nel contempo spesso avvia l’azione brasiliana, recuperano palloni a centrocampo, mentre i due attaccanti non riescono a rendersi pericolosi. L’Italia è sostenuta da Donadoni e soprattutto da Maldini, il migliore in campo della finale, seguito a breve distanza da Baresi, Aldair e Dunga; Roby Baggio non è lui, si limita solo a passaggi brevi e non prova mai saltare l’uomo, e anche Albertini è meno incisivo del solito. Non ci sono episodi di rilievo sino al ventesimo, quando un tiro di Donadoni – sul quale due giocatori italiani liberi in area sfiorano la deviazione a rete – è parato da Taffarel, mentre sull’azione successiva Bebeto e Romario si fanno vivi dalle parti della porta italiana e il secondo costringe Pagliuca all’uscita bassa. Poco dopo è Branco di testa, su azione di calcio d’angolo, ad alzare sopra la traversa.
Col passare dei minuti naturalmente il ritmo dell’incontro cala, salvo alcune fiammate. È la mezzora quando il Brasile sfiora il gol nella maniera più comica: Mauro Silva dalla distanza scocca un tiro senza alcuna pretesa e Pagliuca è sulla traiettoria; la palla però gli sfugge dalle braccia come una saponetta e carambola sul palo alla sua destra, prima di tornare in campo ed essere ripresa dal portiere italiano. Poi Pagliuca bacia teatralmente il legno che l’ha preservato da una figuraccia storica. A pochi minuti dal novantesimo una nitida occasione da rete italiana prende forma sui piedi di Baggio, imbeccato in area da Donadoni, ma la palla è calciata fuori. Poco dopo Cafu perde palla in attacco, commette fallo, viene ammonito e spazientisce il telecronista brasiliano, che sbotta: “Cafu! La Coppa del Mondo è una cosa seria!”. Dimostrerà negli anni di saperlo meglio di chiunque altro. Dopo novanta minuti l’equilibrio non si rompe ed è ancora zero a zero.
All’avvio dei tempi supplementari la formazione verdeoro crea la sua miglior azione in tutto l’incontro e la più limpida occasione: Dunga apre per Cafu, cross, la palla arriva a Bebeto che ha la porta spalancata davanti a sé, ma invece di concludere a rete rimette in mezzo, per Romario, il quale è anticipato da Pagliuca. Si accende per un attimo anche Baggio, con un velenoso spiovente da lontano che Taffarel è costretto ad alzare in angolo. Poi è Zinho a penetrare sulla sinistra nell’area di rigore italiana e impegnare Pagliuca, mentre sull’altro fronte Evani, entrato in campo per Dino Baggio, ci prova dalla distanza. Nonostante la fatica e la tensione, nel primo supplementare la partita è cresciuta in intensità, e lo stesso giudizio vale per il secondo tempo.
Parreira sente di poterla vincere prima dei rigori e inserisce Viola, un altro attaccante, per Zinho. Il Brasile scende in campo con piglio aggressivo. Dopo due minuti di gioco la palla arriva a Bebeto (che però è in fuorigioco non segnalato), apertura per Cafu – cresciuto molto in questo extra time, forse gli fischiano le orecchie – che scappa sulla destra e mette in mezzo per Romario, a due passi dalla porta ma un po’ sbilanciato: il suo tocco lambisce il palo e termina fuori. Questa finale non è stata sicuramente la miglior prestazione di Romario nel torneo. L’Italia si riaffaccia in attacco con una ripartenza gestita da Baggio, Massaro e Berti, anticipato in uscita da Taffarel; poi un triangolo al limite dell’area tra Massaro e Baggio consente a quest’ultimo di concludere a rete ma il tiro, affrettato e poco efficace, permette a Taffarel una comoda presa. Conclude poi il neo-entrato Viola dall’interno dell’area azzurra, fuori.
La telecamera che inquadra Baresi – autore di una prestazione eroica che resterà negli annali della Coppa – dolorante a terra poiché devastato dai crampi, consegna l’ultima immagine degna di nota dei tempi supplementari. Per la prima volta una finale mondiale finisce in parità dopo centoventi minuti, e senza reti. Per la prima volta la Coppa del Mondo sarà assegnata ai tiri di rigore.

