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Sudafrica, 2010
VIII. Spagna, finalmente!

La Coppa del Mondo finirà in mani nuove. Spagna e Olanda, le selezioni che scendono sul terreno di gioco del Soccer City Stadium di Johannesburg nella sera dell’undici luglio 2010, non hanno infatti mai vinto un Mondiale: è un evento che non accadeva da parecchio tempo, precisamente dalla finale dell’edizione 1978. Gli olandesi però giocano la loro terza finale, e questo vuol dire che hanno perso le altre due, mentre per gli spagnoli è la prima volta.

Oltre alla consueta cerimonia di chiusura del torneo, una lunga introduzione precede il fischio di inizio. Intanto il trofeo è portato in campo da Cannavaro, capitano dell’Italia campione in carica ancora per poche ore. Poi compare Nelson Mandela, che compie un giro del campo su una macchinina per la sua ultima apparizione pubblica (morirà tre anni dopo), e nello stesso stadio in cui tenne il suo primo discorso pubblico dopo la liberazione dal carcere nel 1990. A squadre schierate sul campo, i relativi capitani presentano i compagni al presidente del Sudafrica Zuma – onnipresente, consegnerà anche la coppa – e al suo codazzo che include il presidente della federazione internazionale Blatter.

Ecco le formazioni delle due contendenti al titolo. Spagna: Casillas (cap.); Sergio Ramos, Piqué, Puyol, Capdevila; Busquets, Xabi Alonso; Pedro, Xavi, Iniesta; Villa. Paesi Bassi: Stekelenburg; van der Wiel, Heitinga, Mathijsen, van Bronckhorst (cap.); de Jong, van Bommel; Robben, Sneijder, Kuyt; van Persie. All’apparenza disposte in modo speculare, in realtà un autentico 4-2-3-1 è messo in campo soltanto dagli olandesi, e si tratta comunque di due squadre piuttosto diverse tra di loro. Ma un elemento le accomuna, ovvero il fatto di sfoggiare entrambe tenute da gioco molto eleganti, gli olandesi tutti in arancione, gli spagnoli in blu scuro. La terna arbitrale è inglese, coadiuvata da due giapponesi; dirige l’incontro Howard Webb.

È una partita colma di episodi, ma al netto del naturale carico di emozioni che porta in dote una finale mondiale, nel complesso non si potrà definire una bella partita, salvo in alcuni passaggi pregevoli ma circoscritti. Soprattutto, si risolve in una contesa nervosa e molto, troppo fallosa, che l’arbitro non riuscirà mai a riportare completamente sotto controllo nonostante le innumerevoli sanzioni comminate: l’Olanda riceve in tutto dieci cartellini gialli, e con nove giocatori ammoniti eguaglia il record stabilito dal Portogallo nel 2006 (proprio contro gli olandesi), mentre la Spagna conta cinque ammonizioni. È da sottolineare come gli spagnoli, che riceveranno a fine torneo il premio fair-play dalla FIFA, raccolgono più gialli in questa partita che in tutte le sei precedenti messe assieme. Indicativo poi è il dato del tempo di gioco effettivo nei regolamentari al di sotto dei cinquanta minuti.

Trascorrono cinquanta secondi e l’andamento della gara diventa subito palese quando si assiste al primo fallo, un’entrata da dietro su Pedro di van Persie, il quale poco dopo prenderà il primo cartellino giallo della lunga serie. Poi la Spagna costruisce la sua prima importante palla-gol, al quinto minuto: calcio di punizione da destra all’altezza della trequarti, il pallone giunge in mezzo dove colpisce di testa Sergio Ramos e obbliga Stekelenburg a una grande parata. Gli spagnoli sono partiti bene, controllano il gioco e sanno rendersi pericolosi, mentre gli olandesi in fase difensiva sfruttano a dovere il fuorigioco; il ritmo è alto ma talvolta in modo esagerato, diventando così forsennato a scapito della precisione. Non disdegna il pressing alto anche l’Olanda e pertanto un mancato controllo di Busquets poco oltre il limite dell’area, su passaggio avventato in orizzontale di Xabi Alonso, non è sfruttato da Kuyt che conclude con precipitazione e anche male. Gli iberici continuano a premere in avanti. All’undicesimo Iniesta serve Sergio Ramos che penetra in area avversaria da destra, passa in mezzo – oppure prova un tiro che gli esce troppo strozzato – ed Heitinga alza in alto di fronte alla porta; sul corner seguente c’è una nuova occasione spagnola per Villa, defilato sulla sinistra, che calcia fuori.

