Il Mondiale del 1982 rappresenta il definitivo trionfo del calcio così detto all’italiana, il punto del suo massimo fulgore. Il calcio all’italiana trae origine in prima battuta dal modulo di gioco prettamente difensivista sorto in Svizzera negli anni trenta, affermatosi in Italia tra gli anni cinquanta e sessanta, e passato alla storia come catenaccio. Attraverso il suo impiego, la nazionale italiana conquista un titolo europeo nel 1968 e la finale Mondiale due anni dopo. Il calcio all’italiana è un’evoluzione del catenaccio; è il frutto del contatto tra una tattica vincente, ma che inizia a mostrare evidenti crepe – il catenaccio, appunto – e le moderne scuole calcistiche all’avanguardia nei Settanta.
Ma volendo rintracciare le origini del calcio all’italiana ancora più lontano nel tempo, è necessario tornare indietro sino agli anni venti e trenta del secolo scorso. In quel periodo prese piede all’interno dell’ambiente calcistico italiano una decisa attenzione nei confronti delle questioni tattiche che non verrà più abbandonata – e inoltre, in tale contesto, assunse una particolare importanza la tattica detta del metodo. Non solo. Il calcio italiano sviluppò all’epoca alcune peculiarità che lo resero unico nel panorama internazionale: intanto, una spiccata analisi dei singoli ruoli in campo, complessa e precisa anche a livello di nomenclatura; di conseguenza, un’attitudine a teorizzare e applicare delle micro-tattiche per ogni singola zona del campo1)David Goldblatt, The ball is round, Penguin Books, 2007. Da lì nacque poi l’abitudine tutta italiana di definire e differenziare il ruolo di ogni giocatore partendo dal numero: due, terzino destro; tre, terzino sinistro; quattro, mediano difensivo; cinque, stopper; sei, libero; sette, ala destra; otto, mediano di raccordo; nove, centravanti; dieci, regista; undici, ala sinistra. Una tradizione che almeno per tutti gli anni ottanta resterà pienamente in auge, per poi perdersi.
Il gioco all’italiana rappresenta il genio italico applicato alla realtà calcistica, nella sua forma migliore e più genuina. È una zona mista, con marcature a uomo dove serve (quindi in difesa, e di solito affidate a un paio di difensori), e posizioni a zona altrove. Dietro c’è il libero. Ma il tocco originale di questa impostazione tattica è rappresentato dalla disposizione in campo. Ci sono quattro uomini in difesa, con il terzino sinistro più avanzato rispetto agli altri; altri quattro a centrocampo, ma in questo caso è l’esterno a destra a spingersi maggiormente in avanti, assieme al regista; poi l’attacco, che di nuovo pende leggermente a sinistra. Sono come dei semicerchi inclinati (qualcosa che assomiglia all’ormai dimenticata tattica della diagonal, utilizzata in Brasile nei Quaranta). Può sembrare strano, ma la risultante finale è un equilibrio – non si può dire quanto figlio di razionalità o di follia. D’altronde, è un gioco all’italiana.
Nel 1982 il gioco all’italiana mostrato dalla squadra azzurra è più attendista se confrontato con quanto espresso dall’ottima nazionale in campo nei Mondiali di quattro anni prima, benché buona parte dei giocatori e il tecnico siano rimasti gli stessi. Fa meno controllo palla e più contrattacco. Il reparto difensivo rimane il perno del sistema, un’impostazione che resterà costante in Italia sino all’esperienza di Sacchi. Ci sono giocatori eclettici, quindi avvezzi a un approccio moderno al gioco: difensori che si sganciano in avanti, attaccanti che tornano e che costruiscono l’azione. È una squadra che in campo impressiona per la capacità di mutare improvvisamente: da una posizione di attesa e ripiego a esplosioni di forza ed efficacia micidiali.
La schieramento titolare – all’epoca l’impiego degli stessi uomini nel corso del torneo era piuttosto usuale – vede i giocatori italiani disporsi in un 4–4–2, con il libero e il regista. In porta c’è Dino Zoff – se ne parlerà un po’ più sotto. La difesa è formata da due esterni di pregio, entrambi in forza alla Juventus: Claudio Gentile, del quale rimarranno per sempre impresse le superbe prestazioni contro Argentina e Brasile; e Antonio Cabrini, che prosegue l’importante tradizione italiana dei terzini sinistri dotati di tecnica e attitudine offensiva. In mezzo ci sono Collovati e Scirea.
