“Quando i giocatori colombiani entrarono in campo furono fischiati, derisi, insultati. Quando ne uscirono, il pubblico li salutò alzandosi in piedi, con un’ovazione che ancora oggi risuona“1)Eduardo Galeano, Splendori e miserie del gioco del calcio, Sperling & Kupfer Editori, 1997. Sono straordinarie le immagini dei tifosi argentini assiepati sugli spalti dell’Estadio Monumental di Buenos Aires, mentre applaudono la nazionale colombiana in festa al centro del campo. È la sera del 5 settembre 1993 e la Colombia non solo ha appena sconfitto l’Argentina a domicilio, ma l’ha fatto per cinque a zero grazie alle reti di Rincon, Asprilla, ancora Rincon, ancora Asprilla, Valencia. Un risultato inaspettato, pazzesco, da leggenda.
La partita è valida per le qualificazioni al Mondiale. Nel girone, la selezione colombiana ha già superato gli argentini a Barranquilla per due a uno, ed è stato il primo passo falso dei biancocelesti da tre anni a questa parte, ovvero dalla finale del ’90. È anche la prima sconfitta della gestione Basile quale ct argentino. La forza dei colombiani è quindi conosciuta ma in parte sottovalutata, se l’argentino Ruggeri prima dell’incontro si esprime così: “Ho giocato due finali dei Mondiali e una di Copa America, e non mi sembra che dall’altra parte del campo ci fosse la Colombia”2)Simone Pierotti, Argentina-Colombia 0-5, Storie di Calcio. Goycoechea, l’eroe di Italia ’90, finisce sul banco degli imputati e forse si gioca il futuro posto di portiere titolare, ma ovviamente non è il solo colpevole di una tale disfatta, tutt’altro. Il giorno seguente El Grafico titola “Verguenza!” a tutta pagina su sfondo nero. In Colombia il paese è in festa. Si tenga in considerazione che il calcio argentino ha sempre avuto una particolare influenza su quello colombiano, in termini di giocatori (vedi Di Stefano), ma soprattutto per i tecnici (fra gli altri Zubeldia e Bilardo), e quindi è anche una sorta di parricidio.
I cafeteros pertanto raggiungono direttamente USA ’94, al culmine di un girone trionfale. L’Argentina deve passare attraverso la strettoia dello spareggio intercontinentale, e anche ringraziare il risultato di parità con il quale si chiude Perù – Paraguay, altrimenti l’albiceleste il Mondiale l’avrebbe visto soltanto in televisione. Ma lo zero a cinque del Monumental rimane un punto cruciale: è una crepa difficile da riparare, sorta nel bel mezzo delle certezze argentine; dall’altra parte, è un’esaltazione eccessiva nel percorso di crescita dei colombiani. A conti fatti, probabilmente, fa male a entrambe.
È un momento d’oro per il calcio colombiano, già attestato dagli ottavi di finale del Mondiale precedente. L’eccezionalità della fase emerge ancora di più se paragonata con quella che sino ad allora era considerato il vertice nella storia del calcio nazionale dei cafeteros, ovvero il Mondiale del ’62. La Colombia, il cui ct era l’argentino Pedernera, raccolse in quel torneo due sconfitte e l’immediata eliminazione, ma anche un rocambolesco pareggio per quattro a quattro contro i campioni d’Europa dell’URSS. Coll segnò su calcio d’angolo a Jascin – fra gli ispanofoni questo gol è chiamato olimpico e resta un unicum nella storia della Coppa del Mondo. Con un passato che può fregiarsi di un pareggio nella fase a gironi di un Mondiale quale massimo alloro, l’ebbrezza per l’attualità calcistica è quindi più che comprensibile.
La terra colombiana è diventata una fucina di talenti che la nazionale mette in mostra sui campi americani del ’94. In difesa ci sono Escobar, sulla fascia, e Perea in mezzo, entrambi dell’Atletico Nacional. Carlos Valderrama, con la sua caratteristica cascata di capelli biondi, è il talento in mezzo al campo – puro e indolente come un pomeriggio assolato sulle spiagge caraibiche. Poi a centrocampo operano anche Leonel Alvarez (Atletico Nacional e America de Cali) e Thomas Rincon, un giocatore versatile, anche offensivo, che transita in Europa vestendo le maglie di Napoli e Real Madrid. L’attacco è composto da Valencia (Bayern Monaco, Atletico Madrid) e Faustino Asprilla. Quest’ultimo è un attaccante spettacolare, atletico, non molto prolifico ma protagonista di grandi stagioni con il Parma, capace di vincere due Coppe UEFA, una Coppa delle Coppe e una Coppa Italia. Manca l’uomo che ha difeso i pali colombiani nel precedente Mondiale, Renè Higuita, sostituito da Oscar Cordoba – il quale non disputa un buon torneo, ma è un ottimo interprete del ruolo e vincerà due Libertadores e un’Intercontinentale con il Boca Juniors negli anni a venire. Higuita salta il Mondiale perché è in carcere. Ha svolto un ruolo di intermediario nel tentativo di risolvere un sequestro di persona, e tale comportamento è una violazione delle leggi penali colombiane. Ma in realtà si dice che il portiere paghi per aver reso pubblica ai giornalisti una visita al narcotrafficante Pablo Escobar, capo del cartello della droga di Medellin.