Al minuto diciassette il giallo è sventolato a Puyol per un’entrata dura su Robben, che sta iniziando a spingere con profitto sulla fascia destra; la seguente punizione, tirata da Sneijder, è facilmente bloccata da Casillas. Altri cinque minuti e un’entrataccia di van Bommel su Iniesta in fase di ripartenza conduce a un altro cartellino, giallo che sfuma però sul rosso; un minuto ancora e l’ammonizione è a carico di Sergio Ramos. La durezza nei contrasti aumenta in modo esponenziale sino all’episodio più controverso di questa finale. Al minuto ventotto de Jong sferra un calcio al volo a Xabi Alonso e lo colpisce in pieno petto con la suola della scarpa: de Jong viene ammonito ma qui il cartellino da estrarre a tutti gli effetti era quello rosso. Prendere la decisione migliore in tale frangente è tutt’altro che semplice, è chiaro, perché un’espulsione dopo neanche mezzora di gioco ha un peso non indifferente, che incide sull’esito della gara, e per di più nel corso della finale mondiale. L’arbitro non ha avuto il coraggio di andare sino in fondo.

Ad ogni modo stasera gli orange sono in generale molto polemici sui fischi arbitrali: sembra vogliano trasferire il confronto non solo sul versante fisico e atletico, ma altresì sul piano della tensione e dei nervi, per provare a bilanciare un’inferiorità tecnica che a quanto pare, dentro di sé, ritengono terribilmente reale. Accade poi un episodio particolare che, nonostante le premesse, riesce per un po’ a stemperare il nervosismo: gli spagnoli mettono fuori il pallone per consentire i soccorsi a Puyol che è a terra dopo un colpo ricevuto; Heitinga restituisce dalla sua metà campo con un calcio lungo indirizzato verso la porta spagnola, la palla rimbalza alta e Casillas deve toccarla in angolo per evitare che entri in rete; gli spagnoli insorgono, Heitinga chiede scusa e correttamente dall’angolo la palla è passata al portiere spagnolo. Sul finire del primo tempo la formazione olandese costruisce le migliori occasioni da rete: al trentasettesimo, in seguito a un corner, van Bommel serve un assist a Mathijsen, che è abbastanza libero in area spagnola ma liscia la sfera; nel recupero un sinistro da limite dell’area di Robben – di gran lunga il migliore dei suoi – obbliga Casillas alla deviazione sul fondo. In mezzo ai due episodi, però, è ancora la Spagna a tentare la via del gol con un tiro di Pedro fuori non di molto.

Alcune riflessioni nella pausa tra i due tempi. Dopo un ottimo avvio in cui è andata molto vicino al vantaggio, la roja ha sofferto l’aggressività olandese che per lunghi tratti non ha concesso agli avversari il consueto gioco manovrato. Anzi, qualche volta si è vista anche l’inconsueta scena in cui gli spagnoli, probabilmente timorosi del pressing alto olandese, hanno rinunciato all’azione costruita dal basso; in ogni caso è una Spagna distante dalla prestazione espressa in semifinale. La nazionale dei Paesi Bassi gioca bene in difesa ed è brava a rompere il gioco altrui, meno a impostarlo, con gli attaccanti sacrificati nel lavoro di pressing. Sneijder e Villa, gran protagonisti del torneo, sono stranamente assenti.