Gaetano Scirea è uno dei più grandi difensori del calcio italiano e internazionale. Lo si ricorda anche per la sua prematura scomparsa, avvenuta nel 1989 in seguito a un incidente d’auto occorso in Polonia: era lì in viaggio come osservatore della Juventus, la sua principale squadra di club. Difensore elegante, intelligente, corretto (mai espulso in carriera), Scirea ha innovato il ruolo del libero, nella sua accezione di difensore e di costruttore della manovra offensiva. Questa impostazione, sorta prima di tutto in Jugoslavia, e poi fatta propria da olandesi e tedeschi, si è affermata in Italia con il preciso intento di ovviare al deficit di uomini a centrocampo lasciato in eredità dal catenaccio2)Jonathan Wilson, La piramide rovesciata, Edizioni Libreria dello Sport, 2012.
A centrocampo ci sono Oriali e Tardelli. Quest’ultimo, altra colonna della Juventus, è un giocatore moderno, centrocampista box to box (come dicono gli inglesi – da area ad area), buon finalizzatore e dotato di indubbia carica agonistica. Sull’ala destra opera Bruno Conti, della Roma, capace di un Mondiale grandioso degno di un fuoriclasse brasiliano. Con la sua squadra di club ottiene il titolo di campione d’Italia l’anno dopo il Mondiale. Nel 1984 la grande occasione: finale di Coppa dei Campioni contro il Liverpool, in casa, all’Olimpico di Roma. Suo è l’assist per Pruzzo, che realizza l’uno a uno dopo il momentaneo vantaggio inglese. La Roma ci prova sino alla fine ma si va ai rigori, per la prima volta nella storia del torneo. Conti sbaglia il tiro, lo stesso dicasi per Graziani; la vittoria è del Liverpool.
Il regista è Giancarlo Antognoni – bandiera della Fiorentina -, un calciatore elegante, dotato di lancio smarcante, classe e velocità. Raccoglie poche vittorie con la squadra di club nel difficile e molto competitivo panorama italiano di quel periodo. Ne condizionano la carriera, che avrebbe potuto essere ancora più prestigiosa, guai fisici e pesanti infortuni: uno di questi ricorda da vicino l’incidente occorso a Battiston nella semifinale mondiale. Durante Fiorentina – Genoa del 22 novembre 1981, Antognoni impatta duramente contro l’incolpevole portiere genoano Martina. Resta a terra immobile con un arresto cardiaco; è soccorso immediatamente, mentre qualcuno in campo scoppia in lacrime pensando sia addirittura morto. Ma Antognoni riprende conoscenza. Tornerà a calcare i campi di gioco quattro mesi dopo, in tempo per presentarsi al Mondiale da ottimo protagonista.
In avanti troviamo Rossi e Graziani. Altri uomini schierati nel corso della competizione sono: Bergomi in difesa; Marini in mezzo; Causio e Altobelli in attacco. Il ct Bearzot costruisce non solo una squadra di calcio ma anche un gruppo, ignorando le critiche degli addetti ai lavori. E al centro del progetto c’è un blocco, quello formato dai rappresentati dalla squadra italiana più forte del periodo: la Juventus allenata da Giovanni Trapattoni.
Dopo un paio di stagioni di pausa, la Juventus è tornata a vincere il titolo italiano nel biennio che precede il Mondiale. Trapattoni siede sulla panchina bianconera già da diverse stagioni, dal 1976. Prende in mano una formazione il cui ciclo vincente è già stato avviato dall’inizio dei Settanta. Il Trap è l’altro storico simbolo del calcio all’italiana, assieme a Bearzot. Ingiustamente tacciato di essere un difensivista a oltranza, è invece un tecnico che ha ben chiare le dinamiche del calcio a lui contemporaneo e che non lesina anche un ampio utilizzo di attaccanti in campo. Riscuote ottimi successi sin da subito, ma dopo Spagna ’82, con l’aggiunta di Platini e Boniek a un insieme di per sé già notevole, conduce la Juventus ai vertici del calcio mondiale.
