Il 2 maggio 2015, quattro giorni dopo essere stato eletto per la quinta volta presidente della federazione internazionale, Joseph “Sepp” Blatter annuncia le sue dimissioni: segretario della Fifa dal 1981, presidente dal 1998, Blatter è stato il personaggio cardine dell’organizzazione del calcio mondiale dopo il regno di Havelange. Sotto il suo dominio il gioco si è allargato a livello mondiale come mai prima, una diffusione testimoniata dalla crescita del numero di paesi affiliati alla Fifa, così come da un esponenziale aumento dei profitti (5,7 miliardi di dollari tra 2011 e 2014) e delle riserve valutarie (un miliardo e mezzo di dollari alla fine del 2014)1)Brizzi Riccardo, Sbetti Nicola, Storia della Coppa del mondo di calcio (1930 – 2018), Le Monnier, 2018 che gonfiano le casse del quartier generale di Zurigo. E ovviamente dove c’è denaro giunge la corruzione. Voci sempre più ricorrenti tratteggiano un quadro fosco in cui gli affari illeciti paiono ormai di casa nel massimo organismo del calcio internazionale e descrivono i presunti metodi sporchi usati nel percorso per l’assegnazione dei Mondiali 2018 alla Russia e 2022 al Qatar. Nel 2015 un’inchiesta americana scoperchia il marcio e dagli Stati Uniti vengono spiccati mandati di arresto per diversi dirigenti della federazione, con accuse variamente assortite di corruzione, associazione a delinquere, riciclaggio – e che infatti riguardano proprio, fra le altre cose, la scelta dei paesi che avrebbero ospitato i successivi campionati. Le federazioni europee, da tempo in rotta con il presidente, montano la fronda, i grossi sponsor si allontanano e quindi il principale responsabile di quel sistema di potere è costretto a lasciare con sommo disonore; l’inchiesta travolge anche Platini, ovvero l’erede designato del presidente, poi scagionato anni dopo da un tribunale svizzero.
Pesantemente infangata dal più grave scandalo della sua storia, descritta a livello internazionale come un’organizzazione criminale o poco più, la Fifa affida le proprie sorti allo svizzero Gianni Infantino e ad un programma di pulizia e di ricostruzione. In realtà, la nuova gestione non abbandona impostazione imprenditoriale e proiezione globale ormai consolidate, operando nel segno di una continuità che trova chiara testimonianza nella scelta di confermare le fraudolenti assegnazioni dei Mondiali ’18 e ’22. Con il nuovo corso le federazioni europee tornano a godere di maggiore attenzione e poi si decide, a partire dal 2026, di portare a quarantotto il numero di squadre che parteciperanno alla fase finale della Coppa; vi è poi un deciso appoggio al versante femminile del calcio, per il quale il Mondiale 2019 giocato in Francia rappresenta una tappa di rilevanza storica nel percorso di crescita e di affermazione. Ma l’ambito in cui la Fifa davvero rilancia, imboccando ancora una volta la strada giusta, è una novità sul piano del gioco vero e proprio il cui nome (o meglio l’acronimo) è VAR.
È il marzo del 2018 quando il comitato esecutivo della federazione internazionale riunito a Bogotà assume la decisione di utilizzare ai Mondiali che si apriranno di lì a breve in Russia il Video Assistant Referee, ovvero “arbitro di video assistenza”, oppure anche “video assistenza arbitrale” nel caso si preferisse declinare il termine al femminile: è la famosa moviola in campo invocata e dibattuta da anni, testata da un lungo rodaggio e già introdotta da tempo ma a piccole dosi. Il Var consiste in un ufficiale di gara (o due) seduto di fronte agli schermi che esamina i casi di gioco più importanti (gol, rigore, espulsione diretta, scambi di persona) e comunica via auricolari con l’arbitro, che può rivedere l’episodio dubbio presso uno schermo a bordo campo e al quale è comunque rimandata la decisione finale. Inevitabilmente questo determinerà un aumento del numero dei rigori fischiati nel torneo, ma allo stesso tempo si assiste in modo drastico al crollo delle espulsioni, appena quattro su sessantaquattro incontri – il numero più basso dal 1978: con ogni probabilità gli interventi fallosi sono inibiti dalla presenza del video. In ogni caso il Var è un successo strepitoso. Le decisioni arbitrali diventano palesemente più giuste e soprattutto scompaiono – e si può dire per sempre – gli errori clamorosi che in tante occasioni hanno accompagnato le partire della Coppa. Di lì a breve il calcio pre-Var di appena pochi anni prima sembrerà lontano secoli, assumendo l’aspetto di un remoto passato vagamente barbaro e ormai intollerabile.
