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Messico, 1986
VIII. Argentina – Germania Ovest atto primo

E chi giocherà la finale con l’Argentina? Ma la Germania Ovest, è ovvio. I tedeschi, protagonisti di un percorso non esaltante ma senza dubbio efficace, procedendo a fari spenti almeno sino alla semifinale con i francesi, si apprestano a disputare l’ultimo atto della Coppa del Mondo per la seconda volta consecutiva – e per la quarta in appena vent’anni. Lo scontro con l’Argentina, poi, costituisce il tema fondamentale della seconda metà degli Ottanta nel calcio fra nazionali, poiché la stessa finale si ripeterà soltanto quattro anni dopo Messico ’86.

Un percorso non straordinario quello della mannschaft, si è detto, e molti all’epoca avranno storto il naso nel vedere i bianchi di Germania in finale (lo stesso accadrà nell’edizione 2002). I quali però non hanno rubato alcunché. Sorteggiati in un girone complicato, i tedeschi dell’ovest esordiscono con l‘Uruguay e vanno sotto quasi subito a causa del gol di Alzamendi, che buca centralmente la difesa tedesca. Allofs pareggia i conti a cinque minuti dalla fine, al termine di un’azione molto prolungata, una sorta di assedio alla porta uruguaiana, e pertanto l’incontro si chiude sull’uno a uno. Per l’Uruguay poteva essere la rivincita del quarto di finale giocato dalle due nazionali ai Mondiali del ’66: un quattro a zero per i tedeschi rimasto in bilico sino a metà della ripresa e molto contestato dai sudamericani (un po’ come Inghilterra – Argentina), ma non è andata così.

Contro la Scozia la Germania va di nuovo sotto nel primo tempo (rete di Strachan), ma pareggia quasi subito con Voller e ribalta il risultato grazie a una nuova marcatura dell’esperto attaccante Klaus Allofs nella ripresa. La sconfitta sfiorata nei due precedenti incontri diventa allora realtà nell’incontro che la vede opposta alla Danimarca, e in maniera abbastanza netta.

La nazionale tedesco occidentale passa quindi il turno e va a incrociare agli ottavi di finale il Marocco, a Monterrey, Estadio Universitario. La compagine magrebina si è qualificata al Mondiale assieme all’Algeria, superando ai playoff, in una competizione tutta nordafricana, la Tunisia e la Libia. È la prima africana a superare il primo turno dei Mondiali e dunque è la sorpresa del torneo. Con la Germania imposta una partita difensiva e il portiere (e capitano, Zaki) diventa protagonista: nel primo tempo realizza un grande salvataggio d’istinto su tocco ravvicinato di Rumenigge; nella ripresa blocca in uscita un tentativo di Voller, lanciato a rete. I marocchini stanno per trascinare la Germania Ovest ai supplementari quando a due minuti dal termine Matthaus calcia una punizione da oltre trenta metri: il tiro, rasoterra, forte e angolato, sorprende Zaki e regala ai tedeschi i quarti di finale. È nata una stella, Lothar Matthaus, e il mondo se ne è accorto – anche se in realtà aveva già conquistato il titolo europeo con la sua nazionale nel 1980 ed era fra i convocati ai Mondiali anche quattro anni prima.

Ora quella che attende i tedeschi è la sfida ostica contro i padroni di casa del Messico, una formazione tecnicamente non eccelsa ma trascinata dalla passione del proprio pubblico e con la voglia matta di approdare per la prima volta nella storia fra le prime quattro al mondo. Nella prima frazione le due squadre assumono un atteggiamento guardingo, puntando in modo serio al gol quasi esclusivamente tramite punizioni da lontano (Tomas Boy da una parte, Allofs dall’altra), salvo un’occasione importante a vantaggio dei tedeschi. L’azione è bella: Magath apre sulla sinistra per Rumenigge, palla di testa al centro e tiro al volo di Allofs; grande respinta del portiere messicano Larios, che si ripete subito dopo in uscita sempre su Allofs e ancora, in arretramento, su un palomba proveniente da centrocampo.