Inizia il secondo tempo e la Spagna batte un tiro d’angolo: Puyol in grande elevazione fa da torre per Capdevila, il quale però manca l’impatto con la sfera a due passi dalla porta. Ci provano poi Robben con un tiro da fuori area e Xavi su punizione, senza esito. È evidente che la Spagna sta tentando di alzare il baricentro del gioco verso la porta avversaria, ma compie tanti errori tecnici, così come i suoi avversari in arancione; Del Bosque cambia, inserisce Navas per un Pedro poco incisivo. Cresce nuovamente il nervosismo. In due minuti ricevono il giallo i difensori van Bronckhorst ed Heitinga, poi una restituzione della sfera da parte degli olandesi verso la propria zona d’attacco, quando la palla in gioco era dall’altra parte del campo, scatena le recriminazioni spagnole e l’applauso sarcastico di Del Bosque. Al di là del gioco, sicuramente superiore e con maggiori attitudini offensive, l’atteggiamento provocatorio e aggressivo olandese ricorda da vicino quello assunto dagli argentini nella finale del 1990; ma col passare dei minuti anche gli spagnoli aumentano il tasso polemico e così la partita rischia davvero di scappare di mano all’arbitro, nonostante i pistolotti con i quali regolarmente intrattiene i giocatori.

Il minuto sessantadue descrive uno dei passaggi decisivi dell’incontro. Sneijder, ora più attivo, lancia alla grande Robben, perso dagli spagnoli: Robben si invola solo verso il portiere in uscita, tira di sinistro e alla sua sinistra, ma Casillas, che si è allungato dalla parte opposta, tocca con il piede destro e riesce a deviare la palla quel tanto che basta per mandarla sul fondo. Una parata importantissima e un’enorme possibilità sprecata, benché ci fosse ancora mezzora di partita, poiché con un gol di vantaggio e a fronte di un gioco spagnolo così bloccato, la strada sarebbe stata in discesa per la formazione olandese. Dirà Robben mesi dopo: “Quell’occasione mancata è diventata un film che continuo a proiettare senza sosta nella mia testa1)Simon Kuper, A soloist in the land of Total Football, ESPN. Ma ridestata dal rischio corso, la Spagna inizia ad attaccare in modo più incisivo e dopo pochi minuti pareggia l’occasione olandese: Navas dalla fascia passa in mezzo, Heitinga svirgola e Villa tutto solo in area opera un tiro respinto da Stekelnburg. Bravo il portiere, ma anche in questo caso c’è un evidente concorso di colpa da addebitare all’attaccante.

Però sì, la Spagna ha mutato il ritmo e ora mette alle corde gli olandesi. Navas si sta dimostrando molto efficace sulla fascia e serve un altro cross per Villa che conclude al volo, fuori, ma stavolta era tutt’altro che semplice. Poco dopo è ancora Villa a penetrare in area olandese e ad essere anticipato in scivolata da van der Wiel; sul corner seguente ecco un’altra grossa opportunità spagnola poiché arriva da dietro Sergio Ramos – come Puyol in semifinale – ed è solo, colpisce di testa ma indirizza fuori. Capdevila va ad aggiungersi alla lista degli ammoniti dopo aver steso van Persie che gli è scappato via sulla fascia. Si registrano cambi da entrambe le parti: van Marwijk, particolarmente elegante in completo grigio con sciarpa nera, inserisce Elia per Kuyt; fra gli spagnoli Xabi Alonso lascia il posto a Fabregas, più offensivo. Ma l’ultima vera occasione dei regolamentari è di marca olandese: assist di testa di van Persie per Robben che prova di nuovo a scappare verso la porta spagnola – ma questa volta Puyol è al suo fianco, lo contrasta con mestiere, lo rallenta; sopraggiunge anche Piqué, Robben non riesce a calciare e Casillas, in uscita, recupera agevolmente la sfera. L’olandese lamenta un fallo e forse avrebbe fatto meglio a lasciarsi cadere, stante che per le proteste rimedia anche il cartellino giallo.