Per narrare il Mondiale russo è opportuno partire dalle selezioni assenti, poiché per la prima volta da diversi anni – per la precisione da USA ’94, torneo ancora a ventiquattro squadre – falliscono la qualificazione alla fase finale alcune nazionali di peso. Salta il Mondiale dopo sessant’anni la nazionale italiana. Seconda nel proprio girone dietro la Spagna, incrocia la nazionale svedese nel play-off qualificazione, che ha questo svolgimento: uno a zero per gli scandinavi in Svezia con gol di Johansson, zero a zero a Milano nella gara di ritorno, durante la quale gli azzurri impiegano buona parte del tempo a spedire inutili cross in area avversaria, alla fine ben cinquantuno (dato interessante anche per sottolineare il valore in ribasso dei cross nel calcio odierno). E allora Italia clamorosamente fuori. Di fronte a quello che (al momento) rappresenta il punto più basso dell’intera storia calcistica azzurra, si avanzano inevitabili paragoni con il contesto circostante e così Andrea Di Caro su La Gazzetta dello Sport scrive: “Il calcio riflette l’intero paese: è l’incapacità dell’Italia a guardare al futuro”2)David Goldblatt, The age of football, McMillan, 2019. Trascorrono poco più di quattro anni e la nazionale italiana riesce a fare anche peggio, ottenendo l’eliminazione dal Mondiale del 2022 in seguito a un’inconcepibile sconfitta casalinga per mano della debole Macedonia del Nord (a sottolineare inoltre una curiosa e insana sofferenza con le nazionali dotate del suffisso nord, vedi Corea), dopo aver sprecato un avvio promettente nel percorso di qualificazione, nonché l’esaltazione per il titolo continentale appena vinto. La crisi storica dell’Italia è in corso e sembra ancora più profonda della precedente occorsa nel ventennio post-bellico.
Ciò che impressiona – l’elemento davvero inverosimile ragionando a posteriori – è come nel pieno di un periodo del genere la nazionale italiana riesca a laurearsi campione d’Europa. Il consueto alternarsi periodico tra esaltanti vittorie e cocenti sconfitte pare quindi riproporsi, ma non più con andamento ciclico, bensì schizofrenico. Mentre si gioca sui campi russi, Roberto Mancini è da poco il nuovo allenatore dell’Italia e dichiara che il suo obiettivo è riportare l’Italia al posto che le spetta, cioè fra le grandi del calcio. A settembre l’Italia perde in Nations League contro il Portogallo, poi mette a segno una prodigiosa serie di trentasette partite utili senza sconfitte che dura tre anni: in mezzo si disputa Euro 2020, competizione spostata avanti di un anno a causa della pandemia secolare (il rinvio ha in qualche modo giocato a favore della nazionale di Mancini, concedendo al tecnico il margine di un ulteriore anno di tempo nell’opera di crescita dei talenti e di ricostruzione). L’Italia realizza un vero capolavoro nel conquistare un insperato titolo europeo, il secondo della sua storia: supera il Belgio ai quarti, poi la Spagna ai rigori in semifinale e ancora ai tiri di rigore l’Inghilterra in finale, di fronte al pubblico di casa di Wembley. Viene inoltre sfatato forse definitivamente il mito – radicato nei Novanta, e a ragion veduta – di una nazionale italiana debole ai rigori. Tanto di cappello agli artefici del trionfo – ma è altresì l’ennesima conferma di una competizione, quella continentale (e vale anche al di là dell’Europa), che spesso riflette in forma per lo meno distorta i valori assoluti se messi a confronto con la competizione superiore, la Coppa del Mondo.
Manca poi l’Olanda, in grande difficoltà dopo una finale e una semifinale mondiale nelle scorse edizioni, tanto da aver saltato anche la fase finale degli Europei 2016 che oltre tutto, per la prima volta nella storia, è allargata a ventiquattro squadre. Sono fuori per la prima volta dal 1986 gli USA, ormai usciti dal loro migliore ciclo calcistico di sempre: è una battuta d’arresto pesante poiché gli statunitensi sono stati estromessi al termine di un girone di qualificazione che, come sempre, non può ritenersi impegnativo, e per di più disputato quali campioni Concacaf in carica.