Al ventesimo della ripresa avviene l’episodio che potrebbe segnare le sorti dell’incontro. Berthold scatta sulla destra e Quirarte lo tallona; il tedesco strattona l’avversario, ma soprattutto gli affibbia uno scappellotto piuttosto stupido, mentre è in caduta, a due passi dal guardalinee (ma anche l’arbitro non è lontano). Il messicano si rotola a terra, l’arbitro estrae il rosso diretto e la Germania Ovest resta in dieci. In questo secondo tempo il Messico è più attivo dei tedeschi e con l’uomo in più ha la grande occasione di portare a casa la partita. Ma a questo punto sale in cattedra Schumacher, l’estremo difensore tedesco.

Harald Schumacher, detto Toni in omaggio al suo grande idolo Toni Turek, campione del Mondo nel 1954, è il guardiano dei pali tedeschi per buona parte del decennio. Passa alla storia anche per il terribile intervento su Battiston nella Notte di Siviglia, ma Schumacher è stato un grande portiere, uno dei migliori esempi della prestigiosa scuola tedesca. Un anno dopo il Mondiale pubblicherà un’autobiografia che farà molto clamore, nella quale parla apertamente dell’uso di sostanze dopanti nella Bundesliga; per questo perderà il posto in nazionale e il contratto con il suo club di sempre, il Colonia. La sua prestazione diventa decisiva in quel quarto di finale dell’Azteca contro il Messico, nel momento più difficile per i tedeschi: respinge un tiro di Negrete scoccato dall’area; blocca un colpo di testa di Aguirre e un tiro al volo dello stesso, solo in mezzo all’area di rigore; salva la porta in altre occasioni, e quando non ci riesce ci pensa Brehme, di testa sulla linea, a evitare il vantaggio avversario.

Stringendo i denti, i tedeschi difendono lo zero a zero e raggiungono i supplementari, durante i quali la parità numerica è ristabilita in seguito all’espulsione di Aguirre, reo di aver bloccato in modo rude una ripartenza tedesca. L’extra time è comunque avaro di emozioni e la partita deve essere decisa ai calci di rigore – è il destino di tre quarti di finale su quattro, i tiri dal dischetto stanno iniziando ad assumere un valore insolito ma molto rilevante nella storia della Coppa del Mondo. I tedeschi dagli undici metri sono implacabili: quattro su quattro. I messicani sbagliano il secondo con Quirarte e il terzo con Servin, tirati maluccio (soprattutto quello di Servin – la tensione per la posta in palio, davanti al proprio pubblico, ha giocato brutti scherzi) e respinti da Schumacher. Il portiere tedesco, protagonista di un incontro superbo, ha portato la Germania in semifinale.

È quindi un percorso accidentato quello che conduce la Germania all’ultimo atto del torneo, condito da una certa dose di casualità – ma comunque non preponderante, la squadra ha valore e non si arriva a giocare per il titolo Mondiale solo grazie al caso. La Germania è in crescita così come l’Argentina, e sembra aver fatto il salto di qualità proprio nella semifinale vinta – questa volta in modo convincente – due a zero contro i francesi. Nel 1986 la nazionale tedesco-occidentale è un ibrido, una via di mezzo tra la generazione della rinascita di inizio anni Ottanta e quella del Mondiale italiano. Dopo la finale, infatti, giocatori del calibro di Schumacher, Rumenigge, Karlheinz Forster, Magath e Briegel chiuderanno la loro carriera con la mannschaft. Nonostante ciò la squadra arriva in finale, e questo la dice lunga sulla forza che il movimento calcistico tedesco sta raggiungendo.

Dopo la prematura eliminazione negli Europei del 1984, Derwall ha lasciato la guida tecnica della nazionale a Beckenbauer, il quale aveva chiuso con il calcio giocato solo un anno prima. Non è una successione all’interno dei ranghi federali, ma poco ci manca – il Kaiser è in poche parole il monumento del calcio tedesco-occidentale. Franz Beckenbauer esordisce sulla panchina della nazionale nell’amichevole di Dusseldorf con l’Argentina del 1984 (il giro di partite europee in cui Bilardo prova per la prima volta il 3-5-2), e subisce una sconfitta. Poi inizia a ricostruire la nazionale, fra alti e bassi che si porterà dietro sino alla fase finale della Coppa.