Già, perché la Colombia di quegli anni, oltre a sfornare ottimi calciatori, è diventata anche il principale produttore ed esportatore di droga del mondo. Questo primato genera ovviamente una valanga di denaro, accompagnato da una violenza senza sosta, e la Colombia è ormai il paese più pericoloso del pianeta: nella sola Medellin, a cavallo dei decenni Ottanta e Novanta, si contano in media diecimila morti ammazzati all’anno. Gli enormi proventi del narcotraffico vengono reinvestiti dai narcos anche nel calcio, affinché il denaro sporco sia riciclato, e altresì per assicurarsi un autentico favore popolare tra le fasce più disagiate. Edificano campi da calcio nei barrios più degradati e organizzano tornei coinvolgendo migliaia di bambini e ragazzi poveri altrimenti destinati alla strada. Il sostegno del popolo è reale e difficile da biasimare. Lo descrive senza giri di parole il calciatore Alvarez – uno di quei ragazzini – nell’appassionante documentario The two Escobars (2010): “Si parlava di chi donava i campi, e si avanzavano critiche perché era un trafficante, ma noi ci sentivamo fortunati. Perché ci regalavano campi di calcio, e non droga”.
Gli imprenditori del narcotraffico giudicano utile ai loro fini anche l’acquisto dei principali club professionistici del Paese, e così ciascuno dei principali raggruppamenti criminali ha la sua squadra di calcio: ad esempio José Gonzalo Rodriguez Gacha detto El Messican gestisce il Millionarios di Bogotà, mentre i fratelli Rodriguez Orejela, del cartello di Calì, sono i proprietari dell’America; il più potente boss della droga del paese e forse del mondo, Pablo Escobar, controlla invece le due principali formazioni di Medellin, ovvero l’Indipendiente e soprattutto l’Atletico Nacional. L’afflusso di tanto denaro garantisce ai club colombiani la disponibilità di ingenti investimenti, quindi l’acquisto di giocatori dall’estero e la possibilità di trattenere, almeno per alcuni anni, i talenti emergenti nati in casa. E arrivano quindi i risultati. L’Atletico Nacional diventa la prima squadra colombiana a mettere le mani sulla Copa Libertadores: accade nel 1989 quando sconfigge l’Olimpia Asuncion, ai rigori e grazie ai prodigi di Higuita – quattro tiri parati, oltre a un rigore realizzato. La stessa squadra di Medellin riuscirà a raggiungere le semifinali nelle due edizioni successive del torneo, ma troverà in entrambi i casi la formazione paraguaiana dell’Olimpia a sbarrargli al strada per la finale.
Si ripete all’epoca in Colombia una paradossale e sinistra coincidenza: il miglioramento della lega professionistica di calcio va di pari passo con un contemporaneo clima di esasperati disordini sociali – perché il paese non solo è attraversato dalla piaga del narcotraffico, ma è anche teatro di una guerriglia condotta da gruppi di ispirazione guevarista, e subisce inoltre la violenza brutale, senza limiti, delle formazioni paramilitari di destra filogovernative. Tra il ’49 e il ’54 molti validi giocatori provenienti dal resto del mondo (fra i quali gli argentini Pedernera, Nestor Rossi, Hector Rial e il giovane Di Stefano, che all’epoca erano in sciopero in patria contro il governo peronista) furono attratti in Colombia dall’apertura al professionismo e dall’offerta di alti salari: tutto ciò consentì la nascita di un campionato di elevato livello, benché non riconosciuto dalla FIFA, e passato alla storia con l’eloquente epiteto di El Dorado. Più o meno negli stessi anni l’esplosione di rivolte popolari aveva ricevuto come unica e sostanziale risposta un massacro di massa, operato dalle forze armate ai danni di comunisti e liberali di sinistra, e il periodo è stato definito con l’altrettanto eloquente termine di La Violencia.
Ma nel calcio colombiano degli anni Ottanta e Novanta oltre ai criminali ci sono anche personaggi di notevole spessore, e fra questi emerge con la sua capacità e il suo carisma Francisco Maturana, È sulla panchina dell’Atletico Nacional quando conquista la Coppa Libertadores e in carriera allena altresì l’America di Cali (campione nazionale nel ’92). È selezionatore a più riprese della nazionale, con la quale vince la Coppa America casalinga del 2001 – segnata da molte assenze -, ed è l’uomo che guida la Colombia durante i Mondiali del ’90 e del ’94.