Il Cile bi-campione del Sudamerica, una delle grandi protagoniste del calcio internazionale negli ultimi anni, chiude al sesto posto il girone unico della Conmebol, mentre l’ultimo posto utile per giocare almeno il play-off intercontinentale è il quinto. Alla vigilia dell’ultimo incontro il Cile è terzo ed è atteso a una trasferta in casa dei brasiliani, comunque già ampiamente qualificati: la roja perde tre a zero ed è oltrepassata in classifica da Argentina, Colombia e Perù, quest’ultimo soltanto per differenza reti (i peruviani vinceranno poi lo spareggio con la Nuova Zelanda). Quella dei cileni è un’eliminazione assolutamente inattesa, se si pensa che solo un anno prima, in occasione della Confederations Cup, il commissario tecnico Pizzi aveva addirittura rivendicato espressamente la possibilità di vincerlo, il Mondiale. Pizzi comunque in Russia ci arriverà lo stesso quale allenatore della nazionale saudita, ma senza troppa fortuna, come si vedrà nel prosieguo. Poi il Cile mancherà l’appuntamento anche con la successiva edizione della Coppa.
C’è ovviamente la nazionale padrona di casa, la Russia, una selezione non eccelsa e priva di vere stelle, composta da giocatori quasi tutti affiliati ai club locali. Il campionato russo in quegli anni è dominato da CSKA Mosca e Zenit San Pietroburgo: è un torneo nel quale circola un discreto ammontare di denaro ma è afflitto da problemi di razzismo (soprattutto nei confronti di persone provenienti dal Caucaso) e violenza, come reso evidente dai tafferugli scatenati dai russi agli Europei del 2016. Durante i Mondiali però, il controllo serrato forze polizia anche in funzione anti-terroristica consente che tutto fili via liscio.
La Russia allenata da Cercesov è una squadra con un impianto abbastanza tradizionale e difensivista, caratterizzata da un possesso palla molto basso; nel ranking Fifa occupa appena la settantesima posizione. L’ultima affermazione in gare ufficiali risale all’ottobre precedente, poi ottiene una serie di pareggi e sconfitte nelle sette partite successive che precedono il campionato, consistenti però, almeno in parte, in prove di rodaggio ad alto tasso di difficoltà (Argentina, Brasile, Spagna, Francia). Tuttavia la Russia sfrutta a dovere il fattore campo e raggiunge i quarti di finale, come riuscito soltanto all’Ucraina nel 2006 fra le eredi del calcio sovietico, e sfiora la semifinale, ovvero il massimo approdo dell’URSS ai Mondiali, raggiunta in un’unica occasione nel 1966. In generale Russia 2018 rappresenta una reale rinascita del calcio est-europeo per nazionali: due selezioni qualificate ai quarti (non accadeva dal 1994, quando ancora si dispiegavano gli effetti dell’organizzazione socialista dello sport) e almeno una in semifinale (l’ultima volta era il 1998).
All’esordio, nella sfida che apre il torneo, i russi rifilano cinque reti all’Arabia Saudita. Apre le marcature Gazinsky; segna una doppietta il centrocampista Cheryshev, entrato al minuto ventiquattro al posto Dzagoev, infortunatosi durante uno scatto; segna anche un altro subentrato, Dzyuba; è protagonista di un’ottima prestazione anche l’altro centrocampista, Golovin, autore del quinto gol. Ad ogni rete il presidente russo Putin, inquadrato a più riprese dalle telecamere, sembra scusarsi con il principe ereditario saudita, seduto assieme a lui in tribuna con in mezzo Infantino, che bel quadretto. Nel secondo incontro tre gol russi – due dei quali segnati nuovamente da Cheryshev e dall’attaccante Dzyuba, giocatori che saranno apprezzati per tutto il torneo – regolano la selezione egiziana. Salah nell’Egitto gioca ma non è al massimo e segna su rigore la rete del tre a uno finale.