Nel 1983 i bianconeri raggiungono la finale di Coppa dei Campioni, ad Atene, al culmine di un percorso che pare inarrestabile. La squadra in campo è sulla carta la più forte di tutta la gestione Trapattoni, ma qualcosa nel corso della stagione non funziona appieno, l’amalgama non è sempre quello giusto. Forse ci sono troppe primedonne. Comunque, ecco l’undici titolare (e stellare): Zoff; Gentile, Brio, Scirea, Cabrini; Boniek, Bonini, Tardelli; Platini; Rossi, Bettega. Nettamente favoriti, i torinesi sono sconfitti da un sottovalutato Amburgo per uno a zero, gol di Magath. L’anno seguente la Juventus conquista la Coppa delle Coppe e il campionato nazionale. Nel 1985 è campione d’Europa, diventando così la prima formazione in assoluto a conquistare tutte le coppe europee. Il ciclo decennale di Trapattoni in bianconero si conclude nel 1986 con la vittoria nella Coppa Intercontinentale e un nuovo titolo italiano. Trapattoni mieterà altri successi in giro per l’Europa, benché non allo stesso livello. Siederà anche sulla panchina azzurra, tra il 2000 e il 2004, ma con esiti non altrettanto soddisfacenti.
Chi invece legherà per sempre il suo nome a doppio filo con quello della nazionale italiana è Enzo Bearzot. “Uomo schivo e scrupoloso, dotato d’un grande senso della famiglia e del gruppo – frutto d’una concezione all’antica della vita e dei rapporti umani -, uomo di spogliatoio e di dovere piuttosto che di palazzo e di potere”, così lo descrive Alberto Guasco nel suo ottimo libro dedicato al Mondiale ’823)Alberto Guasco, Spagna ’82. Storia e mito di un mondiale di calcio, Carocci editore, 2016. Come calciatore, Bearzot disputa una buona carriera nel Torino post-Superga, senza eccellere particolarmente. Gioca un solo incontro in nazionale, nel 1955, Ungheria – Italia due a zero, nel quale marca il grande Puskas. Lascia il calcio giocato con il suo caratteristico naso da pugile, frutto di tre fratture, e inizia ad allenare. Quasi mai in squadre di club, però: il suo percorso è tutto all’interno della federazione. Questo gli permette di vedere in prima persona l’evoluzione del calcio internazionale, quindi di non chiudersi nel recinto nazionale come tanti suoi colleghi.
Dal 1975 è tecnico della nazionale, prima con Bernardini, due anni dopo da solo. La sua squadra è la rivelazione dei Mondiali ’78. Dopo il campionato europeo del 1980, in parte deludente ma in un contesto non semplice, le critiche nei suoi confronti sulla stampa specializzata diventano una fastidiosa e spesso inopportuna costante. Bearzot va per la sua strada, sceglie i giocatori che preferisce e di cui si fida maggiormente, lasciando a casa anche degli ottimi interpreti. Crea davvero un gruppo. È amato e difeso strenuamente dai suoi giocatori, come dimostra la vicenda del silenzio stampa. È anche un uomo di cultura Enzo Bearzot, benché, per il suo carattere riservato, lo nasconda ampiamente al pubblico.
Dopo il Mondiale spagnolo sconta un certo naturale appagamento. Non rinnova la squadra, che attraversa comunque un passaggio a vuoto generazionale di talenti, e quindi manca la qualificazione agli Europei ’84. L’esito mediocre dei Mondiali in Messico segna l’addio di Bearzot alla panchina italiana, e in generale al calcio. Durante i suoi funerali, nel 2010, saranno proprio i suoi uomini, quelli dell’avventura del 1982, a portare in spalla il suo feretro per l’ultimo viaggio. L’estremo segno, triste e tenero nel contempo, di una dovuta riconoscenza.
Nel corso di un’intervista concessa tre anni prima di morire, gli era stato chiesto: “Come le piacerebbe essere ricordato, fra un po’ d’anni?”; “Come una persona perbene”, aveva risposto Bearzot4)Gianni Mura, Intervista a Bearzot, Storie di calcio. C’è riuscito.