Il gioco del tennis è la condizione umana condotta al parossismo. Sai quando inizi ma non sai quando finisci – anzi, per assurdo, potrebbe durare anche all’infinito. Devi ricominciare da capo a ogni punto, nella stessa posizione, come fosse un eterno ritorno. Sei sul campo – un contesto ristretto, geometrico e immutabile – con questa racchetta in mano che non esiste nella realtà, non ha scopi se non tirar fuori le pizze dal forno, e che devi usare nel modo adeguato: né troppo forte, né troppo piano, cercando un equilibrio sempre diverso. Sei solo di fronte all’avversario che è uguale a te stesso, nel quale vedi te stesso (McEnroe dice: “Non vedevo l’ora di giocare, ma la partita in sé era una costante battaglia contro due avversari: l’altro giocatore e me stesso”1)Samantha Casella, John McEnroe, Rivista Contrasti). L’avversario è a pochi passi da te, ma non lo tocchi, nemmeno lo sfiori, e non gli parli. Anzi, parli da solo. “Il tennis è lo sport in cui parli da solo. Nessun atleta parla da solo come i tennisti. I lanciatori di baseball, i golfisti, i portieri borbottano tra sé, ovviamente, ma i tennisti parlano con se stessi – e si rispondono” (Andre Agassi, Open – La mia storia).
Per Adriano Panatta il tennis l’ha inventato il diavolo. Il tennis è uno sport per folli o predestinati alla follia, quindi per gli esseri umani; in breve, è insostenibile, e come tale irresistibile. La cosa più simile al tennis nel calcio sono i rigori, nella definizione corretta i tiri di rigore (o come dicono meglio gli inglesi, penalty shoot-out, cioè sparatoria, regolamento di conti). Ecco perché, a essere davvero sinceri e nonostante le voci critiche che ogni tanto si levano, i rigori piacciono un sacco. Ecco perché le partite terminate in parità dopo i supplementari continuano a essere decise in questo modo, anche se si tratta di una finale mondiale (oltre che per evidenti ragioni organizzative e televisive).
Pagliuca e Taffarel si avviano abbracciati verso la porta in cui si calceranno i rigori, a destra dei teleschermi. Inizia l’Italia e va sul dischetto Franco Baresi: tira, alto. Tocca a Marcio Santos per il Brasile, ma l’opportunità di passare subito in vantaggio è neutralizzata da Pagliuca, bravo a distendersi sulla sua destra. Albertini realizza il suo rigore. Romario non è un rigorista, ne avrà tirati uno o due in carriera, ma si offre di farlo perché il momento lo impone, mostrando così un coraggio da leone: la sua conclusione tocca il palo alla sinistra del portiere ma entra – questione di angoli, di forze. Lì cambia la storia.
Evani tira centrale, gol; Branco scaglia il pallone preciso e angolato, altro gol. È ancora parità, che perdura ormai da circa tre ore, quando è il momento di Massaro: saltino in avanti del portiere, tiro non molto angolato né forte, parata di Taffarel. Il capitano Dunga calcia molto bene, angolato, spiazzando Pagliuca e portando in vantaggio il Brasile, a un passo dal titolo. L’equilibrio è rotto. Ora sulle spalle di Roberto Baggio grava il compito di calciare quello che passerà alla storia come il rigore decisivo del Mondiale. Però, un attimo: non possono esistere tiri decisivi nella dinamica, a rigor di logica, del penalty shoot-out; perché non ci sono rigori in cui o vinci o perdi. Se Baggio segnasse, ci sarebbe ancora un altro rigore brasiliano (affidato a Bebeto), e l’esito del tiro a sua volta comporterebbe o la vittoria brasiliana o la prosecuzione a oltranza. Sì ma il calcio non è logica – il calcio è epica, etica, politica ed estetica.
Probabilmente Roberto Baggio è stato il giocatore più amato di sempre dai tifosi italiani, e pur avendo giocato nei tre grandi club del paese (Juventus, Milan e Inter), in nessuno di essi è mai riuscito a diventare un autentico idolo delle folle. È passato alla storia come Divin Codino per via della sua capigliatura e delle sue capacità, ma è stato altresì oggetto di epiteti quali coniglio bagnato (coniato dall’avvocato Agnelli) e nove e mezzo (da Platini); silenzioso, a volte solitario, atipico tra i calciatori: famiglia, pochi amici fidati, amante di caccia e natura (per lui non in contraddizione), buddista. È stato un talento purissimo, assoluto e meraviglioso da vedere, capace di illuminare un intero incontro di luce propria: gol, dribbling, velocità, assist, punizioni e rigori. Il più grande nell’intera storia del calcio italiano. Ma quanto ne è stato davvero il leader?
