Salta al contenuto

Messico, 1986
III. Come fu sconfitto il calcio del Duemila

È esistito nel calcio sovietico un filone decisamente fecondo per tutto ciò che concerne le tattiche di gioco, e in generale l’organizzazione e la gestione di una squadra. È un dato poco conosciuto, ma è stata una tradizione talvolta – ed è il tratto peculiare della vicenda – davvero innovativa, sorprendente e in anticipo sui tempi. Questa vena d’oro del football sovietico si è manifestata in particolare attraverso l’operato di tre tecnici: Arkadiev, Maslov e Lobanovsky. Boris Arkadiev fu l’allenatore della Dinamo Mosca dal ’40 al ’44 e vinse il titolo nazionale nel corso del primo anno (il campionato fu in seguito interrotto a causa degli eventi bellici). Conquistò poi cinque titoli sovietici con il CSKA e guidò la nazionale del suo paese nella sfortunata spedizione alle Olimpiadi di Helsinki nel 1952. Arkadiev predicava e applicava un modulo chiamato disordine organizzato, il cui fondamento erano i continui scambi di posizione dei giocatori, soprattutto in attacco; pare inoltre sia stato il primo a utilizzare una difesa a quattro1)Andrea Tavano, Boris Arkadiev, Rivista Contrasti.

Victor Maslov, il secondo grande innovatore del calcio sovietico, è stato addirittura definito come il padre del calcio moderno2)Jonathan Wilson, La piramide rovesciata, Edizioni Libreria dello Sport, 2012. Maslov sedette con ottimi risultati sulla panchina della Torpedo Mosca (titolo sovietico nel 1960, il primo al di fuori della cerchia Spartak, Dinamo e CSKA) e su quella della Diamo Kiev, dove vinse il campionato dell’URSS per tre anni di fila, dal ’66 al ’68. È stato veramente uno degli allenatori più importanti di sempre: ha sperimentato per primo l’applicazione del 4-4-2, prendendo a prestito la marcatura a zona in uso tra i brasiliani nella seconda metà dei Cinquanta; ha sviluppato il pressing e, fuori dal terreno di gioco, il controllo e la cura dell’alimentazione per i giocatori. Ha inventato e messo in pratica qualcosa di simile al calcio totale, che stava nascendo proprio negli stessi anni diversi chilometri più a ovest, e nell’ignoranza reciproca di quanto l’altro stava realizzando (i sistemi di comunicazione non erano quelli odierni).

Pochi giorni prima della partenza per il Messico, la federazione calcistica sovietica richiama sulla panchina della nazionale un tecnico che ha già guidato nel recente passato l’URSS. Questo allenatore si chiama Valery Lobanovsky ed è il terzo uomo, l’erede, l’approdo definitivo di quella tradizione innovativa da sempre presente nelle tattiche del calcio sovietico, e che pertanto a Messico ’86 viene posta per la prima volta sotto gli occhi diretti del mondo. Il Mondiale si trasforma così improvvisamente nel più importante banco di prova della sua rivoluzionaria visione del gioco.

Valery Lobanovsky nasce e cresce a Kiev, capitale ucraina, figlio di un operaio e di una casalinga. Studia, diventa ingegnere, e nel contempo raggiunge il grado di colonnello all’interno dell’Armata Rossa. Gioca anche a calcio con ottimi risultati, in quell’URSS dei primi anni Sessanta segnata dal volo spaziale di Gagarin, dal progresso e da una maggiore libertà dopo i duri anni staliniani, e in quella Kiev dove da qualche anno è attivo un istituto di cibernetica all’avanguardia nel mondo. È l’ala destra della Dinamo Kiev, con la quale conquista uno storico titolo nel 1961, il primo di sempre assegnato in una città diversa da Mosca. Estrazione proletaria, quindi, e uomo a più dimensioni – calcio, scienza, collettività organizzata, potrebbe essere un simbolo dell’uomo nuovo sovietico.

Lascia piuttosto giovane il calcio giocato e inizia subito ad allenare: ha un carattere duro, deciso – Colonnello non è solo il suo grado della gerarchia militare, ma l’epiteto che lo accompagnerà sempre nel mondo del pallone. In panchina è impassibile, una sfinge. Ha trascorso solo un anno con Victor Maslov quale suo allenatore nella Dinamo Kiev, poi i due hanno decisi contrasti e Lobanovsky ha lasciato la squadra. Maslov rimarrà comunque un suo riferimento costante nel lavoro di tecnico.