L’atto finale del Mondiale si gioca a Madrid, Estadio Santiago Bernabeu, alle otto di sera dell’undici luglio 1982. Di fronte Italia e Germania Occidentale alla loro quarta finale iridata. Entrambe le squadre puntano al terzo titolo: ma i tedeschi hanno conquistato l’ultima Coppa del Mondo solo otto anni prima, l’Italia nel lontano 1938. C’è una chiara maggioranza italiana fra il pubblico della finale.
La nazionale tedesca occidentale non perde una partita contro un’europea da quattro anni, dal Mondiale argentino precisamente, tre a due subito dall’Austria. Schiera più o meno la stessa formazione che ha conquistato la finale nella leggendaria partita contro la Francia, salvo la presenza di Rumenigge in campo sin dall’inizio. È un 5-3-2, quindi, però meno prudente del solito perché Littbarski spesso fa il terzo attaccante, e un difensore, Bernd Forster, sale a centrocampo. Ecco i tedeschi al fischio di avvio: Schumacher; Kaltz, Bernd Forster, Stilieke, Karlheinz Forster, Briegel; Littbarski, Dremmler, Breitner; Rumenigge, Fischer.
Nell’Italia manca Antognoni, infortunatosi in semifinale. Bearzot rimedia all’assenza del regista titolare rinnovando la fiducia al giovane Bergomi e rimodellando la squadra su di un apparente 5-3-2, così composto: Zoff; Gentile, Collovati, Scirea, Bergomi, Cabrini; Conti, Oriali, Tardelli; Graziani, Rossi. Viene quindi modificato il modulo tradizionale, quello che ha accompagnato la squadra azzurra per tutto il Mondiale, e addirittura in occasione della partita decisiva. Sembra inoltre una tattica improntata al difensivismo. Ma in realtà, nei devastanti contrattacchi che la nazionale italiana dispiegherà durante l’incontro, lo schema si trasforma in un offensivo 3-4-3, con Scirea e Cabrini che avanzano verso centrocampo, e Conti che si aggiunge in attacco. È un piccolo, misconosciuto, capolavoro tattico del tecnico azzurro.
La Germania inizia meglio l’incontro, sulla spinta di Briegel, Breitner e Littbarski, il cui tiro in porta dopo una manciata di minuti è il primo della finale. Rumenigge ha una buona occasione in area, ma calcia fuori. C’è un intervento al volo di Fischer, anch’esso fuori dallo specchi. Al settimo l’Italia deve già usare una sostituzione: Graziani cade male e si infortuna ad una spalla; è costretto a uscire, al suo posto entra Altobelli. Il ritmo è compassato, le squadre aspettano l’avversario nella propria metà campo.
Con il passare dei minuti l’Italia avanza il raggio della propria azione, piano piano ma costantemente. Si fa sentire la presenza di Tardelli, di Conti e di Rossi. Su cross di Tardelli, Altobelli a due passi dalla porta viene anticipato da Bernd Forster. E intorno al minuto venticinque la partita può svoltare: traversone in area di Altobelli, accorre Conti che sta per colpire al volo; Briegel lo affossa e l’arbitro, il brasiliano Coelho, fischia il calcio di rigore per l’Italia. Va sulla palla Cabrini. Appena prima del tiro, un piccolo fumogeno viene lanciato proprio pochi metri di fronte al dischetto. Forse infastidisce il terzino azzurro. Tiro sulla destra e palla fuori (ma Schumacher aveva intuito), tra il palo e Conti, curato a bordo campo per la botta subita.
Gli azzurri sembrano patire il contraccolpo della grande occasione mancata. La Germania si rende pericolosa alla mezzora con Fischer, anticipato da Collovati, e poi di nuovo con lo stesso Fischer, il più attivo dei suoi in attacco, di testa. L’Italia ci prova con una punizione dal limite, ottenuta grazie ad un’azione personale di Oriali, ma il tiro di Conti, seppur forte, è centrale.