Le qualificazioni mondiali iniziano bene con cinque affermazioni di fila (fra le quali una vittoria due a uno a Lisbona e un’altra cinque a uno a Praga). Poi la Germania Ovest attraversa una seconda parte del 1985 nera: due sconfitte contro Inghilterra e Messico nel corso di un torneo in terra messicana, e ancora un’altra sconfitta per mano dell’Unione Sovietica. Il biglietto per il Mondiale è staccato tramite due pareggi con Svezia e Cecoslovacchia, inframmezzati dalla sconfitta casalinga a opera della nazionale portoghese. Forniscono però segnali nettamente positivi le sfide amichevoli che i tedeschi affrontano nei mesi prima del Mondiale: prestigiose vittorie su Italia (fuori casa) e Brasile, vittorie altresì su Olanda e Svizzera, pari con la Jugoslavia.

Il Kaiser in Messico può contare su di un reparto arretrato solido ed esperto – incluso il portiere – schierato a volte a quattro, a volte invece a tre, come avviene soprattutto negli ultimi incontri. Jacobs è il libero (nelle prime due partite il posto è occupato da Augenthaler), mentre al suo fianco operano Karlheinz Forster e Briegel (o Brehme). In regia gioca Magath e la squadra si giova in mediana del dinamismo di Matthaus; completano il reparto a cinque Eder, o Rolff, oppure Hoeness, con la spinta sulle fasce di Berthold e Brehme (o Briegel). È un 3-5-2 tendente al 5-3-2 – la differenza fra i due schemi è piuttosto labile – in quanto gli esterni di centrocampo sono di solito dei difensori. Spesso un uomo a centrocampo è sacrificato alla marcatura di un avversario: è accaduto con Eder su Francescoli e Rolff su Platini nelle sfide contro Uruguay e Francia, accadrà anche in finale. In attacco il punto fisso è Rumenigge, il quale però non disputa un gran Mondiale; al suo fianco si alternano Allofs e Voller, più attivi del compagno di reparto, protagonisti all’inizio della competizione (il primo) e verso la fine (il secondo).

La nazionale tedesca prima della finale – elprana.com

Il giorno della finale mondiale 114.600 spettatori riempiono gli spalti della Stadio Azteca di Città del Messico, l’impianto colossale, splendido, completato nel 1966 (Club America e Torino giocarono la partita inaugurale) e dedicato alla civiltà spazzata via dai conquistadores. Un altro omaggio agli antenati dei messicani è costituito dall’ombra del sole stilizzata che compare a centrocampo grazie a una struttura a spirale, sospesa sul terreno di gioco. L’Azteca è il primo stadio al mondo a ospitare due finali della Coppa e le sue mura hanno ospitato imprese calcistiche davvero memorabili: la parata del secolo di Gordon Banks sul colpo di testa di Pelé in Brasile – Inghilterra del ’70; el partido del siglo, ovvero Italia – Germania Ovest quattro a tre; la finale che ha assegnato definitivamente la Coppa Rimet ai brasiliani, con il gol su azione collettiva forse più bello di sempre, quello di Carlos Alberto; e tutto ciò che è accaduto in Argentina – Inghilterra giocata qualche giorno prima della finale. Uno stadio senza eguali al mondo. Il record di presenze dell’Azteca però non appartiene al calcio, bensì all’incontro di pugilato Chavez – Haugen del 1993, con centotrentadue mila persone attorno al ring.

Alle dodici del 29 giugno 1986 scendono in campo le finaliste, con i seguenti schieramenti. Argentina (in biancoceleste): Pumpido; Cuciuffo, Brown, Ruggeri; Giusti, Burruchaga, Batista, Enrique, Olarticoechea; Maradona (capitano), Valdano. Germania Ovest (in verde): Schumacher; Forster, Jakobs, Brehme; Berthold, Eder, Magath, Matthaus, Briegel; Rumenigge (capitano), Allofs.

Il ct tedesco Beckenbauer segue il match a bordo campo con una camicia a maniche corte rosa o salmone – va bene che fa caldo, ma non è il massimo dello stile; Bilardo è in completo grigio, ordinario ma elegante. La scelta del vestiario forse non è l’unico errore del Kaiser quel giorno. Matthaus viene schierato in marcatura a uomo su Maradona, così come allo stesso Beckenabauer era stato assegnato il compito di tallonare Bobby Charlton nella finale del 1966. Il risultato sarà analogo: Maradona è limitato ma lo è anche Matthaus, che è costretto ad arretrare molto, quasi come fossero quattro difensori centrali, ed è tagliato fuori dal gioco a metà campo.

