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Messico, 1986
II. Danimarca, bella e spensierata

Il cinque giugno del 1985 è una bella giornata di sole a Copenaghen. Nella capitale danese si gioca una partita che vede impegnata la nazionale di casa contro la squadra sovietica, ed è valida per le qualificazioni al Mondiale dell’anno seguente. In otto precedenti fra le due formazioni l’URSS ha sempre vinto, ha infilato trenta gol nella porta avversaria, incassandone solo cinque. Però il vento sta cambiando perché la Danimarca in quegli anni è diventata una squadra di autentico valore. Lo stadio è stracolmo, festante, tutto bianco e rosso e bello da vedere. È evidente che il tifo locale attende l’impresa, che in effetti avviene. La Danimarca nel primo tempo si porta sul due a zero, l’URSS accorcia con un gol splendido di Protassov, ma i danesi non mollano e chiudono sul quattro a due. Doppiette di Elkjaer e Laudrup per una spumeggiante Danimarca agevolata, c’è da dirlo, anche da una difesa sovietica tutt’altro che incolpevole. È un incrocio decisivo per il calcio danese. Un giornalista sportivo svedese, Carl Senfelt, lo definirà il miglior incontro di calcio mai giocato su suolo scandinavo1)Janus Koster-Rasmussen, Denmark 4 USSR 2, The Blizzard n. 3 – e se avete visto The Kingdom di Lars Von Trier saprete che svedesi e danesi non sono sempre così teneri tra di loro.

Il ritorno si gioca il 25 settembre allo Stadio Lenin di Mosca. È una serata fredda e piovosa, i centomila presenti nell’impianto formano un’immagine scura, uniforme, simile ai colori dei militari. La differenza con il festante stadio danese di qualche mese prima salta all’occhio. Qui comunque a imporsi è la sempre temibile Unione Sovietica, uno a zero.

Entrambe le squadre si qualificano per il Mondiale, ma è la nazionale danese a vincere il girone, in modo autorevole, segnando diciassette reti in otto partite. La formazione scandinava disputerà per la prima volta nella sua storia la fase finale del campionato del Mondo. URSS e Danimarca sono due nazionali che impressionano e piacciono a Messico ’86: probabilmente giocano il miglior calcio della manifestazione. Potrebbero puntare al titolo e inoltre il loro cammino dovrebbe incrociarsi in un quarto di finale, per una grande e avvincente contesa. Ma tutte e due si fermano, sorprendentemente, a tratti inspiegabilmente, agli ottavi di finale. 

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I danesi non sono degli sprovveduti a livello calcistico. A livello continentale, infatti, sono stati i primi a sviluppare il gioco, e non a caso hanno raggiunto la finale del torneo olimpico di calcio nel 1908 e nel 1912, sconfitti entrambe le volte dagli inarrivabili britannici. L’Olimpiade era all’epoca la principale competizione per nazionali calcistiche. Come altri paesi del nord e centro Europa, la Danimarca patisce nella sua storia calcistica una tradizionale avversità al professionismo, introdotto pienamente solo nel 1972, e nonostante la presenza di ottimi interpreti nel passato: ad esempio John Hansen, alla Juventus nei primi Cinquanta, o Harald Nielsen, colonna del Bologna negli anni Sessanta. Questo determina un ritardo nei confronti dei principali movimenti calcistici.

Come detto, però, la squadra che nel 1986 arriva per la prima volta ai Mondiali ha imboccato da anni una strada in netta ascesa. Il momento che simboleggia l’avvio di questo percorso è una partita per le qualificazioni al torneo iridato del 1982, che vede opposti ai danesi l’Italia. I padroni di casa scandinavi si impongono per tre a uno; gli azzurri non vivono un buon momento e in aggiunta sono già abbastanza certi di essere qualificati al Mondiale, a differenza degli avversari. Ma in ogni caso sarà l’unica sconfitta dei futuri campioni del Mondo tra qualificazioni e fase finale della Coppa.

Altro momento importante è il campionato europeo del 1984. La Danimarca raggiunge la fase finale della competizione dopo aver eliminato gli inglesi, sconfitti al Wembley Stadium per uno a zero grazie a un rigore realizzato da Simonsen. Allan Simonsen è un attaccante di ottima qualità, attivo nel periodo a cavallo tra il Settanta e gli Ottanta e noto a livello internazionale per le sue prestazioni con addosso le maglie del Borussia Moenchengladbach e del Barcellona; ha anticipato di qualche anno i suoi connazionali nel calcio che conta. È convocato per il Mondiale messicano, ma staziona quasi sempre in panchina, in quanto ormai all’epilogo del suo percorso. I danesi disputano in Francia un gran torneo: infilano cinque gol alla Jugoslavia e tre al Belgio, qualificandosi così per la semifinale. Qui incrociano la Spagna, giocano meglio degli spagnoli, non realizzano quanto dovrebbero – incontrando anche un portiere avversario in stato di grazia – e non vanno oltre l’uno a uno dopo regolamentari e supplementari. Perdono l’accesso alla finale ai calci di rigore.