Dimostratisi alla prova dei fatti superiori alle aspettative, dopo sole due partite i russi passano alla fase a eliminazione diretta, facilitati anche da un girone ancora più semplice di quanto si pensasse alla vigilia. L’aver superato la fase a gironi costituisce però una novità per la nazionale russa post-URSS e viene accompagnata dalla comprensibile soddisfazione dei tifosi locali già lieti di ospitare il campionato nel paese più vasto del mondo. Per tale ragione, cioè evitare spostamenti di eccessiva lunghezza, le sedi di gara sono state concentrate nella Russia europea, ma si tratta pur sempre di un notevole spazio compreso tra Kalingrad ed Ekaterinburg in longitudine, e tra San Pietroburgo e Sochi in latitudine. È una manifestazione molto costosa. Da alcuni anni la Russia ospita molti eventi sportivi di livello internazionale quale evidente strumento geopolitico di soft-power, ma ha rischiato seriamente di perdere la titolarità della più importante, ovvero la FIFA World Cup edizione 2018. Emerge infatti, tra il 2015 e il 2016, un vasto scandalo riguardante l’uso di sostanze dopanti che coinvolge tutto il sistema sportivo russo e che conduce nel 2017 alla sospensione del Comitato olimpico russo dal Cio, oltre che dalla Iaaf (la federazione mondiale di atletica leggera). Non dalla Fifa, però. I russi fanno buon viso a cattivo gioco, accettano le sanzioni e così preservano l’organizzazione dei Mondiali di calcio sul suolo patrio. Sarà l’invasione dell’Ucraina nel 2022 a determinare un vero isolamento dello sport russo dal resto del pianeta, inclusa l’esclusione dai Mondiali.

L’esito sportivo di questa Coppa del Mondo è foriero di alcune riflessioni che sorgono quasi esclusivamente guadando i nomi delle quattro nazionali approdate alle semifinali. Per la prima volta dal 1930, cioè dalla prima edizione della Coppa, mancano sia i brasiliani, sia i tedeschi; approfondendo ulteriormente, non compaiono – oltre a Brasile e Germania -, anche Italia, Argentina e Uruguay, ovvero le sole cinque selezioni che, prima della manifestazione, possono vantare lo status di pluricampioni (e da sempre almeno fra le prime quattro di ogni Mondiale). È un cambio di rotta storico? In parte sì, è evidente, ma in ultima analisi le quattro semifinaliste del 2018 non costituiscono un’autentica novità: due di loro sono già state campioni, altre due almeno semifinaliste. Non si possono inoltre definire come sorprese, poiché la Francia alla vigilia appartiene al novero delle prime favorite (assieme a Germania, Brasile e Spagna), mentre le altre tre semifinaliste bene o male rientrano nella fascia di valore immediatamente inferiore. Sono squadre ritornate alla ribalta del Mondiale dopo aver vissuto un periodo di alto livello negli anni ottanta e novanta: Croazia semifinalista nel ’98, Inghilterra nel ’90, Belgio nel 1986. Discorso a parte vale per la Francia, perché in tal caso è possibile tracciare un unico, grandioso ciclo vincente avviato nel 1998.
Il vero cambio di gerarchie sta tutto invece nel rapporto di potere tra Europa e Sudamerica che ha caratterizzato sinora l’intero percorso dei Mondiali di calcio. Tutte le semifinaliste sono europee – dato significativo ma di per sé non inedito; ciò che attrae l’attenzione e assume un significato dirompente, è il risultato complessivo degli ultimi quattro tornei iridati (2006 – 2018): quattro vittorie su quattro per le europee, sette finaliste su otto, tredici semifinaliste su sedici. L’epoca del dominio europeo in Coppa è ormai un fatto storico. Si può tracciare un parallelo con quanto accaduto nel tennis maschile – seppur in senso ancora più marcato – durante gli stessi anni, che in questo gioco verranno essenzialmente ricordati con i nomi di Federer, Nadal e Djokovic: nel 2002 si registra l’ultimo major vinto da Sampras, nel 2003 l’ultimo di Agassi e il primo di Federer; poi, dal 2004 a inizio 2022, su settantadue prove slam disputate, appena due sono vinte da non europei. Tra l’altro tutti questi dati potrebbero sembrare in controtendenza rispetto all’andamento complessivo dello sport mondiale, volendo prendere come cartina di tornasole l’esito delle Olimpiadi. Ai Giochi di Tokyo 2020 (disputati nel 2021) per la prima volta in assoluto non compaiono nazioni europee tra le prime tre classificate nel medagliere finale, che infatti sono Stati Uniti, Cina e Giappone. Ma gli sport non hanno tutti lo stesso peso, come invece accade nel medagliere olimpico.
Ora, tornando al pallone e adottando un altro punto di vista, è corretto precisare come l’equilibrio passato tra europee e sudamericane (in termini di vittorie durato sino al 2002; in termini di risultati complessivi, sino al 1978) fosse un particolare indice di forza delle seconde, perché meno rappresentate alla fase finale della Coppa in termini numerici e appartenenti a un continente inferiore in termini di popolazione e sviluppo. Però lo squilibrio in atto, che ha mostrato i primi segni a partire dagli anni ottanta, in questa fetta di ventunesimo secolo si è reso evidente e incontestabile in quanto – qui risiede la novità assoluta – ha iniziato a interessare la stessa contesa per il titolo: in modo sempre più frequente pare un discorso riservato solo al vecchio continente. Che cosa è successo?