All’inizio dell’incontro domina l’equilibrio, con alcune imprecisioni nei controlli e nei passaggi da parte di entrambe le formazioni. La Germania Ovest si rende maggiormente pericolosa quando agisce sulle fasce, dove operano Berthold e Briegel, mentre Brehme è stato dirottato nella difesa a tre. Nell’Argentina Burruchaga pare in ottima condizione: un suo cross richiede l’uscita, non semplice, e la respinta di pugno di Schumacher per anticipare un avversario, libero in area. Al sedicesimo Briegel guadagna una punizione da limite. Il tiro è senza esito, ma l’arbitro ordina la ribattuta perché la barriera si è avvicinata troppo; Maradona si lamenta – forse già innervosito dalla marcatura asfissiante ed efficace di Matthaus – e viene ammonito dall’arbitro brasiliano Arppi Filho. Anche la ripetizione del calcio piazzato non dà frutti. Quattro minuti dopo però Matthaus deve commettere un fallaccio per bloccare il Pibe de oro, e ripetersi un attimo dopo su Cuciuffo, rimediando così anch’egli il cartellino giallo. Punizione dalla destra per l’Argentina: Schumacher, sin lì impeccabile nel torneo, esce a vuoto e Brown mette in rete di testa. Uno a zero per i sudamericani, partita sbloccata.

Maradona ha poi un’occasione su calcio da fermo, da buona posizione, ma il tiro è bloccato a terra da Schumacher. Intorno alla mezzora c’è l’unico vero pericolo creato dai tedeschi alla porta avversaria: sponda di testa di Allofs e palla sotto porta per Rumenigge, che arriva un po’ in ritardo sulla sfera e la tocca alta. Si assiste ancora ad una bella azione centrale con ripetuti scambi tra Maradona e Burruchaga, con il dieci argentino pronto a entrare in area e Schumacher in tempestiva uscita a evitare un probabile gol. La prima frazione si chiude allora con un giusto vantaggio argentino.

Secondo tempo. Allofs, abbastanza assente, resta negli spogliatoi per lasciare spazio a Rudi Voller. Dopo quattro minuti è ancora l’Argentina a rendersi pericolosa in contropiede sull’asse Maradona – Burruchaga, il quale salta un uomo, entra in area ma subisce il recupero provvidenziale degli avversari. La Germania Occidentale inizia ora a spingere con veemenza alla ricerca del pari; giocoforza si scopre, ma nel contempo non riesce a produrre autentici pericoli nei confronti della porta avversaria. All’undicesimo minuto Pumpido raccoglie la sfera al termine di un azione tedesca e la lascia a Valdano ancora nella propria area. I tedeschi tentano il pressing alto, facilmente eluso dagli argentini che avanzano in pochi passaggi: Maradona, Enrique, ancora Vadano ormai nella trequarti avversaria, spostato sulla sinistra e prossimo all’ingresso in area. Schumacher tenta l’uscita ma la punta argentina, non contrastata, è abile a infilare un’agevole rasoterra in rete, portando così la seleccion a un esaltante due a zero.

Sinora l’Argentina è stata pressoché perfetta. Ha concesso quasi nulla in difesa, ha capitalizzato bene le occasioni e nei minuti che seguono il raddoppio sembra ormai padrona del campo. I tedeschi dell’ovest sono a un passo non solo dalla sconfitta, ma anche dal passare alla storia come la più scarsa delle finaliste di Coppa del Mondo. L’attacco ha le polveri bagnate, mentre a centrocampo Eder e Magath sono sovrastati numericamente dagli avversari. Beckenbauer, posto con le spalle al muro, intuisce che deve tentare una via di uscita: sostituisce Magath con Hoeness (Dieter, fratello del più noto Uli), ma soprattutto libera Matthaus dai compiti di marcatura su Maradona. E la mannschaft inizia d’incanto a giocare a calcio. I tedeschi corrono, pressano alto e recuperano palloni, prendono il controllo del centrocampo e bloccano le ripartenze degli argentini, i quali sembrano piuttosto paghi di quanto fatto finora e forse sono convinti di avere la Coppa già tra le mani. La seleccion ha ancora un’occasione importante con Burruchaga, anticipato da Eder poco prima di correggere a rete, ma il vento è cambiato. Ricorderà Valdano: “Sul due a zero guardavo le tribune e pensavo ‘siamo campioni del Mondo!’. Avevo però scordato un piccolo dettaglio, che stavamo giocando contro la Germania, e loro non mollano mai1)Euan McTear, Jorge Valdano: the career of football’s grand philosopher, These Football Times.