Nasce a Caldogno, Vicenza, il 18 febbraio 1967; due giorni dopo, dall’altra parte del globo, viene al mondo Kurt Cobain, futuro chitarrista e cantante dei Nirvana. La sua band è mito e simbolo di chi è giovane, e ascolta buon rock, nel 1994 – così come Baggio è mito e simbolo di chi negli stessi anni ama il gioco del calcio. Kurt Cobain si è suicidato il 5 aprile dell’anno mondiale. Baggio è il sesto di otto figli; ancora molto giovane si divide tra il calcio e il lavoro nella carpenteria del padre, ma il talento già brilla. Il suo mito è Zico, per le doti nel dribbling e la capacità di fare gol in ogni modo, soprattutto su calcio di punizione.
Gioca nel Vicenza e nel 1985, durante una partita con il Rimini (che è allenato da un Arrigo Sacchi alle prime armi, per uno di quei paradossali incroci della storia), Baggio subisce un terribile infortunio alla gamba destra. È un genere di infortunio che, all’epoca, mette a forte rischio la possibilità di continuare a giocare a pallone; Baggio stringe i denti e resiste, saltando di fatto due stagioni. Sarà sempre perseguitato da fastidi e dolori, tanto da sostenere di aver giocato il resto della carriera con una gamba e mezzo. Esplode nella Fiorentina con la quale raggiunge la finale di Coppa UEFA nel 1990. Lo stesso anno il suo ricchissimo passaggio alla Juventus provoca autentici moti di piazza nella città toscana, dove lo amano alla follia, ricambiati.
Si manifesta nel massimo palcoscenico calcistico durante la Coppa del ’90. Secondo lui stesso, in quel torneo era in grado di fare ciò che voleva sul terreno di gioco. Dopo il fantastico gol realizzato alla Cecoslovacchia, Repubblica titola enfaticamente: “È nato il genio che ci farà felici”. Forse l’italico destino sarebbe stato diverso se Baggio avesse giocato la seminale contro l’Argentina sin dall’inizio, benché la storia non si faccia con i se. È comunque l’inizio di un rapporto contrastato con il campionato del Mondo: protagonista in tre edizioni, mai vincitore. Negli anni successivi conquista una Coppa UEFA con la Juventus; vince Pallone d’Oro nel ’93, inizia a essere additato come il numero uno al mondo, e lo è per davvero.
Ma è come se il Mondiale americano segnasse una svolta decisiva nella sua traiettoria, un bivio passato il quale Roberto Baggio non potrà più essere quello di prima. Conquista due scudetti di fila, ma non sono accostati al suo nome: la Juventus è quella dell’astro nascente Del Piero e di Vialli; il Milan, la squadra alla quale viene ceduto solo un anno dopo il Mondiale, è di Savicevic e Weah. Ha screzi pesanti con diversi allenatori. Nonostante il velo d’ombra che pare sia calato su di lui, è comunque ancora in grado di realizzare grandi prestazioni. Un’ottima stagione al Bologna gli garantisce la maglia azzurra ai Mondiali del 1998, durante i quali sfiora il gol che avrebbe cambiato la storia della Coppa, nei quarti di finale. Passa all’Inter, poi al Brescia dove trova al suo fianco un giovane Pirlo e un Guardiola a fine carriera. Lascia il calcio e scompare dalla scene. Nel 2010, in seguito al fallimentare Mondiale degli azzurri, è nominato presidente del settore tecnico della federazione italiana: dopo un anno presenta un progetto scritto di novecento pagine; dopo circa un altro anno toglie il disturbo, rendendosi conto di non avere alcun reale potere in un ruolo puramente di facciata.