Si chiude un secondo tempo che in alcuni momenti è stato anche appassionante: il controllo del gioco pende dalla parte della Spagna, la bilancia delle occasioni da rete invece è più in equilibrio. Il parziale di zero a zero dopo novanta minuti ha solo un precedente, la finale mondiale del 1994. Vi è poi da segnalare che la selezione spagnola non ha mai segnato un gol nei tempi supplementari nel campionato del Mondo – ma la Spagna è qui per sfatare i miti.

Partiti e gli spagnoli reclamano un calcio di rigore per un tocco da dietro di Heitinga su Xavi in procinto di concludere a rete: dal vivo non è così chiaro, visto in replica pare sanzionabile. Dopo cinque minuti Iniesta, che sta salendo in cattedra, da metà campo scova il corridoio giusto per Fabregas lanciato a rete, Stekelenburg respinge in uscita, l’occasione era ghiotta; dall’altra parte, su calcio d’angolo, Casillas esce male e sbatte pure contro un compagno, e Mathijsen, seppur contrastato da Sergio Ramos, può colpire di testa a porta sguarnita ma spedisce fuori. Fabregas è entrato bene in partita e restituisce l’assist a Iniesta, il quale però attende troppo a tirare, facilitando così il recupero di van Bronckhorst.

Van Marwijk manda sul terreno di gioco un centrocampista offensivo, van der Vaart, per uno difensivo, de Jong, e poi Braafheid per van Bronckhorst: evidentemente il ct dei Paesi Bassi sente di poterla vincere, ma il campo sta narrando una storia differente, visti i due buchi difensivi appena lasciati dai suoi uomini. I cambi di Del Bosque invece sono stati azzeccati. Navas scappa di nuovo sulla destra, il suo tiro è deviato da un avversario e la sfera finisce sull’esterno della rete; ci prova ancora una volta Fabregas, conclusione fuori ma di poco. L’andamento della sfida è in crescendo perché adesso la contesa è davvero intensa e bella da seguire. Gli olandesi però cominciano a mostrare evidenti segni di stanchezza, se non di cedimento.

Nell’intervallo fra i due tempi il ct spagnolo, che ha un atteggiamento di invidiabile calma per il contesto in cui è calato, richiama Villa e manda in campo Torres. Al quarto minuto Heitinga stende Iniesta, lanciato a rete da Xavi: già ammonito, Heitinga riceve il secondo giallo e lascia i suoi in dieci. Iniesta è l’ira di Dio, due minuti dopo salta netto van der Wiel e lo costringe al fallo con annessa ammonizione. Van Bommel è scalato al centro in difesa – gli orange ormai devono solo cercare di resistere per portare la sfida ai tiri di rigore. Hanno un ultimo sussulto quando una punizione di Sneijder, deviata da Fabregas in barriera, oltrepassa non di molto l’angolino della porta spagnola. Per gli olandesi è il canto del cigno.

Al minuto centosedici dell’incontro la Spagna è nuovamente in attacco. Torres dalla trequarti scarica in mezzo, la sfera è respinta dalla difesa ma recuperata da Fabregas, che serve la palla giusta a Iniesta libero in piena area di rigore, un po’ spostato sulla destra. Il centrocampista con freddezza e maestria si prende tutto il tempo a disposizione per controllare a dovere, far rimbalzare la palla e lasciarla scendere al punto giusto. Nel suo libro dichiara di aver sentito il silenzio, una volta ricevuto il pallone; dirà anche di aver pensato – ma quante cose si ricordano, a posteriori: “Ora o mai più: se non vinciamo adesso la Coppa del Mondo, non succederà mai”. Iniesta calcia di destro, palla in basso verso il palo lontano, gol. La Spagna passa in vantaggio!