Maturana nasce in una regione povera della Colombia; studia come dentista e gioca a calcio, con buoni risultati, poi decide di dedicarsi interamente allo sport e arriva alla panchina della nazionale con appena un anno di esperienza come allenatore. Ammira il calcio olandese e teorizza un gioco basato sul possesso palla, sulla difesa a zona e molto alta (con la conseguente necessità di avere un portiere abile con i piedi); vuole cinque linee in campo, incluso il portiere, distanti non più di dieci metri l’una dall’altra e disciplinate da movimenti coordinati. È influenzato da Josè Ricardo de Leon, un allenatore uruguaiano innovatore, teorico del pressing e di un calcio da interpretare come una pallacanestro giocata con i piedi, artefice di uno storico titolo uruguaiano con il Defensor Sporting nel 1976 che mette fine a quarantacinque anni di dominio incontrastato di Penarol e Nacional. Deve molto anche a Osvaldo Zubeldia, che lo ha allenato e che, a suo parere, ha cambiato il calcio colombiano, portandogli in dote la professionalità e la dovuta attenzione alla strategia. Maturana è un intellettuale che distribuisce libri di poesie ai suoi giocatori, in particolare quelle di Mario Benedetti. Predica umiltà – Arrigo Sacchi racconta che, prima della finale di Intercontinentale del 1989, i giocatori dell’Atletico Nacional attesero quelli del Milan per chiedere loro l’autografo, e lì il tecnico italiano capì quanto avrebbero faticato in campo3)Arrigo Sacchi, Calcio totale, Mondadori, 2015 (per la cronaca, il Milan vince soltanto allo scadere dei supplementari, grazie a una punizione di Evani, al culmine di una partita non bella ma duramente contesa). Maturana coglie il valore dell’unità della squadra, dell’attaccamento alla maglia, per cui sceglie per il suo club solo giocatori colombiani, soprattutto provenienti dalla regione di Medellin, Antioquia, e così vengono definiti i puros criollos. Paragona la sua nazionale a Cent’anni di solitudine, il capolavoro di Gabriel Garcia Marquez. “Usavamo uno stile di gioco che esprimeva che cos’era la Colombia, ovvero un popolo conosciuto per la sua felicità, un popolo di sognatori facilmente inspirato, ma al cui interno abbiamo edificato un ordine”4)Carl Worswick, The dentist of Medellin, The Blizzard n. 22.
Forte del trionfo di Baires, della crescita del movimento calcistico nazionale, di talenti oramai noti in tutto il globo e delle capacità del suo ct, la Colombia si presenta negli Stati Uniti addirittura fra le favorite al titolo. Dirà poi Maturana di avere sempre ritenuto più forte la squadra del ’90, più organizzata anche se con meno talento individuale5)Mauricio Silva Guzman, Intervista a Maturana, Revista Libero n. 9, ma le aspettative sono notevoli e devono essere gestite. Di sicuro per i calciatori professionisti colombiani, già impegnati nei club, non è di aiuto il carico di fatica lasciato da una lunga serie di amichevoli ufficiali e non, giocate in giro per il mondo, che la squadra deve sostenere per ragioni commerciali più che calcistiche, ovvero assecondare i voleri del gigante colombiano nella vendita di birra Bavaria. (Non cercatele nelle statistiche, ma fra le amichevoli che i colombiani sono tenuti a disputare ce n’è almeno una presso la reggia travestita da prigione che in quel periodo ospita il narcos Escobar). L’esordio mondiale vede la nazionale colombiana affrontare quella romena il 18 giugno, a Los Angeles. E per i cafeteros è subito un disastro.
La Colombia scende in campo con: Cordoba; Escobar, Herrera, Perea, Perez; Gomez, Valderrama, Alvarez, Rincon; Valencia, Asprilla. Risponde la Romania: Stelea; Prodan, Belodedici, Mihali; Petrescu, Lupescu, Hagi, Monteanu, Popescu; Dumitrescu, Raducioiu. Dopo un quarto d’ora di gioco si assiste allo splendido, folgorante vantaggio rumeno: Mihali esce in anticipo sulla propria tre quarti e scarica su Hagi, che scatta centralmente, penetra nella metà campo avversaria e apre per Raducioiu, in area sulla sinistra. L’attaccante esegue un dribbling rientrante su due colombiani, Perea ed Herrera – da parte loro un po’ timidi e incerti – e poi scarica in rete. La Colombia non ci sta e reagisce. Un grande intervento di Stelea su Valencia nega il pareggio colombiano; poi si assiste ancora a una respinta miracolosa dell’estremo difensore su conclusione di Rincon da pochi passi – ma qui l’errore è dell’attaccante. È indicativo come, a conti fatti, la Colombia risulterà la squadra con la media tiri più alta di tutto il torneo.
“Il calcio è come la geometria. Serve vedere gli angoli, sentire lo spazio, vedere le linee e le traiettorie. Impari la geometria in campo!”6)Emanuel Rosu, “En EEUU 94 yo era como una bomba”, intervista a Gica Hagi, Revista Libero n. 25, così dirà un giorno il leader rumeno Hagi, che è in forma pazzesca e sfiora il gol con un pallonetto dalla grande distanza. Vale come un avviso. Poco oltre la mezzora Hagi controlla la sfera dalle parti della linea laterale, a trentacinque metri dalla porta avversaria; vede il portiere un po’ fuori dai pali e quindi scocca con il sinistro un tiro magnifico, una parabola inaspettata che si impenna e poi scende al momento giusto per infilarsi in rete. Il dieci rumeno festeggia il prodigio e il raddoppio con un balletto. Prima del riposo la Colombia riesce finalmente a segnare con Valencia, di testa su corner, e poco prima lo stesso Valencia con un tiro da fuori area aveva costretto Stelea a un nuovo intervento in volo per salvare la propria porta.