Lobanovsky edifica il suo curriculum di tecnico su due cicli, il primo dei quali si dipana a metà dei Settanta. Alla guida della Dinamo Kiev conquista la Coppa delle Coppe del 1975, primo titolo europeo per una formazione sovietica. L’anno seguente la Dinamo è ancora protagonista a livello continentale: disputa un epico quarto di finale in Coppa dei Campioni contro il St-Etienne, terminato a favore dei francesi, i quali sono capaci di ribaltare lo 0-2 subito a Kiev con un tre a zero casalingo ai supplementari. Nella stagione successiva sarà il forte Borussia Moenchengladbach a negare alla squadra sovietica l’accesso in finale della massima competizione europea per club. Bisogna però sottolineare come all’epoca le squadre dell’URSS fossero abbastanza svantaggiate nei confronti delle avversarie europee in termini di preparazione, in quanto il campionato dell’URSS era organizzato secondo l’anno solare e si fermava totalmente durante l’inverno, a causa del clima. La Dinamo di quegli anni scende in campo con un 4-3-3: gli esterni difensivi, lanciati spesso in avanti, sono Troshkin e Matvienko; a centrocampo operano Muntyan, Konkov e Kolotov; Onyshchenko e Buryak giocano a ridosso dell’unica vera punta, il grande attaccante Oleg Blokhin. A Lobanovsky viene altresì affidata la guida della nazionale, nella quale porta gli uomini e i metodi utilizzati a Kiev, ma i risultati languono e non dura molto: manca infatti la qualificazione agli Europei del 1976, eliminato ai quarti dalla Cecoslovacchia.

Il secondo grande ciclo di Lobanovsky prende vita negli anni Ottanta, sempre con la Dinamo Kiev e, da metà decennio, con la nazionale dell’URSS, già allenata una seconda volta per un breve periodo dopo il 1982. Il modulo a una punta è stato soppiantato dall’uso di un regista avanzato (Zavarov) dietro due attaccanti, che sono ancora Blokhin e l’ottimo Belanov; alle loro spalle troviamo Rats e Yaremchuk, mentre emergono due notevoli centrali difensivi, Kuznetsov e Baltacha. La finale di Coppa delle Coppe, edizione 1985/86, sbalordisce gli appassionati. Allo Stade Gerland di Lione, nel pieno della crisi nucleare di Cernobyl, la Dinamo Kiev travolge l’Atletico Madrid imponendosi per tre a zero. Straordinario il secondo gol, che ricorda da vicino la realizzazione di Carlos Alberto nella finale mondiale 1970: azione che parte da sinistra, tre passaggi veloci in orizzontale al compagno in arrivo sino a che la palla giunge sulla destra al giocatore smarcato, nella fattispecie Blokhin, e rete. Lobanovsky è il ct dell’Unione Sovietica nel corso di due Mondiali (’86 e ’90) e di un Europeo, edizione 1988, nel quale la sua nazionale è finalista. Con la Dinamo Kiev conquista nel complesso cinque titoli sovietici e, dopo la dissoluzione dell’URSS, cinque titoli ucraini. Nel 1999 è ancora semifinalista in Champions League e nel frattempo scopre anche il talento di Andry Shevchenko.

È detto il calcio scientifico quello che mette in campo Lobanovsky, il calcio del Duemila, ovvero, per l’epoca, il massimo sinonimo di futuro. È il frutto di precise concezioni che vanno oltre l’aspetto puramente sportivo. Secondo Lobanovsky il calcio è concepibile come due sottosistemi (formati da undici giocatori), posti in uno spazio e con regole predefinite; fra questi, se uno è più forte dell’altro prevale, ma con una particolarità: il rendimento del sottosistema è maggiore della somma dei rendimenti degli elementi che lo compongono3)Ibidem. Come se fosse una partita a scacchi. O l’organizzazione di un partito marxista. La tattica deve essere studiata, applicata in modo maniacale, adattata ogni volta a particolari e nuove condizioni. “Se l’avversario ha individuato un contro-gioco, allora noi dobbiamo trovare una nuova strategia. È questa la dialettica del gioco4)Blair Newman, Valeriy Lobanovskyi and Dynamo Kyiv’s scientific enlightment, These Football Times.