Si va al riposo sullo zero a zero, con i bianchi tedeschi che hanno gestito maggiormente il gioco, ma nel contempo hanno vacillato pericolosamente intorno alla metà della prima frazione sotto i colpi italiani, rischiando di capitolare su rigore. È un’Italia nel complesso abbastanza timida e lenta, impacciata come si suol dire, tranne sporadiche ed efficaci fiammate. Forse il nuovo modulo non è eseguito in maniera adeguata – ma la scelta di Bergomi, in marcatura su Rumenigge sta pagando. Cabrini negli spogliatoi piange per l’errore dal dischetto e i compagni lo rincuorano. Berazot invece è lungimirante e sprona i suoi uomini: quelli sono cotti, andate a prendervi il titolo.
L’Italia entra in campo per il secondo tempo con un altro piglio; in generale, il gioco di entrambe le formazioni si fa più veloce e intenso, e quindi più godibile. Aumentano anche gli interventi fallosi. Al dodicesimo l’Italia va in gol. Punizione dalla trequarti battuta subito da Tardelli senza chiedere la distanza, in modo intelligente, con i tedeschi fuori posto. Palla a Gentile sulla destra, cross pericoloso e Paolo Rossi, ancora una volta lui, che anticipa tutti e batte di testa Schumacher. Paolo Rossi sarà capocannoniere del torneo, con sei reti.
Sotto di un gol, la Germania Ovest ha un’opportunità con Rumenigge, non abbastanza rapido a ribadire in rete dopo un’uscita imprecisa di Zoff. Derwall rafforza l’attacco con Hrubesch al posto di Dremmler. I tedeschi spingono, ma inevitabilmente lasciano spazi che non hanno la forza di coprire, e la difesa italiana non sbaglia un colpo. L’Italia pare sempre più in grado di controllare l’incontro. Passano altri dodici minuti, e gli azzurri raddoppiano in modo strepitoso.

Ha detto Gilles Deleuze che in filosofia i concetti sono come canti, ma talvolta l’esprimere concetti corrisponde a delle autentiche grida: in qualche modo bisogna sapersi fermare – Aristotele; Cosa può un corpo? Non sappiamo nemmeno cosa può un corpo – Spinoza (Gilles Deleuze, Abbecedario). Nel calcio, allo stesso modo, i gol spesso sono canti, e in alcune occasioni sono urla. Ad esempio, il gol di Muller all’Olanda nella finale del ’74 è un urlo. Quello di Bettega all’Argentina, nel mondiale del 1978, è un altro urlo. Ed è un grido la seconda rete dell’Italia nella finale. In tutti i sensi.
Azione di contrattacco degli azzurri. I tedeschi sono sbilanciati, ma più che altro cominciano a non averne più in corpo. Paolo Rossi in trance agonistica contrasta un avversario e recupera la sfera. Scirea parte palla al piede dalla propria trequarti; Conti, poi Rossi, e siamo giunti al limite dell’aera avversaria. Il pallone arriva di nuovo a Scirea, che adesso è nell’area tedesca, sulla destra. Rallenta, poi di tacco (di tacco!) la dà verso il centro a Bergomi. Di nuovo a Scirea, poi ancora verso il centro, poco fuori dall’area, a Tardelli.
Sin qui tutto normale. Tutto tranquillo. Poi la palla rimbalza sulle gambe di Tardelli, assume uno strano effetto, inizia a slittare in avanti ma non di molto. Un giocatore tedesco gli si avventa contro. Il centrocampista italiano sta per perdere la sfera, quindi fa due passi veloci, arretra il busto e allunga le gambe. Scocca il tiro. A questo punto accade qualcosa. È come una scintilla, un lampo, un dardo partito dal terreno che si alza e va ad infilarsi a fil di palo. Il portiere immobile, attonito. Ma non è solo da vedere quel gol. È da ascoltare. Ascoltate l’urlo, l’urlo del gol.
Dopo aver segnato, Tardelli inizia ad urlare sul serio e furiosamente, correndo a braccia aperte per il campo. È normale, dopo quanto accaduto. Come fosse un film, un copione già scritto e pronto da mettere in scena, subito dopo il gol la telecamera lo inquadra e lo segue per alcuni secondi, sino a quando si perde nell’abbraccio dei compagni. Il celeberrimo urlo di Tardelli.