Nei mesi che precedono il Mondiale Iniesta è stato colpito da una forma di depressione, non grave ma in ogni caso difficile da maneggiare come ogni depressione, dovuta agli infortuni e alla scomparsa di Dani Jarque – amico, calciatore dell’Espanol appena ventiseienne e morto durante un allenamento all’inizio della stagione -, o chissà per cos’altro ancora si annida nella sua mente. È venuto fuori da quei giorni bui: e un attimo dopo aver realizzato il gol più importante della storia del calcio spagnolo, Iniesta corre a braccia aperte, si toglie la casacca della nazionale e ricorda il suo caro amico, mostrando al mondo questa dedica: Dani Jarque siempre con nosotros. Pazzi di felicità, tutta la squadra spagnola sommerge Iniesta all’altezza della bandierina. Dalla parte opposta del campo Casillas è in ginocchio e piange, Busquets gli scivola davanti e lo abbraccia.

Ci sono proteste olandesi, forse per un calcio d’angolo a proprio favore non concesso, forse per un presunto fallo su Elia non fischiato in precedenza: gli olandesi chiuderanno la partita accerchiando l’arbitro, di nuovo come gli argentini nella finale persa a Roma. Infatti i minuti che separano dal fischio finale dell’arbitro passano invano, quello olandese è un forcing appena accennato e gli spagnoli spazzano l’area come è giusto che sia. Spagna uno, Olanda zero: il gol di Iniesta è il gol del Mondiale, il gol che significa prima Coppa del Mondo in casa spagnola. Per davvero, adesso la roja è la nazionale più forte del pianeta. Prima di ritirare la Coppa, gli spagnoli cambiano abito e si presentano con la tradizionale maglia rossa, già provvista però della stella che è il simbolo del titolo mondiale. Alza il trofeo Casillas, un portiere, come non accadeva dal 1982. Poi nel dopo-partita resterà nella memoria il suo bacio liberatorio e commosso dato alla splendida fidanzata, la giornalista sportiva Sara Carbonero, nel bel mezzo di un’intervista.

Si archivia così un torneo al quale hanno partecipato 202 nazionali dalla fase di qualificazione, un record nonché la prima volta oltre la soglia dei duecento. Tutte e sette le squadre già campioni erano alla fase finale, mentre fra le nazionali con una qualche rilevanza, mancavano soltanto le selezioni di Svezia, Croazia e Ucraina. È stato un campionato un po’ freddo come il clima del paese che l’ha ospitato nell’inverno australe. La media di 2,27 gol a partita riduce ulteriormente il livello già basso raggiunto nel torneo precedente; però si è visto un discreto numero di gol pregevoli e diversi di questi su tiro da lontano. È emerso il ruolo di un’anomala figura tra il regista e il finalizzatore ben rappresentata dalle prestazioni di giocatori come Forlan e Muller. Persiste poi, in sintonia con l’ultimo Mondiale, l’importanza dei momenti finali di gara: la maggior parte dei gol del Mondiale (trentacinque) sono stati segnati nell’ultimo quarto d’ora, e a seguire, sempre come numero di reti, viene il quarto d’ora precedente. Non è un caso che la squadra campione abbia realizzato i gol decisivi della fase a eliminazione diretta quasi sempre sul finire dell’incontro. Un segno di tenuta fisica, ma soprattutto di grande concentrazione.

Risalta però il valore del torneo, sia per le questioni di tattica evidenziate in avvio e nel corso della narrazione, sia per un altro elemento: il continente di provenienza delle selezioni protagoniste. Allora, il Sudamerica manda cinque squadre su cinque alla knockout stage (l’America nel complesso sette su otto), l’Europa invece sei selezioni su tredici partecipanti; ai quarti l’America del Sud è avanti quattro a tre sull’Europa: ma al momento decisivo le sudamericane cadono quasi in blocco. Tre semifinaliste su quattro sono europee, lo sono entrambe le finaliste, e soprattutto l’Europa replica il titolo vinto quattro anni prima: era accaduto soltanto negli anni Trenta, ma con la stessa nazionale (l’Italia), mentre ora sono cambiate tutte e due le finaliste rispetto al 2006. Riagganciandosi al Mondiale precedente, Sudafrica 2010 rende quindi manifesta l’esaurirsi dell’alternanza perfetta Europa – Sudamerica (1974 – 2002) con l’avvio di un nuovo periodo storico nella Coppa del Mondo, confermato dalle edizioni successive e appunto iniziato nel 2006, in cui una parte, il vecchio continente, prevale sull’altra. Ed è anche la prima vittoria europea al di fuori dell’Europa.