Il suo gioco ha quale punto nodale il possesso della palla, inteso come corretto posizionamento in fase di possesso (cioè attacco) e di non possesso (difesa), e quindi si basa di riflesso sull’ampliamento e la riduzione degli spazi. La posizione è determinante. Diceva Lobanovsky: “La cosa più importante nel calcio è quello che un giocatore sta facendo sul terreno di gioco quando non è in possesso della palla, non viceversa5)Wilson, cit.. La squadra attacca in sette-otto giocatori, e difende, rigorosamente a zona, con altrettanti uomini. Richiede sovrapposizioni, passaggi rasoterra, e uno stato fisico eccelso. I giocatori devono essere universali; il collettivo prevale sull’individuo, su questo non si discute.

Il mito di un calcio scientifico e tecnologico è costruito anche attraverso i collaboratori di cui Lobanovsky si circonda per anni. C’è un vero e proprio matematico, Zalencov, esperto di computer – è rivoluzionario, e incredibilmente in anticipo sui tempi, questo utilizzo degli elaboratori per preparare le partite. Oshemkov si occupa di statistica; Petrovski è il preparatore atletico, lo stesso del velocista e olimpionico Borzov; Bazlyevich allena i giocatori. Quindi, preparazione atletica e scienza al servizio del gioco – il controllo e la programmazione per vincere. Il tutto è bello e funzionale, grigio e algido, scintillante e alienante, come una macchina. La versione comunista del calcio totale6)Jonathan Wilson, Behind the curtain – Travels in Eastern Europe football, Orion Books, 2006. Ha detto Sandro Modeo sul calcio del Duemila di Lobanovsky: è stata “l’applicazione particolare dei kolchoz agricoli, ovverosia delle comunità agricole, o dell’architettura funzionalistica sovietica, spartiti tra grigiore spartano e slanci futuristici7)Federico Buffa, Carlo Pizzigoni, Storie mondiali, Sperling & Kupfer Editori, 2014.

Valery Lobanovsky - zonacesarini.net
Valery Lobanovsky – zonacesarini.net

Si comprende pertanto come il Mondiale messicano costituisca il passaggio fondamentale in tutta questa vicenda. Lobanovsky torna sulla panchina sovietica sostituendo Malofeev, un altro importante allenatore sovietico che ha vinto il titolo nazionale con la Dinamo Minsk nel 1982. Non giova al lavoro del nuovo tecnico il poco tempo a disposizione per preparare il torneo, soprattutto per portare ad alti livelli un progetto calcistico così complesso. E forse il torneo messicano – il clima caldo combinato all’altura – non è il contesto più adatto per un calcio molto dispendioso dal punto di vista fisico.

Giocoforza, Lobanovsky porta in nazionale il blocco della sua squadra appena laureatasi campione dell’Unione Sovietica: dodici giocatori su ventidue provengono dalla Dinamo Kiev. Il gioco collettivo che l’URSS dovrà mostrare in Messico può comunque trarre beneficio da alcune individualità di sicuro pregio. Igor Belanov chiuderà uno straordinario Mondiale con quattro gol e quattro assist all’attivo, tanto che a fine stagione gli verrà assegnato il Pallone d’Oro. Alexander Zavarov, nel ruolo di regista avanzato, è probabilmente al vertice della sua carriera. Il portiere poi è una garanzia assoluta. Si tratta di Rinat Dasaev, di origine tartara, in forza allo Spartak Mosca e definito l’erede di Lev Jascin. La sua vicenda sportiva e umana è emblematica: nel 1988 passa al Siviglia, ma si adatta poco al calcio e al mondo occidentale, e la sua carriera subisce un rapido declino. Diventa alcolizzato, soffre di depressione e si riduce a vivere in povertà come un vagabondo. Poi, grazie all’aiuto di un amico torna in Russia e si riprende, inserendosi nuovamente nel mondo del calcio. Avrà sempre una sincera nostalgia per il passato sovietico: “si giocava per la gloria dell’URSS e per amore del calcio, non per i soldi8)Rosalba Castelletti, Sessant’anni di Dasaev: “Paravo per amore e per la gloria dell’Urss”, la Repubblica.

L’URSS controlla in scioltezza un girone eliminatorio che, a conti fatti, si dimostra più agevole del previsto. Schianta innanzitutto l’Ungheria per sei a zero, in una partita nella quale otto giocatori sovietici su undici provengono dalla Dinamo Kiev. Bellissimo è il secondo gol, siglato da Aleinikov (uno degli esterni, della Dinamo Minsk) su tiro da fuori al culmine di un’azione corale.