Ancora altri dodici minuti – l’orologio pare scandire con metodo gli eventi della finale – e Conti prende in contropiede una Germania ormai sfilacciata e demotivata. Fa mezzo campo da solo, giunge in area e scarica in mezzo per Altobelli, che con freddezza scarta Schumacher e mette in rete. Tre a zero, mentre sugli schermi televisivi appare la bellissima immagine del presidente Sandro Pertini – il militante anti-fascista, il partigiano – che sorride in piedi in tribuna e dice “Ormai non ci prendono più!”.
L’Italia del secondo tempo è stata un rullo compressore; difficile fare delle graduatorie di merito tra i giocatori in campo, perché tutti hanno espresso una prestazione superlativa. C’è ancora il tempo per il gol della bandiera tedesca, marcato da Breitner, e poi è finita. Tre a uno per l’Italia – terzo titolo mondiale per la nazionale italiana, a pari merito con il Brasile.
Chi alza la Coppa del Mondo FIFA al cielo è il capitano e portiere Dino Zoff, giunto all’età di quarant’anni al punto più alto della sua carriera. Zoff è un friulano taciturno, serio, scuro in volto – almeno all’apparenza. Da ragazzo lavora sui motori presso un’officina. I suoi idoli erano Fausto Coppi e Abdon Pamich, un ciclista e un marciatore, sport faticosi, solitari e silenziosi. Pare quindi predestinato a essere un portiere. La sua lunghissima carriera prende il via il 24 settembre del ’61, nell’Udinese, con cinque gol al passivo. Gioca nel Mantova, nel Napoli e nella Juventus, dove non salta una partita per undici stagioni di fila. Ha uno stile sobrio ed efficace, per cui poco spettacolare; è molto abile nei piazzamenti. Si allena con costanza, impegno, attenzione, è un esempio di professionismo dentro e fuori dal campo. Gioca alcune partite memorabili. Fra queste, un Amburgo – Juventus del ’75, Coppa UEFA, terminato zero a zero: a fronte di una prestazione eccezionale, il giorno seguente alcuni giornali giungeranno ad assegnarli il dieci in pagella.
In nazionale esordisce nei quarti di finale degli Europei ’68, a Napoli, contro la Bulgaria (risultato finale, due a zero per l’Italia). Con gli azzurri vince quel torneo. A Messico ’70 è però in panchina, scavalcato da Albertosi. Si riprende la porta italiana e la difende per oltre un decennio. È protagonista di una lunga imbattibilità tra il ’72 e il ’74 che fa il giro del mondo. Nel 1978, dopo i Mondiali, subisce pesanti critiche, che lui comunque considera corrette. È dato per finito. Invece, quattro anni dopo, diventa il più anziano campione del Mondo di sempre. In Spagna Zoff è protagonista di un grande torneo, addirittura straordinario e decisivo nelle partite che l’Italia vince contro Argentina e Brasile. Al termine dell’incontro con i brasiliani si lascia andare ad un gesto insolito, ma naturale e genuino, quando bacia sulla guancia un sorpreso Bearzot che sta concedendo un’intervista. In finale invece è poco impegnato.
Una volta appesi i guanti al chiodo, allena, con risultati pregevoli: Juventus (una Coppa Italia e una Coppa UEFA), Lazio e nazionale azzurra, con la quale sfiora il titolo europeo nel 2000. Ma più di tutto, Dino Zoff sarà ricordato come uno dei più grandi portieri di sempre, e con la Coppa del Mondo fra le mani, in una calda notte spagnola.
Quello che si chiude la sera dell’undici luglio 1982 è uno splendido Mondiale, giocato in una terra meravigliosa e di grande tradizione calcistica. Un torneo nobilitato da due partite-monumento (Italia – Brasile e la semifinale Germania Ovest – Francia). Un torneo emozionante, con giocatori di talento ai vertici della loro carriera e un manipolo di squadre molto interessanti.
Le cinque principali protagoniste della competizione, ovvero Italia, Germania Occidentale, Francia, Brasile e Argentina, sono la forma del calcio che verrà. Infatti saranno le finaliste di tutti i successivi Mondiali sinora giocati, salvo l’eccezione rappresentata dall’edizione 2010 (e l’aggiunta della Croazia nel 2018). A fianco delle magnifiche cinque, poi, un gruppetto di formazioni è riuscito bene o a male mettersi in luce: la Polonia semifinalista, innanzitutto; l’Inghilterra, bella e incompiuta; in maniera minore, ma non trascurabile, anche l’URSS e il Belgio. Da non dimenticare inoltre l’emergere di forze nuove, e in particolare la decisa comparsa del continente africano sulla scena calcistica.