È una generazione di talenti, quella che arriva in Messico, e altresì un gran misto di esperienze. Il campionato danese non è così attrattivo, né lo diventerà in futuro, per cui i giocatori sono quasi tutto emigrati: campionato olandese e belga, soprattutto, ma anche italiano, tedesco, inglese. Pare abbiano preso il meglio un po’ ovunque.

In attacco c’è Preben Elkjaer, quattro gol e due assist al Mondiale messicano, un protagonista assoluto. Lo chiamano Cavallo Pazzo per il suo atteggiamento anti-conformista, ma è una caratteristica di molti componenti della nazionale biancorossa. Da giovane è ingaggiato dal Colonia, ma gioca poco. Beve, fuma, si dà alla vita notturna, sin che l’allenatore Weisweiler, guru del calcio tedesco, lo affronta a gli dice: “Ti hanno visto l’altra sera in un night club, con una bottiglia di whisky e una donna al fianco”. Lui risponde: “Non è vero! Era vodka, e le donne erano due…2)Steven Scragg, Preben Elkjaer: the last great maverick of world football, These Football Times. Al suo fianco troviamo Michael Laudrup, il miglior giocatore danese di sempre. È un calciatore davvero versatile: gioca ovunque, a centrocampo, come regista, seconda punta, ala; è veloce, tecnico, di gran classe. Spesso si è rimproverato a Laudrup di essere arrivato a un passo dai massimi livelli calcistici ma di non averli raggiunti, forse per un carattere non all’altezza – era l’opposto di Elkjaer. Platini, che non si lasciava mai sfuggire l’occasione per un’efficace battuta di spirito, lo definì il miglior giocatore al mondo – ma in allenamento. Un po’ immeritata come analisi, poiché Laudrup è protagonista di una grande carriera: milita in una Juventus a fine ciclo (è in bianconero nell’anno dei Mondiali); poi, quando sembra ormai in fase calante, passa al Barcellona di Cruyff; e ancora al Real Madrid. Veste la maglia danese 104 volte, nelle quali realizza trentasette reti. In Messico è un giovincello di ventidue anni. Salta gli Europei del 1992 per divergenze con il tecnico della nazionale, e quindi perde l’occasione unica di laurearsi campione d’Europa – a differenza di quanto accaduto al fratello Brian, meno talentuoso di lui. L’ultimo incontro con la Danimarca è il quarto di finale dei Mondiali ’98 contro il Brasile.

Passiamo alla zona mediana. Frank Arnesen è un ottimo centrocampista esterno offensivo, trentenne nel 1986, con esperienza e una lunga carriera alle spalle. Da giovane, nei Settanta, frequenta la comunità alternativa, indipendente e hippie di Cristiania, a Copenaghen. Occupa stabili, usa stupefacenti, insomma fa l’hippie. Da professionista passa molti anni all’Ajax del dopo Cruyff, poi Valencia, Anderlecht, e PSV Eindhoven, con il quale conquista la Coppa dei Campioni 1987/88. Nei club olandesi (sia Ajax che PSV, nel periodo di mezzo è in forza al Bayern Monaco) e in nazionale il suo degno sodale è Soren Lerby. Regge le chiavi della difesa Morten Olsen. Ha giocato molti anni come centrocampista; poi, dopo un intervento alla tibia, il suo tecnico all’Anderlecht, Ivic, lo sposta nel reparto arretrato. Diventa quindi un libero, uno dei migliori difensori al livello mondiale, e si afferma quando è già oltre i trent’anni, parecchio in termini di età per quell’epoca calcistica.

L’allenatore della Danimarca si chiama Sepp Piontek, è un tedesco giramondo e imposta un bel gioco, offensivo, sulla scia della recente tradizione olandese. C’è divertimento, spensieratezza e forza. Dice Morten Olsen: “Giochiamo nel modo che più ci piace. Laudrup e Elkjaer considerano il campionato italiano come un lavoro. Questo è il loro hobby!3)Terry Crouch, James Corbett, The World Cup: the complete story, deCoubertin Books, 2014. Resta da capire se con gli hobbies si riescano a vincere i Mondiali.