La seconda sfida del girone, sul campo di Leon, vede l’URSS contrapposta alla Francia. È una gran bella partita: l’URSS va in vantaggio nella ripresa grazie a una sassata che Rats da fuori area infila nell’angolino; pareggia Fernandez poco dopo, ma sul terreno di gioco è davvero spettacolo. Entrambe le squadre hanno ancora svariate occasioni per portarsi in vantaggio e i portieri si esaltano; termina uno a uno. Infine, lasciando spazio a diverse riserve per far rifiatare i titolari, il Canada è sconfitto due a zero.

Va alla grande, la formazione sovietica. Raccoglie elogi e instilla timore negli avversari. La squadra punta in modo esplicito al titolo mondiale calcistico, storicamente un buco nero nel prestigioso palmares raccolto dall’URSS in campo sportivo nel corso dei decenni. La possibile vittoria non è mai sembrata così concreta e in quel momento il Belgio, il primo avversario nella fase a eliminazione diretta, non pare costituire un reale ostacolo.

Tanto più che la nazionale belga non sta disputando sinora un gran Mondiale. Dopo la sconfitta contro il Messico, ha superato soltanto la volenterosa ma debole squadra irachena. Contro il Paraguay è finita due a due, frutto di errori variamente assortiti più che di meriti delle due squadre: vantaggio belga su tiro forse non voluto scoccato da Vercauteren; pareggio di Cabanas, pescato solo in area direttamente dal rinvio del portiere; ancora vantaggio belga marcato da Veyt al culmine di una pregevole ripartenza; definitivo pareggio, sempre Cabanas e sempre troppo libero nell’area belga. Il Belgio passa quindi il turno solo come ripescata fra le migliori terze.

Da oltre un decennio la nazionale belga è una squadra di valore, stabilmente ai piani medio-alti al livello continentale e internazionale. Ha disputato un discreto Mondiale nel 1982, ma nel quadriennio che precede il torneo messicano non pare navigare in ottime acque. C’è stato un brutto episodio di corruzione verificatosi alla fine della stagione 1981/82: lo Standard Liegi ha versato una somma di denaro neanche ingente – circa diecimila euro attuali – al Waterschei per comprarsi la partita e vincere così il campionato belga. Lo Standard Liegi è una buona formazione, pochi giorni dopo uscirà sconfitta nella finale di Coppa delle Coppe per mano del Barcellona (che gioca in casa al Camp Nou). Ad ogni modo lo scandalo viene fuori nel 1984: il titolo resta allo Standard, ma vengono comminate pesanti squalifiche ai giocatori che hanno fatto da tramite nell’illecito, fra i quali figura una delle colonne della nazionale, Gerets.

Il Belgio raggiunge la fase finale degli Europei ’84, ma si ferma subito, ricevendo anche un pesante ko dalla Francia (cinque a zero). Nelle tre amichevoli che gioca prima del campionato del Mondo, prende tre gol sia dalla Spagna in trasferta, sia dalla Jugoslavia in casa, e batte solo la Bulgaria. Però attenzione: la nazionale belga atterra in Messico dopo uno spareggio, partita di andata e di ritorno, che l’ha vista opposta all’Olanda, e quell’Olanda è già la formazione che di lì a due anni darà spettacolo agli Europei – Rijkaard, Gullit e Van Basten, tanto per capirci. È un elemento che non andrebbe sottovalutato.

Le due partite sono tese e memorabili. All’andata l’olandese Kieft viene espulso dopo pochi minuti a causa di una simulazione di Vercauteren, il quale marcherà anche il gol dell’uno a zero finale. Gli olandesi non la mandano giù e al ritorno, il 20 novembre 1985 al de Kuip di Rotterdam, Vercauteren deve essere scortato dalla polizia. È una serata gelida ma l’ambiente è caldissimo e i tifosi fischiano sonoramente l’inno belga. Nel secondo tempo gli orange infilano due gol e lo stadio è in delirio, la qualificazione pare cosa fatta. Ma a cinque dal termine Grun di testa segna, spegnendo così ogni ardore e consegnando al Belgio il passaporto per il Mondiale. I belgi festeggiano come se avessero vinto la coppa, gli olandesi sono affranti. Passa alla storia l’immagine televisiva del tecnico olandese Beenhakker, la faccia nascosta nel bavero del cappotto, mentre si allontana da solo in un grigio e claustrofobico corridoio che porta agli spogliatoi.