La squadra vincente rappresenta meglio di qualunque altra il nuovo calcio in via di diffusione; e pur senza dominare sempre, pur perdendo anche il primo incontro, la Spagna è stata un passo avanti a tutte le altre nel corso del torneo. È da notare come la Spagna sia la squadra campione con meno gol all’attivo di sempre, appena otto (in media, poco più di uno a partita) e marcati da soli tre uomini, Villa, Iniesta e Puyol. Però conferma una tradizione di vincitrici dotate di grandi ed ermetiche difese: ha incassato la miseria di due reti – come la Francia nel ’98 e l’Italia nel 2006 -, l’ultima delle quali nella terza partita della fase a gironi, mentre in tutta le partite a eliminazione diretta la porta spagnola è rimasta inviolata. Come gioco espresso in campo, forse la sola Germania poteva ambire a mettere in discussione il trionfo spagnolo, ma lo scontro diretto in semifinale ha posto una pietra tombale sulle ambizioni tedesche. Diverso è invece il discorso che investe le prestazioni. L’Olanda – veramente competitiva solo dalla cintola in su ma sottovalutata, in primis dai suoi sostenitori -, è stata la degna avversaria degli spagnoli, e la sua terza sconfitta nell’ultimo atto di un Mondiale non passa esente da rimpianti. Inferiore tecnicamente e tatticamente, dopo una partita in cui la Spagna ha mantenuto il possesso palla per il 57% del tempo, l’Olanda è arrivata a un passo dai tiri di rigore. Il calcio è bello anche per questo.

Dopo le tante edizioni della Coppa in cui gli spagnoli sono tornati a casa con l’amaro in bocca e a riflettere sui propri errori, finalmente la prestigiosa tradizione calcistica della roja può specchiarsi in un titolo mondiale. Una supremazia, quella della nazionale, che va di pari passo con le vittorie dei club spagnoli nei primi due decenni del secolo: il Real Madrid vince sei Champions, quattro il Barcellona, mentre Valencia e Atletico Madrid raggiungono entrambe la finale del trofeo in due occasioni. E poi l’affermazione nel calcio accompagna e incrementa i numerosi successi sportivi spagnoli del periodo, con il titolo mondiale nel basket del 2006, i risultati negli sport a motore e nel tennis (a proposito, Nadal è negli spogliatoi dello stadio di Johannesburg, a festeggiare dopo la finale). La vittoria della Spagna unisce simbolicamente il paese grazie a giocatori originari delle varie regioni e al contributo per la causa comune di madridisti e blaugrana (alleanza cementata dall’amicizia dei simboli dei due club, Casillas e Xavi); ma dura poco: già alla fine stagione successiva i duri scontri tra Real e Barcellona segnano una nuova tensione calcistica, che poi diventerà politica.

Si parla, talvolta un po’ a sproposito, di ciclo vincente spagnolo. Ma fu un vero ciclo? I risultati ottenuti in amichevoli e gare di qualificazione contano relativamente poco rispetto a quanto realizzato nelle fasi finali grandi tornei, per cui possiamo lasciarli tranquillamente in disparte. Ora, se consideriamo anche l’esito degli Europei, un ciclo c’è stato senza ombra di dubbio – anzi, nessuno come la Spagna ha mai realizzato la tripletta Europeo, Mondiale, Europeo, uno di fila all’altro. Se invece guardiamo la Coppa del Mondo, no: prima dell’edizione vittoriosa, la Spagna ha raggiunto quarti di finale e ottavi; dopo, fuori al primo turno e ancora agli ottavi. Il campionato continentale è necessariamente nell’ombra dei Mondiali, luogo per eccellenza in cui si edificano i veri cicli storici. A posteriori, il titolo spagnolo del 2010 ricorda da vicino quello inglese del ’66 come una sorta di unicum.