Minuto ventinove, corner per la Germania da sinistra: batte Brehme, prolunga di testa Voller, e Rumenigge (sin lì davvero poco incisivo, ma in quel frangente lasciato troppo solo) corregge in rete con un tap-in sotto porta che riapre la partita. Minuto trentasei, e prende forma l’impensabile: sempre corner e sempre Brehme da sinistra, sponda di Berthold, colpo di testa a un metro dalla linea di porta di Voller, anch’egli dimenticato dalla difesa biancoceleste, gol. Inaspettato e clamoroso due a due al culmine di un autentico harakiri argentino sui calci d’angolo – ma il pareggio è altresì la conseguenza della spinta impressa dai tedeschi.

A questo punto mancano nove minuti al termine dei regolamentari e la nazionale tedesca ha ridato vita a un incontro che pareva sepolto sotto un macigno. Diego Maradona, il giocatore più atteso dell’incontro, sinora è stato braccato, raddoppiato, spesso picchiato, talvolta abilmente fermato tramite l’utilizzo del fuorigioco; non ha inciso come nelle altre partite, ma il suo dovere l’ha fatto, spesso abbassandosi per cercare palloni giocabili, ed è stato comunque una spada di Damocle incombente sulla difesa tedesca. Si dice che abbia vinto da solo le due precedenti sfide dell’Argentina al Mondiale, e sotto una certa ottica può essere anche vero, ma il capitano argentino sa molto bene che il calcio è in ultima analisi nient’altro che un gioco di squadra. Al minuto ottantaquattro Maradona controlla la palla a metà campo; per un attimo attira gli avversari su di sé ma, anziché provare l’azione solitaria, vede lo scatto di Burruchaga verso la porta tedesca e lo lancia in campo aperto. La squadra tedesca è scoperta. Burruchaga corre verso la porta vanamente inseguito da Briegel, Schumacher esce – forse con un attimo di ritardo – ma l’argentino calcia al momento giusto e segna. Tre a due!

Tornando a centrocampo, Valdano abbraccia Burruchaga, lo guarda negli occhi e gli dice “Ora sì che siamo i campioni del Mondo”, sino a muovere l’autore del gol alle lacrime2)Gary Thacker, “And then the tears fell from my eyes” Jorge Burruchaga – Argentina’s unsung World Cup hero, All Blue Daze.Gli argentini sono pazzi per la gioia e i tedeschi, sconvolti dal nuovo e repentino svantaggio, sono ormai incapaci di reagire. Nei pochi istanti che mancano alla fine dell’incontro è infatti l’Argentina a sfiorare il quarto gol con una punizione di Maradona – era stato fermato fallosamente al limite dell’area in seguito a un’azione personale – parata nell’angolo basso da Schumacher.

Ci mettemmo stupidamente ad attaccare, per chiudere il match. Potevamo accontentarci del due a due e andare ai supplementari. Invece siamo riusciti a prendere il terzo gol in contropiede, proprio all’ultimo istante. E così io, che in carriera ho vinto quasi tutto, devo tenermi stretto quel pesantissimo quasi3)Rumenigge Karl-Heinz: la Formula Uno ferma ai box, Storie di Calcio. Sono le parole di Karl-Heinz Rumenigge. Si parlò anche di liti furiose e di botte volate nello spogliatoio tedesco dopo la partita. Dall’altra parte, la comprensibile tensione per l”incontro non ha abbandonato Bilardo neanche a risultato acquisito: “Dopo aver sconfitto la Germania, ero molto arrabbiato e non riuscivo a festeggiare. Qualcuno mi ha chiesto ‘Carlos, che sta succedendo?’ E io ho risposto ‘Ci hanno fatto due gol da calcio da fermo. Con tutte le volte che abbiamo provato e riprovato i loro movimenti, sono riusciti lo stesso a prendere due gol su corner!4)Callum Rice-Coates, Carlos Bilardo, anti-futbol and the pragmatic heart of Argentina, These Football Times.