Quella belga è una squadra corta e compatta, raccolta e guardinga, e capace di un uso intelligente del fuorigioco. Non è semplice illustrarne l’impostazione in campo: la si può descrivere o come un 3-5-2 difensivo, o direttamente con la difesa a cinque (lo schieramento belga è stato anche descritto come il primo esempio a livello internazionale di 5-3-2 a tutti gli effetti9)Carlo F. Chiesa, Le tattiche – La zona, Calcio 2000 n. 25), oppure ancora ai sensi del 4-4-2, secondo le indicazioni riportate dalla relazione tecnica della FIFA10)The 24 Teams – An Analysis, Belgium, Fifa World Cup – Mexico ’86, Official Report. Allena Thys, vero nume tutelare del calcio belga, ct della nazionale dal 1976 al 1989 e poi ancora nei primi Novanta; le traballanti prestazioni iniziali della sua squadra nel torneo lo inducono a lasciare spazio forze giovani (Grun, Demol, Vervoort, Claesen), con importanti risultati. Il Belgio vanta inoltre tra le sue file degli indubbi talenti come Eric Gerets, un ottimo difensore, campione d’Europa per club nel 1988 con il PSV Eindhoven, e Jan Ceulemans, centrocampista del Brugge, il quale gioca un gran Mondiale.

C’è poi Vincenzo Scifo nel ruolo di regista, il figlio di minatore italiano, molto giovane – vent’anni. Sarà una grande promessa mancata del calcio mondiale. Lì in Messico si esprime probabilmente ai suoi massimi livelli, tanto che viene giudicato il miglior giovane del torneo. Conquista tre titoli di fila con l’Anderlecht, poi nel ’87 la grande occasione, il campionato italiano – l’Inter; ma fallisce, e dirà: “In Italia ho capito che il calcio non è un gioco, ma una giungla11)Rieu Ferat, Ronan Boscher, Tempo Scifo, So Foot n. 108.  Gira la Francia, gioca ancora in Italia al Torino, sino a che ritorna definitivamente in Belgio. Lo prendevano un po’ in giro, ai suoi tempi, perché da buon figlio di immigrati italiani sembrava tenere molto all’acconciatura dei suoi capelli neri.

In porta il Belgio schiera Jean-Marie Pfaff: portiere clown (viene da una famiglia di circensi), incapace di prendersi sul serio, stravagante, ma di grandi doti, particolarmente talentuoso nelle uscite. Si ricorda un amichevole del Belgio con l’Olanda, ancora a Rotterdam, nel corso della quale i tifosi dagli spalti gli lanciano una mela come gesto di scherno; lui la raccoglie, la strofina sulla casacca, e inizia mangiarla. Gioca nel Bayern Monaco, dove vince il titolo tedesco in tre occasioni. È comunque un fantastico portiere.

86-belgio[1]L’ottavo di finale che si gioca all’Estadio Nou Camp di Leon il 15 giugno 1986, alle ore 16, è stato descritto come uno degli incontri più belli dell’intera storia dei Mondiali (vedi Wilson, Buffa, e anche svariati siti web). Belgi e sovietici danno vita a una sfida affascinante, controversa, emozionante, ma per taluni aspetti incomprensibile e perfino straniante, nel suo sviluppo anomalo e illogico. Attrae – ma lascia esterrefatti.

URSS in campo con: Dasaev; Bal, Bessonov, Kuznetsov, Demianenko (capitano); Yaremchuk, Aleinikov, Yakovenko, Rats; Zavarov, Belanov. Risponde il Belgio: Pfaff; Gerets, Grun, Renquin, Vervoort; Scifo, Ceulemans (capitano), Demol, Vercauteren; Veyt, Claesen. È la quinta volta che le due formazioni si incrociano sui campi di calcio e l’URSS, sinora, ha sempre vinto.

Partiti e i sovietici spingono in avanti con Zavarov, Yakovenko e Aleinikov, imponendo, in fase di non possesso, un pressing efficace. Il Belgio pare intimorito e fatica enormemente a imbastire azioni d’attacco, salvo una, cross di Scifo e conclusione di testa di Vercauteren, fuori. L’URSS sfiora il gol con Belanov, che ha una grande occasione sui piedi ma manca il bersaglio, e con Yakovenko da fuori area, e qui Pfaff risponde alla grande. L’arbitro, lo svedese Frediksson, fischia molto e spezzetta il gioco.