A metà gara quindi la Colombia è sotto per due a uno. Ha avuto occasioni ma soffre maledettamente questa Romania, capace nella ripresa di sfiorare anche il terzo gol. Hagi non si ferma e carica di ammonizioni i suoi avversari (Valderrama e Alvarez). I sudamericani raccolgono un paio di buone occasioni capitate suoi piedi di Asprilla, che non è in giornata, e in un caso respinge Stelea, nell’altro l’attaccante colombiano calcia fuori. Ma ci pensa la premiata ditta Hagi – Raducioiu a chiudere l’incontro: lancio lungo del primo per il secondo, Cordoba esce male e non agguanta il pallone, consentendo così a Raducioiu di scappargli via e scagliare la sfera nella porta sguarnita.
Tre a uno per la Romania – è stata una grande partita, e un altrettanto grande sorpresa. La sconfitta rompe qualcosa nelle certezze colombiane, forse non così solide, e precipita la situazione. Rammenterà Asprilla il dramma nel quale lui e i suoi compagni sprofondano mentre si stanno avvicinando alla partita successiva con gli USA: una tensione palpabile, con giocatori muti e paralizzati dalla paura7)Barry Glendenning, World Cup stunning moments: Andres Escobar’s deadly own goal, The Guardian.
La formazione colombiana è stata insufficiente, ma nel contempo ha mostrato sprazzi di gioco intenso e pericoloso, e nulla al momento sarebbe perduto. Per la sfida che li vede contrapposti ai padroni di casa, Maturana mette in campo Gaviria e de Avila per Gomez e Valencia, poi quest’ultimo entrerà a metà incontro al posto di Asprilla. Nel primo tempo la Colombia potrebbe portarsi in vantaggio quando un tiro ravvicinato è parato dal portiere statunitense, poi rimpalla sul palo e poi finisce a de Avila, che conclude a botta sicura soltanto per vedere la palla respinta sulla linea di porta da Balboa. Di sicuro non sono fortunati i cafeteros, ma qualcosa nella squadra continua a non funzionare per il verso giusto. Wynalda entra in area colombiana e scocca un diagonale che accarezza il palo lontano. Poco dopo, è il minuto trentaquattro, la Colombia perde malamente la palla a centrocampo. Harkes crossa in area, dove Escobar si allunga per anticipare l’attaccante avversario e così tocca la palla, che rotola beffarda e tragica nella propria rete. La Colombia non si rialza più: nella ripresa c’è un gol annullato a Lalas per fuorigioco (ma forse è buono), e al settimo gli Stati Uniti raddoppiano con Stewart, lanciato da Ramos. Il gol di Valencia al novantesimo serve soltanto a fissare il due a uno finale.
Prima dell’incontro con la Svizzera, la Colombia è quasi eliminata. Servirebbe una vittoria e una contemporanea sconfitta della Romania, e poi ancora il confronto con le altre migliori terze per il ripescaggio. Ma nulla di questo accade, salvo l’inutile vittoria sugli svizzeri per due a zero. Dirà poi Maturana che la squadra aveva raggiunto il proprio picco nelle qualificazioni, e poi aveva imboccato una fase di calo. Era stato profetico Bolillo, l’assistente del ct, quando al quarto gol colombiano contro l’Argentina, aveva bisbigliato: “Ora siamo fottuti”8)Carl Worswick, cit.. Dopo sole tre partite la nazionale colombiana torna a casa. Andres Escobar, che aveva accettato di commentare il torneo per il quotidiano colombiano El Tiempo, esprime nel suo ultimo articolo tutta la tristezza e la delusione per l’esito terribilmente negativo della spedizione; ma nel contempo riesce a concludere il pezzo con parole pacate, dalle quali emerge una sana voglia di ricominciare: “Per favore, manteniamo il rispetto… Un abbraccio forte a tutti, è stata un’opportunità e un’esperienza fenomenale, rara, che mai avevo provato nella mia vita. Ci vediamo presto perché la vita non finisce qui”9)Andre Escobar, Nos faltò berraquera, El Tiempo del 29 giugno 1994.
È come un brusco risveglio, un ritorno alla realtà per la Colombia. Tutta quella violenza, quella polvere bianca, il lusso, i soldi, insomma tutta quella merda è fuoriuscita e ormai ha invaso la società. Non si tratta soltanto di figure di contorno, per quanto ingombranti. E il calcio non sta in una bolla di vetro. Nel 1988 l’arbitro Armando Perez è rapito per ventiquattro ore, con l’invito a non prendere errate decisioni in campo. L’anno dopo Alvaro Ortega viene assassinato dopo aver arbitrato Indipendiente Medellin – America Cali, vinta dai secondi. I direttori di gara scendono in sciopero e il campionato è annullato. Tre mesi prima del Mondiale viene rapito il figlioletto del nazionale Herrera, poi fortunatamente rilasciato, mentre il fratello dello stesso Herrera è assassinato durante il torneo iridato. E ancora, come se non bastasse, si racconta che dopo la partita con la Romania, sui televisori a circuito chiuso presenti nell’albergo che ospita i colombiani siano comparse esplicite immagini di minaccia10)Barry Glendenning, cit.. Si parla di un giro di scommesse sui risultati della nazionale. Minacce di ritorsione vengono recapitate a Maturana nel caso avesse ancora impiegato Gomez – che è fratello dell’assistente del ct; Gomez non scende più in campo e decide di tornare a casa in anticipo, distrutto.