Burruchaga infila il gol decisivo – allbluedaze.com

L’Argentina conquista la Coppa del Mondo per la seconda volta in otto anni, e prosegue così nel suo ciclo d’oro – anzi, ne tocca il vertice. Con calma e a mente fredda anche Bilardo si sarà accorto di quanto aveva realizzato. L’alternanza Europa – Sudamerica continua in modo ferreo. La Germania Ovest perde la seconda finale mondiale consecutiva, ma di lì in avanti sarà capace di infliggere una serie di dolorosi rovesci agli argentini, e inizierà a farlo già quattro anni dopo. Cinque reti in una finale, un punteggio così ampio nella gara decisiva non accadeva dal Mondiale messicano del 1970 e non si ripeterà per molti anni. La partita è stata sicuramente emozionante nel suo alternarsi di gol sino all’ultimo, ma non bella e con un tasso tecnico non elevato; è probabile che il caldo abbia avuto un ruolo negativo al riguardo. È stata quindi una partita che non è passata alla storia.

Da un lato, Messico ’86 è un Mondiale divertente, appassionante, con almeno tre partite che rimarranno nella memoria calcistica (Belgio – URSS, Francia – Brasile, Argentina – Inghilterra) e tutta una serie di gol di splendida fattura. Dall’altro, l’approccio difensivista delle nazionali in campo è cresciuto ulteriormente sino a diventare il tratto caratteristico del periodo, e questo tendenzialmente rappresenta un freno allo spettacolo. Si è utilizzato molto lo schema 3-5-2 – ed è proprio in quegli anni, cioè dalla metà anni Ottanta, che si sviluppa universalmente l’abitudine di fornire indicazioni numeriche riguardo la disposizione delle squadre in campo (quindi 4-4-2, 3-5-2, eccetera). Altro fattore peculiare del campionato è costituito dall’aumento del numero di partite a eliminazione diretta decise ai calci di rigore. All’epoca era ancora un elemento che faceva storcere il naso, poi con il tempo è stato accettato come parte integrante del gioco.

È un torneo anomalo, Messico ’86, nel quale alcune delle grandi nazionali sembrano solo la maschera di loro stesse. L’ossatura di Francia e Brasile poggia su vestigia del passato, al di là dei singoli nomi e del gioco mostrato in campo: è come se fossero rimaste ferme a quattro anni prima (e lo stesso discorso vale, in modo esponenziale, per la nazionale italiana). La Germania Ovest è a un crocevia tra recente passato e futuro prossimo. Belgio, Inghilterra e Spagna sono state compagini interessanti, ma dai tratti incompiuti. Solo l’Argentina, bella ma non eccezionale, ha trovato un proprio modo d’essere, e l’ha fondato in maniera cospicua sul ruolo del suo principale fuoriclasse.

In ultima analisi la Coppa del Mondo del 1986 è stata una competizione di uomini, anziché di squadre: Maradona in primis, e ancora Socrates e Platini, soprattutto per quello che rappresentavano, poiché probabilmente il loro Mondiale migliore era stato il precedente; ma è giusto ricordare anche Lineker, Butragueno, Careca, Belanov, Elkjaer. Analogo ragionamento è proposto anche dal film ufficiale della competizione, Hero, il cui racconto ripercorre le vicende del Mondiale seguendo le gesta dei principali giocatori. Le vere squadre innovative e basate su di un autentico gioco collettivo, cioè Danimarca e Unione Sovietica, hanno abbandonato il torneo già agli ottavi. Su Maradona, c’è da dire semplicemente che mai la vittoria di una nazionale al Mondiale è stata identificata così tanto nella prestazione di un sol uomo. Qualcosa di simile l’aveva fatto Garrincha ne 1962, e altrettanto proveranno a fare Baggio nel ’94 e Zidane nel 2006, ma in entrambi i casi fermandosi a un passo (rectius, a undici metri) dal titolo; ad ogni modo, il livello toccato da Maradona in Messico rimane ineguagliato nella storia della Coppa.

E infine questi uomini, cioè gli attori del Mondiale ’86 e in generale i protagonisti del calcio anni Ottanta, erano allora sotto lo sguardo di chi come me viveva assieme ai suoi coetanei la propria infanzia e la propria adolescenza. Così quando ci incontravamo la mattina a scuola, o il pomeriggio lungo le strade, era per noi spontaneo provare a rivivere le imprese calcistiche che il giorno prima avevamo visto alla televisione (o allo stadio, per chi era più fortunato). Le raccontavamo, le giocavamo – appassionati, dolci e ingenui -, ma era quella la nostra epica, gli eroi del mondo che iniziava a scoprirsi ai nostri occhi.

23 febbraio 2019

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