Il girone della prima fase nel quale la Danimarca è sorteggiata è definito come il più difficile del lotto, un autentico girone della morte. Ne fanno parte, oltre ai nostri: la Germania Ovest vice-campione del Mondo; l’Uruguay campione del Sudamerica; la Scozia. La Danimarca lo supera in scioltezza, a punteggio pieno e con un’impressionante dimostrazione di forza. La prima partita, contro la Scozia, risulta quella più difficile: i danesi rischiano un po’ troppo nella prima frazione, ma si impongono nella ripresa uno a zero, rete di Elkjaer.

Sfida contro l’Uruguay. Iniziano decisi i danesi che segnano ancora con Elkjaer, su percussione centrale di Laudrup. Dal ventesimo la Danimarca si ritrova in superiorità numerica per l’espulsione di Bossio, reo di un fallaccio sotto gli occhi dell’arbitro, e tra l’altro già ammonito. Gli uruguagi protestano a lungo – non saranno un esempio di correttezza e simpatia in questo torneo. Da lì in avanti è un puro dominio degli scandinavi, che fanno in campo davvero ciò che vogliono: bel calcio, accelerazioni, fraseggi, e sei a uno sui malcapitati avversari. Da rivedere il tre a uno a firma Laudrup.

Il due a zero sui tedeschi occidentali certifica il valore della Danimarca, della danish dynamite, come verrà ricordata proprio a sottolineare il carattere esplosivo di quella formazione. Unico neo della partita con i tedeschi, l’espulsione della colonna Arnesen a un minuto dalla fine per un inutile e stupido fallo di reazione ai danni di Matthaus. Sono cose che non si fanno. Salterà di conseguenza gli ottavi di finale, dove i danesi troveranno di nuovo la Spagna, nella rivincita di Euro ’84.

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Emilio Butragueno – fifa.com

Gli spagnoli portano in Messico una squadra senza dubbio valida, probabilmente la prima nazionale spagnola realmente competitiva che si presenta ai Mondiali da molto tempo, almeno dal 1962. Il campionato europeo di due anni prima ha rappresentato una rinascita in termini di risultati delle furie rosse. Nel girone a quattro che promuove le semifinaliste, riescono nell’impresa di eliminare la Germania Ovest al termine di una partita drammatica e incredibile. I tedeschi colgono tre legni; Arconada, portiere della Spagna, oppone grandi interventi; dall’altra parte la Spagna fallisce un calcio di rigore. Al novantesimo, colpo di testa di Maceda e gol decisivo. In finale un grossolano errore di Arconada, le cui prestazioni però sono state decisive per raggiungere l’ultimo atto del torneo, apre la strada alla vittoria dei padroni di casa francesi.

In Messico a difendere i pali spagnoli c’è invece Zubizarreta. La difesa è condotta da Camacho e Goicoechea, il cui poco rassicurante soprannome è il Macellaio di Bilbao, conseguenza dei pesanti infortuni procurati in carriera ai danni di Schuster e Maradona. A centrocampo giostrano Gallego e Michel; le punte sono Butragueno e Salinas. Butragueno, detto el Buitre (l’avvoltoio) per le sue doti di rapace d’area, è il giocatore più rappresentativo. In realtà non è sgraziato come un avvoltoio, ha un bel portamento in campo e pare un hidalgo. Gioca nel Real Madrid, il telaio della nazionale spagnola. Sta sorgendo in quegli anni il mito della così detta quinta del Buitre, la corte dell’avvoltoio, un gruppo di giocatori madridisti ben amalgamati e raccolti attorno al capo Butragueno. Si tratta, oltre al Buitre, di Sanchis, Martin Vazquez, Michel e Miguel Pardeza. Quest’ultimo è una sorta di intellettuale prestato al calcio: una volta terminata la carriera, si laurea in filologia e raccoglie una biblioteca personale di quindicimila volumi4)Federico Buffa, Carlo Pizzigoni, Storie mondiali, Sperling & Kupfer Editori, 2014. Ma in Messico, della corte, ci sono solo Butragueno e Michel.

Con l’aiuto dell’argentino Valdano e di Hugo Sanchez, il Real Madrid mette in bacheca cinque campionati spagnoli di fila (’86-’90) e due edizioni della Coppa UEFA; ma in Coppa Campioni resta sempre un gradino sotto le migliori, vedi al riguardo le cinque scoppole rimediate dal Milan nel 1989. Rimane però nella storia l’impressionante serie di recuperi che il Real riesce a realizzare al Santiago Bernabeu nel corso delle due coppe conquistate. Nella stagione 1984/85: 3-1 sotto a Rijeka, 3-0 in casa; poi tre a zero preso dall’Anderlecht, ribaltato con un roboante sei a uno; in semifinale, sconfitti due a zero a San Siro dall’Inter, ma vittoriosi tre a zero in casa. E ancora, l’anno dopo: al primo turno, perde uno a zero contro l’Aek Atene, ma vince cinque a zero al ritorno; impressionante agli ottavi il quattro a zero al Borussia Moenchengladbach dopo aver incassato cinque gol a uno all’andata; in semifinale c’è ancora l’Inter, che si è imposta tre a uno in casa ma soccombe cinque a uno a Madrid, con doppietta di Santillana ai supplementari.