La sera del 2 luglio del 1994 – il Mondiale è nel suo pieno svolgimento – Andres Escobar si trova con amici in una discoteca di Medellin chiamata El Indio. Alcuni soggetti poco raccomandabili lo predono di mira, lo provocano, lo deridono per l’autogol realizzato contro gli USA. Escobar li invita a smetterla e poi esce dal locale, ma non basta perché la naturale reazione del calciatore, per ceffi di quella specie, rappresenta comunque un affronto: una guardia del corpo dei suoi persecutori lo raggiunge nel parcheggio, estrae un arma e spara, uccidendolo. Si capirà negli anni come la recente morte del narcotrafficante Pablo Escobar (nessuna parentela tra i due) abbia lasciato un pericoloso vuoto di potere che diverse famiglie tentano di occupare, e fra queste ci sono i Gallon Henao, responsabili dell’omicidio. La morte di Andres Escobar sconvolge la Colombia. Colpisce l’intero mondo del calcio e costituisce un buco nero nella storia dei Mondiali che non si chiuderà mai.

Ma la tragedia colombiana si inserisce nella crisi più generale in un intero continente, quello latinoamericano, che in quegli anni esce fuori dalle macerie lasciate in eredità dalle dittature militari. Si parla di decada perdida riferendosi agli Ottanta, spesso estendendo il giudizio anche ai Novanta, poiché è un periodo in cui l’economia è al tracollo: si assiste all’esplosione del debito estero, accompagnato da deficit fiscale, inflazione, crollo della moneta. Le politiche neoliberiste applicate massicciamente nei Novanta generano poi sconquassi sociali i cui effetti si riverberano anche nel calcio. Così in Brasile gli spettatori nelle arene calcistiche diminuiscono mentre cresce la violenza – restano impressi i tremendi scontri che accompagnano la finale di Libertadores tra Palmeiras e America Cali, a San Paolo nel ’99. In contemporanea, e non è un caso, si diffonde fra i calciatori un movimento religioso di ispirazione evangelico fondato nel 1984 e chiamato gli Atleti di Cristo: in breve raggiungerà i settemila aderenti – tra cui sei campioni del Mondo11)David Goldblatt, The ball is round, Penguin Books, 2007 – e una fama a livello internazionale. A fine decennio la violenza dilaga anche in Cile, soprattutto nei derby di Santiago tra Colo-Colo e Universidad. La situazione più drammatica si vive in Argentina, dove le tifoserie violente organizzate e spesso coinvolte in attività illegali di vario tipo, dette barras bravas, seminano il panico: nel solo anno 1992 si contano nel paese dodici morti per incidenti legati al calcio e nel ’94, dopo il derby River Plate – Boca Juniors, due tifosi del Boca sono uccisi da colpi di arma da fuoco esplosi da un veicolo in transito. In alcuni momenti si deve ricorrere alla sospensione del campionato.
Abbiamo lasciato la nazionale argentina in attesa di affrontare lo spareggio intercontinentale. L’avversario è l’Australia. I sudamericani si aggiudicano il posto per i Mondiali, non senza patemi – uno a uno a Sidney con reti di Balbo per gli argentini e Vidmar per gli australiani, uno a zero a Buenos Aires grazie al gol di Batistuta – e almeno in parte salvano l’onore perduto. Il dato saliente che emerge dal confronto è però costituito dal ritorno in nazionale di Diego Armando Maradona, il quale, salvo due amichevoli a inizio anno, non vestiva la maglia della seleccion dalla finale di Roma. In mezzo c’è stata la squalifica per doping. Nel bene e nel male, Maradona sarà ancora l’artefice dei destini biancocelesti nel Mondiale.
L’Argentina vice-campione del Mondo in quegli anni sembra viaggiare con il vento in poppa e mostra la convinzione di poter allungare il proprio momento d’oro, iniziato con la coppa del 1978 e proseguito con un altro titolo e una finale. In panchina c’è Alfio Basile, prima allenatore del Racing di Avellaneda: la sua idea di un calcio offensivo riporta il pendolo del gioco dalle parti di Menotti dopo gli anni bilardisti (da giocatore è stato anche allenato da Menotti, nell’Huracan). Con Basile alla guida, l’Argentina mette le mani su due titoli continentali in due anni. Nel 1991, in Cile, la Copa America è assegnata al termine di un girone all’italiana, nel quale gli argentini si impongono su Brasile (in una sfida abbastanza turbolenta – tre a due il conto dei gol, mentre il conto degli espulsi è tre a due per i brasiliani), Cile e Colombia. In quell’occasione esplode il talento di Simeone e soprattutto di Batistuta, le cui prestazioni gli garantiscono un contratto in Italia, alla Fiorentina. Nel 1993 il torneo è ospitato dall’Ecuador; cambia la formula e dopo la fase a gironi si passa all’eliminazione diretta con i quarti di finale. Qui le partite iniziano a diventare impegnative per gli argentini e servono i calci di rigore per superare Brasile e Colombia: in entrambi i casi è decisivo Goycoechea. Poi in finale l’Argentina sconfigge il Messico per due a uno (doppietta di Batistuta e momentaneo pareggio di Galindo). A posteriori la conquista di questo trofeo si imprimerà nella memoria dei tifosi, poiché sarà l’avvio di una lunga fase di digiuno di vittorie per i biancocelesti.