Il vantaggio sovietico nasce da una bellissima azione centrale conclusa da un gran tiro di Belanov, da fuori, imparabile. In svantaggio, il Belgio prova ad alzare un po’ il baricentro, ma senza troppa convinzione; sfiora però per tre volte la rete con tiri da fuori di Ceulemans, Gerets e Scifo. È ancora vivo. Il primo tempo si chiude sull’uno a zero per i sovietici, che hanno dominato gli avversari per larghi tratti.

Nel secondo tempo il copione non cambia, i sovietici sono quasi sempre in anticipo sul pallone e controllano il gioco, mentre il Belgio attende eventuali spazi per il contropiede. Dopo otto minuti dall’avvio Yakovenko coglie, di testa, un palo clamoroso, poi Zavarov tenta la ribattuta a rete ma la palla viene salvata sulla linea dai belgi. È la svolta dell’incontro, perché un secondo gol al passivo avrebbe con ogni probabilità portato il Belgio al crollo. Pochi minuti più avanti Vercauteren crossa in area verso Scifo, il quale, lasciato colpevolmente solo, è comodo a infilare Dasaev per l’uno a uno. Rimangono dubbi su di una possibile posizione di fuorigioco del belga, non segnalata.

È il settantesimo quando il Belgio perde malamente la sfera a centrocampo: scatta immediato il contrattacco sovietico, Zavarov serve Belanov, tiro, gol. Due a uno per l’URSS. Poco dopo c’è un’altra pericolosa azione d’attacco corale dei sovietici, conclusa da Rats con un tiro fuori – avrebbe potuto passare in mezzo, probabilmente con maggior profitto. Sembra comunque fatta per l’URSS che ha prontamente ripreso in mano l’incontro. E invece: trascorsi appena sei minuti dal nuovo vantaggio avversario, un lancio da metà campo raggiunge Ceulemans, in area di rigore, completamente libero. Pallone in rete e nuovo pareggio – due a due. In questa azione l’eventualità che il belga fosse in fuorigioco, e di parecchio, è più che un sospetto, anche se le immagini della regia internazionale non sono chiare al riguardo. In caso contrario, l’errore della difesa sovietica sarebbe da codice penale.

Il nuovo pareggio è davvero un colpo per i sovietici, aggravato dal dubbio di essere stati defraudati in occasione di entrambe le reti del Belgio. Provano ancora ad attaccare in massa come prima, ma necessariamente le energie iniziano a calare e si aprono pericolosi spazi per i contrattacchi belgi. Comunque l’URSS ha una grande occasione per chiudere l’incontro a poco dal termine: Yaremchuk, appena in area di rigore, scaglia un gran tiro che si infrange sulla traversa. L’ultima occasione dei regolamentari è del Belgio, con Scifo che impegna Dasaev di testa, a un metro di distanza.

Allora si va ai supplementari. Nel primo tempo l’URSS prosegue nel suo gioco basato su possesso palla e iniziativa, ma con meno veemenza e convinzione. L’inerzia dell’incontro sta cambiando, lo intuisce il Belgio che inizia a essere davvero pericoloso come mai prima. Vercauteren semina il panico sulla sinistra ed è anticipato a due passi dalla porta. Demol lancia splendidamente Claesen in area, ma la conclusione termina fuori. L’URSS comunque non demorde – due importanti interventi in anticipo di Pfaff salvano la porta belga – ma lascia buchi alle proprie spalle. Su azione di contropiede, il Belgio conquista un corner; batte l’angolo, nasce l’opportunità di un cross e la sfera giunge a Demol, sulla destra, solo soletto. È il gol del tre a due per il Belgio.

Inizia la seconda frazione supplementare e Veyt manca di manca di testa la rete, solo davanti a Dasaev. L’URSS pare a pezzi – la sua difesa dissolta. Pochi istanti e Claesen in area di rigore, abbastanza indisturbato, realizza l’incredibile quarto gol. Non basta. Passano neanche due minuti, c’è un traversone da destra di Bal che raggiunge un compagno in area, sbilanciato da un difensore belga. Calcio di rigore, realizza Belanov che accorcia le distanze e mette a segno una prestigiosa tripletta. Il tiro è centrale e l’estremo difensore belga ha sfiorato la respinta. Belgio – URSS è anche una sfida fra portieri, Pfaff e Dasaev, probabilmente i più forti del mondo in quel momento.