L’efficiente organizzazione a diversi livelli sociali e la ricchezza dell’Europa, assieme alla solida tradizione calcistico-sportiva, hanno determinato il salto in avanti; è accaduto infatti in termini generali che, in un contesto già fortemente sviluppato, si è prodotto l’innesto di alti e crescenti livelli di educazione e di specializzazione, oltre ai benefici garantiti dall’uso e dalla diffusione delle novità in ambito tecnologico. Pertanto il settore calcistico europeo ne ha tratto giovamento: galvanizzato dalla comparsa o dall’arrivo dei migliori tecnici e dei migliori addetti ai lavori in ogni campo (quale ad esempio i servizi medici); aiutato dal lavoro di analisti di vario tipo; potenziato da nuovi e più efficaci metodi di allenamento; rafforzato dallo sviluppo di nuove tecniche di gioco. E gioco forza i migliori giocatori hanno iniziato a formarsi in Europa. Tutto quanto è stato trainato dai grandi club europei trasformati ormai in vere e proprie organizzazioni aziendali. Senza poi trascurare la sempre più ampia possibilità di attingere nell’ambito di un bacino composto da atleti di varie provenienze, africane ma non solo, una varietà di scelta che ha contribuito non poco alla crescita delle nazionali europee (soprattutto Francia, Belgio e Olanda, in parte anche Germania e Svezia).
Senza dubbio è innegabile il processo di miglioramento che ha coinvolto le realtà calcistiche periferiche negli ultimi decenni, tanto che la sconfitta della Germania contro i sudcoreani patita in questo torneo non produce lo stesso effetto delle sconfitte di Argentina contro Camerun nel 1990 o degli stessi tedeschi contro gli algerini nel 1982 – per non parlare delle più datate e sconvolgenti affermazioni dei nordcoreani sull’Italia o degli statunitensi sull’Inghilterra. Però nei momenti decisivi del campionato è chiaro come il solco tra le europee – rappresentate da un numero di selezioni potenzialmente vincenti più ampio del passato, ecco il dato nuovo estratto direttamente da Russia ’18 – e il resto del mondo si è progressivamente allargato.
L’America del Sud è rimasta indietro, appesantita – in forma ulteriormente aggravata – dai medesimi ritardi che ne hanno segnato le vicende da alcuni decenni: questioni economiche irrisolte; disuguaglianza; tessuto sociale devastato (in aggiunta) dalla piaga del traffico di droga; incompetenza e corruzione dei dirigenti calcistici. I club locali non hanno retto lo scatto in avanti degli omologhi europei e di conseguenza i giocatori hanno iniziato a migrare in massa, ma non solo: ormai le società incassano una bella fetta delle loro entrate dalla vendita dei calciatori, per cui il calcio sudamericano ha assunto un orientamento rivolto quasi solo all’esportazione, quale attività economica centrale3)Goldblatt, cit.. La violenza attorno al pallone, ricorrente a ondate nei vari paesi, di fatto non si è mai interrotta, come attestano i festeggiamenti seguiti alle affermazioni di Cile e Colombia nella Coppa America del 2019, accompagnati da tumulti e, nel caso colombiano, anche da morti.
Quattro edizioni del Mondiale rappresentano una bella fetta di storia della manifestazione e costituiscono un’epoca ormai ben definita, come detto. Saranno necessarie altre edizioni del torneo per comprendere la reale portata del dominio: volendo giocare con le previsioni, un ritorno indietro nel breve periodo è sempre possibile, ma con ogni probabilità sarà solo parziale perché ben difficilmente nel futuro prossimo si potrà di nuovo assistere al passato equilibrio. In attesa che un giorno il binomio Europa – Sudamerica, ininterrottamente sempre al vertice del calcio mondiale, sia rotto da una selezione di un terzo continente.
7 maggio 2022
immagine in evidenza: Stadio Luzhniki di Mosca
References
1. | ↑ | Brizzi Riccardo, Sbetti Nicola, Storia della Coppa del mondo di calcio (1930 – 2018), Le Monnier, 2018 |
2. | ↑ | David Goldblatt, The age of football, McMillan, 2019 |
3. | ↑ | Goldblatt, cit. |