L’esplosione di Baggio ai Mondiali del 1994 ricorda l’esperienza di Paolo Rossi in Spagna, e molti utilizzano il paragone; ma Baggio non è Rossi, è qualcosa di diverso: è un dieci, cioè un punto di riferimento, o almeno dovrebbe esserlo. Potrebbe marchiare con il suo nome l’intera Coppa del Mondo come ha fatto Maradona nel 1986, però fallisce l’appuntamento decisivo proprio al culmine di una fantastica progressione. La vera svolta è rappresentata dall’infortunio in semifinale, lo capisce ed è sconsolato, nonostante il paterno abbraccio di Gigi Riva. Dirà che a Pasadena non era infortunato bensì solo stanco, colpito da un problema muscolare che ne ha condizionato la preparazione2)Roberto Baggio, Una porta nel cielo, Limina, 2005. “Il numero dieci è sempre stato il punto di riferimento per ogni squadra. Ma ci sono cose che il dieci non può fare: il pressing sull’avversario, per esempio, oppure partecipare alla fase difensiva”3)Stephane Regy, Lucas Duevernet-Coppola, Roberto Baggio: Proches des buts, j’avais l’impression que le temps ralentissait, So Foot. Così lontano dall’idea di calcio di Sacchi, eppure così vicino al ct della nazionale in una parabola che, proprio nella Coppa del ’94, trova assieme l’apice e la mancata consacrazione finale.
Per Hanna Arendt non importa cosa siamo ma chi siamo, la nostra biografia, la nostra narrazione, in breve le nostre azioni. Perciò Baggio è amato, perché la sua storia è la storia di un uomo, dal sorriso di gioia del gol contro la Spagna a quell’ultimo sguardo… Roby Baggio va sul dischetto. Prende una rincorsa molto lunga, calcia e la palla vola oltre la traversa. Guarda la porta, poi abbassa la testa e poi si allontana. La finale è finita.

Tre a due per il Brasile dopo i calci di rigore. Taffarel si inginocchia nel cuore dell’area, braccia e volto al cielo. Per la prima volta il nome del Brasile è inciso alla base della Coppa del Mondo FIFA, un nome la cui assenza cominciava a pesare. I brasiliani srotolano lo striscione in onore di Senna. Il trofeo, consegnato dal vicepresidente americano Al Gore, è alzato da Dunga, che poi lo passa a un Romario completamente avvolto nella bandiera verdeoro. Ecco a voi il tetra! Il quarto titolo per la selecao, atteso ventiquattro anni, e ora finalmente nelle mani della nazionale brasiliana.
Mentre i brasiliani festeggiano, Sacchi abbraccia un Baresi affranto e in lacrime. Senza nulla togliere ai campioni, la nazionale sconfitta è quella più affascinante, in virtù della strada che ha percorso e delle storie che racchiude in sé. Non la più forte, perché a tale riguardo ha parlato il campo, ed è una voce più che sufficiente. Senza dubbio la fatica accumulata nel corso di un durissimo torneo ha prosciugato le forze azzurre in vista del traguardo. Dando sfoggio di onestà, il tecnico azzurro riconoscerà i meriti del Brasile e rammenterà, a chi lo critica, che un secondo posto sportivamente non è una tragedia ma un grande risultato. E ha ragione. La sconfitta di quel pomeriggio nella città degli angeli, in quell’estate del 1994, accomunerà per sempre il destino di Arrigo Sacchi e Roberto Baggio, ma non ne scalfisce il mito.
“Nella sua autobiografia lei racconta di avere sognato spesso il rigore di Pasadena, finale Mondiale 1994 contro il Brasile. E in sogno la palla entrava. Le capita ancora? Mi capita di ripensarci. E aggiungeva che prima o poi avrebbe trovato il senso di quell’errore, come lei ricorda ‘l’unico rigore della mia vita che abbia tirato alto, gli altri che ho sbagliato me li hanno parati i portieri’. Sono passati 23 anni: l’ha trovato, quel senso? No, non ancora. Ma ripensarci fa meno male, a distanza? No, è la stessa amarezza del 1994. Non è diminuita. Non passerà mai, penso” (estratto da un’intervista concessa da Roberto Baggio, nel 2017, in occasione dei suoi cinquant’anni4)Tommaso Pellizzari, Roberto Baggio: Ripenso ancora al rigore di Pasadena. E fa ancora male come il primo giorno…, Corriere della Sera).
1 dicembre 2019
References
1. | ↑ | Samantha Casella, John McEnroe, Rivista Contrasti |
2. | ↑ | Roberto Baggio, Una porta nel cielo, Limina, 2005 |
3. | ↑ | Stephane Regy, Lucas Duevernet-Coppola, Roberto Baggio: Proches des buts, j’avais l’impression que le temps ralentissait, So Foot |
4. | ↑ | Tommaso Pellizzari, Roberto Baggio: Ripenso ancora al rigore di Pasadena. E fa ancora male come il primo giorno…, Corriere della Sera |