L’ottimo stato di salute del calcio argentino è anche confermato dai risultati conseguiti dal Velez Sarsfield, la formazione allenata da Carlos Bianchi capace di raggiungere la finale di Libertadores nell’anno del Mondiale. Qui l’aspetta il forte San Paolo, campione sudamericano nei due anni precedenti. Sfavorito, il Velez vince in casa uno a zero, poi difende strenuamente un passivo analogo nella partita di ritorno, nonostante si ritrovi con un giocatore in meno dopo un’ora (e nel complesso con ben sei ammoniti). Vince poi ai calci di rigore grazie all’ottimo portiere paraguaiano Chilavert, che para un tiro avversario e realizza uno dei rigori dei suoi. Sempre nettamente sfavorito, il Velez riuscirà a conquistare anche la Coppa Intercontinentale del ’94, sconfiggendo il Milan di Capello per due a zero.
Dunque è un’Argentina che domina, o almeno è così sino alla disgraziata notte in cui è asfaltata a domicilio dai colombiani. In ogni caso presenta ai Mondiali una gran squadra – direi fantastica dalla cintola in su –, potenzialmente in grado di riportare a Buenos Aires la Coppa del Mondo. Ecco la formazione tipo: Islas in porta; Sensini, Ruggeri, Caceres e Chamot in difesa; a centrocampo troviamo Simeone, Redondo e Maradona, capitano della squadra, mentre il terzetto di attacco è formato da Balbo, Batistuta e Caniggia. Oltre al determinante apporto garantito sotto vari aspetti dalla presenza in campo di Maradona, due stelle brillano di luce purissima nel firmamento della seleccion, e sono Batistuta e Redondo. Miglior marcatore nella storia della nazionale argentina, Gabriel Omar Batistuta è una punta potente, prolifica, forte di testa e con ottimo senso del gol – solo un po’ carente nei calci di rigore. Dopo un titolo nazionale con il Boca, sbarca a Firenze dove vince solo una Coppa Italia ma realizza una notevole quantità di reti; conquista poi il titolo italiano da protagonista con la Roma. Temibilissimo, è uno degli attaccanti più forti dei Novanta in assoluto. Fernando Redondo è un play basso con grandi capacità di recupero, intelligenza e visione tattica. Ha l’animo del leader. Inizia con l’Argentinos Junior, poi in Europa veste le maglie del Tenerife (’90 – ’94) e del Real Madrid sino al 2000, dove conquista due Coppe dei Campioni. Passa alla storia la sua prestazione a Manchester contro lo United nella Champions edizione 2000. Gli unici Mondiali che gioca sono quelli americani. Quattro anni prima rinuncia alla convocazione per non interrompere gli studi in legge, che comunque non completerà – è un’intellettuale Redondo, ama Borges e Garcia Marquez, ed è il rampollo di un’agiata famiglia di industriali; invece quattro anni dopo rinuncia per non doversi tagliare i capelli. Quando arrivano i Mondiali del 2002, la sua carriera è di fatto già conclusa – anche se terminerà ufficialmente due anni dopo – a causa di un infortunio patito non appena è stato ingaggiato dal Milan. Subisce tre interventi chirurgici che non risolvono granché, e a causa della prolungata assenza dai campi rinuncia a parte dello stipendio (viste le premesse, non pare un sacrificio così pesante). Ma i suoi problemi fisici forse cambiano la storia, poiché conducono in sua vece all’utilizzo, come regista basso del Milan, di Andrea Pirlo.
Sorteggiata in un girone si rivelerà come una chiave di volta dell’intero Mondiale, il girone D, l’Argentina debutta contro la Cenerentola del gruppo, la debole Grecia al suo esordio nella Coppa – che chiuderà con tre sconfitte, dieci gol al passivo e zero all’attivo. Argentina – Grecia termina quattro a zero. I sudamericani sono protagonisti di un gran calcio in una partita sin da subito in discesa grazie al gol segnato già al secondo minuto. Batistuta, dirompente, realizza una tripletta, ma la marcatura che passa alla storia è la terza e non è di Batistuta: serie di passaggi di prima intenzione al limite dell’area, poi conclusione in rete, imparabile, a fil di palo. L’autore del gol è Maradona, che poi corre verso la telecamera, urlando con occhi spiritati, e contribuisce così anche a cambiare il modo di festeggiare i gol sul campo di gioco. Se non ve ne foste accorti, Maradona è tornato.