Così come è iniziato, il racconto di Sudafrica 2010 si chiude con un allenatore, il quinto del lotto presentato nella prima puntata della serie, ma il più vincente fra tutti poiché è il solo che combina i trionfi nei club con quelli ottenuti sulla panchina di una nazionale (così come il suo predecessore sul tetto del mondo, Marcello Lippi). Da giocatore, Vicente Del Bosque è stato un centrocampista molto tecnico che ha conquistato titoli con la maglia bianca del Real, ma non la Coppa dei Campioni, persa nella finale contro il Liverpool del 1981. Ha anche saltato i Mondiali di Argentina per infortunio. Siede sulla panchina dei blancos nel 1999 tra lo scetticismo generale, sostituendo Toschak, ma nella primavera seguente conduce i suoi al titolo europeo (da ricordare la vittoria nei quarti sul campo del Manchester United campione in carica). Da lì inizia l’epoca del presidente Perez e dei suoi grandi acquisti: arrivano Figo e Makelele, poi Zidane, poi Ronaldo. Del Bosque aggiunge ai trofei del Real due campionati e un’altra Champions; poi viene mandato via, frettolosamente, nel 2003. Prima della nomina a ct della Spagna, si segnala solo una stagione al Besiktas priva di rilievo. Il Mondiale del 2010 è ovviamente il vertice della sua carriera, ma la prestazione più eclatante della Spagna di Del Bosque sarà ammirata nella finale europea del 2012 contro l’Italia – nei cui confronti ormai non c’è più ombra di timore reverenziale. Lo stesso Del Bosque definisce quella partita come la migliore della sua nazionale2)Vicente Del Bosque, Espana-Italia, Panenka n. 100.

Ha l’aspetto di un personaggio dei fumetti, il ct spagnolo, o di un caratterista, di un attore di sitcom; ma è una persona che negli atteggiamenti e nelle parole esprime una forte dignità. Prima della finale mondiale motiva e sprona i suoi giocatori con un discorso molto intenso. Questi sono alcuni stralci: “Ragazzi, voi non siete soldati diretti in battaglia. Questo è calcio, non una guerra. Ci impegneremo, lotteremo su ogni pallone, ma ricordate, siamo qui per continuare a giocare nel modo che conosciamo, per rispettare il nostro stile. Umiltà, solidarietà: siate coraggiosi, iniziate bene, imponete il vostro gioco. Questo è importante. […] Non fatevi trascinare in qualcosa di stupido. L’unico fallimento sarebbe tradire ciò in cui crediamo. Giocate per voi stessi perché questo è il momento più grande della vostra carriera, ma se avete bisogno di pensare a qualcos’altro, pensate a tutti i ragazzi a casa, in Spagna, che vi stanno chiedendo di vincere. Fategli questo regalo3)Graham Hunter, Spain – The inside story of La Roja’s historic treble, BackPage Press, 2013.

Del Bosque è cresciuto in un quartiere operaio di Salamanca, figlio di un ferroviere antifascista imprigionato dai franchisti durante la guerra civile e poi licenziato. Ha un figlio affetto da sindrome di Down, Alvaro, che lui adora così come il generale De Gaulle adorava sua figlia Anne, affetta anch’ella dalla sindrome di Down, tanto da averla sempre considerata un dono di Dio e l’ispirazione delle sue gesta. Prima di partire per il Sudafrica Del Bosque promette al figlio che, in caso di vittoria, l’avrebbe portato con sé a festeggiare. E mantiene la promessa. Così il giorno dopo la finale, sul bus della nazionale spagnola che attraversa le strade di Madrid invase da una folla festante, accanto ai campioni del Mondo, accanto al padre commissario tecnico, c’è un posto anche per il felicissimo Alvaro Del Bosque.

18 dicembre 2021

References   [ + ]

1. Simon Kuper, A soloist in the land of Total Football, ESPN
2. Vicente Del Bosque, Espana-Italia, Panenka n. 100
3. Graham Hunter, Spain – The inside story of La Roja’s historic treble, BackPage Press, 2013