I disperati attacchi sovietici per giungere al pareggio producono poco, il Belgio è molto concentrato in difesa e non solo, sfiora in più occasioni il quinto gol con efficaci contrattacchi. Ma l’ultima azione di una sfida strabiliante va anche oltre l’immaginazione. A tempo ormai scaduto, attacca l’URSS: la palla giunge a Yevtuschenko (subentrato a partita in corso) sulla destra; tutti si aspettano il cross verso il centro, ma a sorpresa il giocatore sovietico scocca di prima intenzione un pallonetto in direzione della porta. Pfaff è già pronto per l’uscita, al fine di tentare una deviazione sul cross; riesce a fare due passi indietro, compie un prodigioso colpo di reni e toglie la palla letteralmente da sotto la traversa. Non c’è più tempo per battere l’angolo. Finisce quattro a tre a favore del Belgio.

All’apparenza imbattibile, l’Unione Sovietica di Lobanovsky e del calcio del Duemila lascia quindi il Mondiale già agli ottavi. È difficile capire come sia accaduto e non azzardo una spiegazione. Dirà Belanov: “Sono discorsi inutili come i miei gol, ma se rigiochiamo dieci volte, vinciamo sempre noi12)Gianni Mura, È già finita la primavera di Kiev, la Repubblica. Probabilmente ha ragione, ma non accadrà mai più di rigiocare una partita così. Secondo Zavarov la squadra era sicura, magari troppo aggiungo io, e già pensava alla prossima avversaria. Lo stesso sentimento pervadeva i tifosi sovietici: a causa del fuso orario, la partita si giocò all’alba in Unione Sovietica (almeno nella parte europea) e fu trasmessa dalla televisione anche in differita nel pomeriggio. La gente, pur conoscendo il risultato, guardò comunque in massa l’incontro poiché non poteva credere alla notizia della sconfitta se non attraverso i propri occhi13)Alexey Pavlyuchenko, La selection sovietique n’etait pas bien vue, intervista a Rinat Dasaev e Alexandr Zavarov, inSo Foot 80’S, Editions Solar, 2013.

Lobanovsky venne criticato, sia per l’utilizzo di Bal sulla fascia, sia più in generale per la stanchezza dei giocatori, e avrebbe poi subito accuse analoghe dopo la finale europea persa nel 1988. All’epoca del Mondiale messicano, si difese così: “Come allenatore non puoi considerare gli errori individuali, e sinceramente non puoi mettere in conto le sviste arbitrali14)Wilson, La piramide cit.. A quanto pare il calcio scientifico sovietico è stato sconfitto dall’imperfezione umana. Il problema del controllo e della sua impossibilità.

23 febbraio 2019

immagine in evidenza: La nazionale sovietica a Messico ’86 – mondiali.it

References   [ + ]

1. Andrea Tavano, Boris Arkadiev, Rivista Contrasti
2. Jonathan Wilson, La piramide rovesciata, Edizioni Libreria dello Sport, 2012
3. Ibidem
4. Blair Newman, Valeriy Lobanovskyi and Dynamo Kyiv’s scientific enlightment, These Football Times
5. Wilson, cit.
6. Jonathan Wilson, Behind the curtain – Travels in Eastern Europe football, Orion Books, 2006
7. Federico Buffa, Carlo Pizzigoni, Storie mondiali, Sperling & Kupfer Editori, 2014
8. Rosalba Castelletti, Sessant’anni di Dasaev: “Paravo per amore e per la gloria dell’Urss”, la Repubblica
9. Carlo F. Chiesa, Le tattiche – La zona, Calcio 2000 n. 25
10. The 24 Teams – An Analysis, Belgium, Fifa World Cup – Mexico ’86, Official Report
11. Rieu Ferat, Ronan Boscher, Tempo Scifo, So Foot n. 108
12. Gianni Mura, È già finita la primavera di Kiev, la Repubblica
13. Alexey Pavlyuchenko, La selection sovietique n’etait pas bien vue, intervista a Rinat Dasaev e Alexandr Zavarov, inSo Foot 80’S, Editions Solar, 2013
14. Wilson, La piramide cit.