Il secondo incontro della seleccion – Foxboro Stadium di Boston, 25 giugno 1994 – è contro la Nigeria e non è una passeggiata. Parte bene l’Argentina, sfiora il gol in un paio di occasioni (fra le quali un colpo di testa di Sensini salvato dagli africani sulla linea), ma è a sorpresa la Nigeria a passare in vantaggio dopo otto minuti: palla rubata a centrocampo e veloce break che infila l’Argentina per vie centrali, con pallone messo in rete da Siasa. La Nigeria prova addirittura il raddoppio con una discesa sulla destra di Yekini, la cui conclusione è respinta da Islas. A questo punto si scatena Caniggia, che è in gran forma e ai Mondiali, con la casacca biancoceleste sulle spalle, si esalta. Minuto ventidue, punizione di Batistuta non trattenuta dal portiere Rufai, il Figlio del vento si avventa sulla palla e pareggia. Sette minuti dopo l’Argentina batte un’altra punizione in fase d’attacco: la retroguardia nigeriana si dimentica completamente di Caniggia, che chiama a gran voce il pallone; Maradona glielo serve, Caniggia entra in area indisturbato in posizione defilata e con un bel tocco sotto scavalca il portiere, mettendo la palla sul palo lontano.
Due a uno per l’Argentina dopo quarantacinque minuti tiratissimi. La ripresa è meno intensa, ma ci provano entrambe a segnare: Adepoju, entrato a gara in corso per la nazionale nigeriana, ha sui piedi una bella opportunità in area ma spara fuori; Oliseh semina il panico tra i difensori argentini, poi Yekini conclude da fuori area, senza inquadrare lo specchio; dall’altra parte Redondo danza in area prima di scaricare un gran tiro, parato splendidamente da Rufai. Al fischio finale l’Argentina ha portato a casa una partita molto difficile e ha più che un piede negli ottavi di finale.
Mentre i giocatori escono dal terreno di gioco, la telecamera inquadra Maradona: sorride e cammina mano nella mano con una ragazza vestita di bianco, un’infermiera che lo sta accompagnando al controllo antidoping. Dopo alcune ore le agenzie lanciano la scioccante notizia che mette fine al Mondiale del Pibe de oro: positività all’efedrina, una sostanza stimolante vietata. La FIFA lo squalifica e la federazione argentina lo scarica. Maradona ammette l’errore, dice di aver assunto una bevanda energetica fornitagli dal suo preparatore atletico, la cui versione americana contiene appunto l’efedrina – anche se in un primo momento parla di una sostanza simile all’aspirina; poi nel corso degli anni sosterrà sempre la tesi del complotto ordita ai suoi danni dai vertici del calcio mondiale, a causa delle critiche esplicite da lui espresse alla viglia del torneo in merito ai folli orari delle partite. È la pietra tombale sulla fantastica carriera di calciatore di Maradona – l’ultimo reduce fra i grandi degli anni Ottanta: come se la sua presenza fosse ormai diventata un anacronismo, un errore, un dato da correggere e da portare a termine.
La botta è dura per la seleccion. Con Rodriguez in campo al posto di Maradona, e – come se non bastasse – Caniggia fuori gioco nel primo tempo per infortunio, il primo segnale del possibile tracollo si materializza nella sfida contro la Bulgaria: un’Argentina contratta, incapace di rendersi pericolosa e abbastanza irriconoscibile rispetto alle prime uscite, viene sconfitta per due a zero. Pertanto tre formazioni chiudono il girone a quota sei punti; i sudamericani hanno gli stessi gol fatti e subiti della Bulgaria, ma hanno perso lo scontro diretto, per cui si qualificano al turno successivo tra le migliori terze. Qui li aspetta un avversario per niente semplice: la Romania.
Basile rimpiazza gli assenti Maradona e Caniggia con Ortega – un giovane e promettente fantasista, ma che risulterà insufficiente a termine gara – e Basualdo, un mediano. Fra i romeni manca la punta Raducioiu per squalifica e la suo posto è impiegato Dumitrescu come una sorta di falso nove, con la squadra rimodellata dal 3-5-2 al 3-6-1 (o meglio, un prudente 5-4-1).; in porta Prunea ha preso il posto di Stelea. Arbitra l’italiano Pairetto, si gioca all’una mezza di domenica 3 luglio 1994, al Rose Bowl, ed è forse la migliore partita di tutto il Mondiale.
Nei primi minuti di gioco pare che l’Argentina si sia lasciata alle spalle il traumatico abbandono del suo capitano. Attacca, impegna il portiere avversario con conclusioni di Balbo e Batistuta, e va molto vicino al vantaggio: con una grandiosa progressione Simeone scarta un paio di avversari e offre un assist sontuoso a Balbo, che è solo davanti al portiere avversario ma è lento e Prunea blocca la sfera. Poi agli spettatori dell’incontro sono offerti sette minuti prodigiosi. All’undicesimo Dumitrescu calcia una punizione dalla sinistra dell’area di rigore direttamente in porta – è rete, uno a zero. Al sedicesimo Batistuta prova a fuggire a Prodan sulla linea di fondo, il difensore allunga ingenuamente un braccio, commette fallo e il direttore di gara assegna il rigore; va sul dischetto lo stesso Batistuta, tira all’angolo basso di sinistra, e fa uno a uno. Minuto diciottesimo: Hagi, sempre più deus ex machina di questa squadra, apre il campo verso Lupescu, che gli restituisce la palla; dalla fascia destra il dieci rumeno sforna un geniale passaggio smarcante per Dumitrescu, che di prima infila il portiere argentino. Grande azione rumena – due a uno!