Dal punto di vista del gioco, si può dire che il modulo all’italiana, seppur in forme spurie o derivate, abbia raggiunto una certa diffusione. A questa tattica di fatto si sono ispirate anche le nazionali francesi e tedesca occidentale. È un’inversione di rotta rispetto alle ultime edizioni del campionato del Mondo. Dal 1982 cresce infatti a livello di nazionali l’attenzione alla fase difensiva e quindi l’applicazione di un calcio maggiormente reattivo, anziché proattivo. Il difensivismo dominerà anche le due Coppe successive, ma saranno anch’essi dei tornei molto interessanti, per quanto a calare.
Dal punto di vista del risultato, la vittoria della nazionale italiana è meritata oltre ogni ragionevole dubbio. L’Italia sconfigge nell’ordine i detentori del titolo mondiale, la formazione stra-favorita del torneo e i campioni d’Europa in carica. La nazionale di Berazot corona alla grande un breve e fantastico ciclo che l’ha inserita stabilmente, e per due Mondiali consecutivi, ai massimi vertici del calcio internazionale. Un breve ciclo compreso in uno più ampio – all’epoca era impossibile saperlo – iniziato con i Mondiali del 1970 e concluso con il quarto titolo, nel 2006. Il secondo grande ciclo della nazionale azzurra, dopo il primo, che ha portato in dote già due titoli mondiali (1934 e 1938).
Ma nella memoria collettiva italiana resta impresso il ricordo di un’impresa inaspettata, avvincente, in grado di andare anche oltre l’aspetto prettamente agonistico. Ricompariranno periodicamente per anni le immagini che hanno segnato l’epopea del Mondiale azzurro: il pomeriggio del Sarria; l’urlo di Tardelli; la partita a carte con il presidente Pertini, sull’aereo che riporta a casa i neo-campioni del Mondo. La festa nelle strade italiane è enorme. Si apre altresì un periodo d’oro, di straordinaria fama e popolarità, per il calcio in Italia. Spagna 82′ è stato senza dubbio l’evento calcistico e sportivo più importante e famoso della nostra storia repubblicana. Ha detto bene Cabrini: “Avevamo realizzato un’impresa destinata a restare nella storia italiana”5)Alberto Guasco, cit..
C’è ancora una piccola vicenda che il Mondiale ’82 – questo scrigno colmo di fantastiche storie – riesce a raccontarci. Mentre sul prato del Santiago Bernabeu e sugli spalti impazza la festa, c’è un uomo appoggiato ai tabelloni, solo, con lo sguardo perso nel vuoto e l’animo triste. Non è uno dei tedeschi, no, sarebbe troppo facile. Fa parte dei vincitori, dei neo-campioni del mondo. I suoi compagni sono pieni di gioia, e lo stesso vale per gran parte del suo popolo, ma lui invece è li, lontano da tutti e da tutto. E pensa: “Fermate il tempo. Fermatelo, ora, perché non vivrò mai più un momento del genere, in tutta la mia vita. Invece sta scappando, sta scappando via… e già è scomparso”. Quell’uomo ha il mondo in tasca, ma non sa che farsene. Quell’uomo è Paolo Rossi6)Il Capocannoniere Paolo Rossi, Storie di Calcio.
27 novembre 2018
immagine in evidenza: L’esultanza di Tardelli al termine dell’incontro – storiedicalcio.altervista.org
References
1. | ↑ | David Goldblatt, The ball is round, Penguin Books, 2007 |
2. | ↑ | Jonathan Wilson, La piramide rovesciata, Edizioni Libreria dello Sport, 2012 |
3. | ↑ | Alberto Guasco, Spagna ’82. Storia e mito di un mondiale di calcio, Carocci editore, 2016 |
4. | ↑ | Gianni Mura, Intervista a Bearzot, Storie di calcio |
5. | ↑ | Alberto Guasco, cit. |
6. | ↑ | Il Capocannoniere Paolo Rossi, Storie di Calcio |