La Romania non si placa, l’Argentina è una bestia ferita e i capovolgimenti di fronte sono repentini: Dumitrescu in mezzo per Popescu, para Islas; ripartenza e azione fotocopia argentina, con Balbo in mezzo per Ortega, senza esito; ancora dall’altra parte, Hagi è solo in area, esce Islas, poi la palla giunge a Popescu che spara a botta sicura, ma un miracolo in volo del portiere argentino salva la rete. I biancolcelesti non ci stanno, sfiorano il pari con Batistuta che da buona posizione calcia la sfera fuori, e con Balbo, di testa in tuffo su cross di Ortega, con la palla che lambisce la base del palo. Risponde allora la Romania in contropiede proprio allo scadere della prima frazione di gioco: Mohali per un Dumitrescu incontenibile che, solo davanti a Islas, lo scavalca con un pallonetto prima che Caceres spazzi via quasi sulla linea di porta.
Ripresa, pronti via: dopo una manciata di secondi Batistuta entra in area, scarica il tiro e Prunea mostra grandi riflessi nel respingere. L’Argentina spinge finché si arriva al minuto cinquantotto. Dumitrescu ruba la palla a Basualdo sulla propria tre quarti, corre per cinquanta metri palla al piede, rallenta, vede arrivare Hagi sulla destra e lo serve, tocco di prima intenzione del Maradona dei Carpazi, tre a uno. Se l’Argentina ha un pregio, è quello di provarci anche nella situazione disperata in cui è precipitata: a un quarto d’ora dal termine, su tiro non irresistibile di Simeone da fuori, Prunea, sin lì pressoché perfetto, non trattiene e Balbo ribatte in rete. La televisione mostra Maradona che esulta sugli spalti, a fianco del telecronista argentino, ma il gol che accorcia lo svantaggio è l’ultima fiammata argentina. Nei minuti finali saranno gli est-europei a sfiorare la marcatura, sulle ali dell’entusiasmo, ancora una volta con Dumitrescu e con Petrescu. Tre a due finale, la Romania approda ai quarti.
L’Argentina saluta il Mondiale, e questo è un tonfo che fa rumore. Era un’Argentina forte per davvero, ma si è sfaldata assieme alla tragica parabola del suo figlio calcistico più grande; o chissà, forse no, forse era irrimediabilmente perduta già da prima, da quella notte in cui i peggiori fantasmi dei biancocelesti avevano preso le sembianze reali di undici giocatori colombiani, sul sacro suolo del Monumental di Baires…
Il fallimento di due potenziali grandi protagoniste del torneo come Colombia e Argentina è la spia di una crisi del calcio sudamericano, che qualifica soltanto una nazionale su otto ai quarti di finale. Ma si tratta del Brasile, futuro campione, per cui le difficoltà sono ben mascherate e passano sotto silenzio. Tra l’altro, il fatto si verifica durante l’edizione del torneo che marca un chiaro salto di qualità nella diffusione televisiva del calcio in America Latina: il deciso aumento del numero di televisori presenti fra la popolazione è accompagnato dal miglioramento dei sistemi satellitari e dal massiccio invio di personale sul campo da parte dei principali network12)Ibidem.
Almeno per occhi attenti però, i tentennamenti delle nazionali sudamericane – un anticipo di anni ancora più difficili – si inseriscono su di un solco già tracciato: sempre finaliste e due volte campioni tra il 1990 e il 2002, in questo periodo mandano in semifinale solo quattro squadre su sedici (e se aggiungiamo le Coppe del 1982 e del 1986, appena cinque su ventiquattro). Il tutto a vantaggio delle europee. Il tradizionale confronto fra stazze calcistiche continentali, Europa e America del Sud, è sempre più sbilanciato a favore il vecchio continente, benché la supremazia ancora non si esprima in termini di vittorie finali. Ma dopo il 2002 prenderà una svolta decisamente più netta.
1 dicembre 2019
References
1. | ↑ | Eduardo Galeano, Splendori e miserie del gioco del calcio, Sperling & Kupfer Editori, 1997 |
2. | ↑ | Simone Pierotti, Argentina-Colombia 0-5, Storie di Calcio |
3. | ↑ | Arrigo Sacchi, Calcio totale, Mondadori, 2015 |
4. | ↑ | Carl Worswick, The dentist of Medellin, The Blizzard n. 22 |
5. | ↑ | Mauricio Silva Guzman, Intervista a Maturana, Revista Libero n. 9 |
6. | ↑ | Emanuel Rosu, “En EEUU 94 yo era como una bomba”, intervista a Gica Hagi, Revista Libero n. 25 |
7. | ↑ | Barry Glendenning, World Cup stunning moments: Andres Escobar’s deadly own goal, The Guardian |
8. | ↑ | Carl Worswick, cit. |
9. | ↑ | Andre Escobar, Nos faltò berraquera, El Tiempo del 29 giugno 1994 |
10. | ↑ | Barry Glendenning, cit. |
11. | ↑ | David Goldblatt, The ball is round, Penguin Books, 2007 |
12. | ↑ | Ibidem |