Questa Spagna rivitalizzata deve vedersela con un esordio impegnativo, ovvero il Brasile, il primo giugno ’86 a Guadalajara. Diversi giocatori spagnoli sono anche debilitati dal mal di pancia5)Crouch, Corbett, cit.. Nonostante questo, la Spagna sarebbe andata anche in vantaggio; uso il condizionale perché il tiro di Michel, traversa e poi palla vicino alla linea di porta ma dentro, non viene convalidato dall’arbitro. Anche una realizzazione di Edinho è annullata, questa volta correttamente, poiché ha segnato con la mano – un anticipo di un altro gol di mano che segnerà il torneo. Nella ripresa il Brasile impone il suo gioco e raggiunge la vittoria: Careca scaglia un bolide contro la traversa, la palla rimbalza in campo e Socrates è lesto di testa a mettere in rete.

Con l’Irlanda del Nord le furie rosse partono molto bene e dopo venti minuti sono avanti di due reti. Gli iberici hanno già incontrato i nordirlandesi quattro anni prima nel corso del Mondiale che ospitavano, e hanno pure perso, ma adesso gli avversari sono un po’ più scarsi. Per cui vince la Spagna, due a uno. L’accesso agli ottavi è garantito dalla vittoria per tre a zero sull’Algeria, sfortunata sorpresa nel 1982, che in Messico non è più la squadra di un tempo.

Il 18 giugno, alle quattro del pomeriggio, è in programma a Queretaro l’ottavo di finale Danimarca – Spagna. Piontek deve sostituire Arnesen squalificato, e inoltre lascia in panchina Molby. A loro posto giocano Berggreen e Bertelsen. Ha cambiato qualcosa in tutti gli incontri, il ct danese, e non sempre è sintomo di sicurezza. La Danimarca quindi scende in campo con: Hogh; Nielsen, M.Olsen, Busk; J.Olsen, Berggreen, Bertelsen, Lerby, Andersen; Laudrup, Elkjaer. Il tecnico spagnolo Munoz (in bacheca cinque titoli europei con il Real, tre da giocatore e due da allenatore) risponde con questo undici: Zubizarreta; Goicoechea, Gallego, Camacho; Tomas, Michel, Victor, Caldere, Julio Alberto; Butragueno, Salinas.

Partono a razzo entrambe, ma soprattutto la Danimarca. Gli scandinavi sfiorano il gol in due occasioni, entrambe con Elkjaer: deviazione sotto porta e tiro da fuori. La Spagna coglie però una traversa, anche se il tiro di Julio Alberto pare più un cross sbagliato che un’effettiva conclusione in porta. Al minuto trentatré l’arbitro assegna un calcio di rigore alla Danimarca. Berggreen entra in area e viene falciato – il penalty sembra piuttosto netto ma gli spagnoli protestano un sacco. Olsen (Jesper) va sul dischetto e porta ancora una volta in vantaggio i biancorossi di Danimarca.

Sembra una nuova esibizione di potenza e inventiva dei danesi, che in tre partite e mezza hanno già segnato dieci reti, prendendone solo una. Invece, sul finire del primo tempo, ecco l’episodio che marchia l’incontro, l’inaspettato, la svolta: il calcio sta in piedi su questi passaggi cruciali e sorprendenti. Jesper Olsen avvia l’azione danese sul lato destro dell’area; la Spagna pressa alto, e Olsen, messo in difficoltà, lancia il pallone verso il centro dell’area, convinto che lì si trovi il proprio portiere Hogh. Ma Hogh lì non c’è. C’è invece Emilio Butragueno, che si avventa davvero come un avvoltoio sulla propria preda – in concreto il pallone, ma di fatto lo sventurato centrocampista danese che ha sbagliato il passaggio e in generale l’intera squadra scandinava – e segna l’uno a uno. Per un po’ di anni in Danimarca il nome del giocatore è entrato a far parte del linguaggio comune come sinonimo di grosso errore, “ma che è successo, un Jesper Olsen?”, “guarda un po’ che Jesper Olsen hai combinato!”. Poveraccio.

Nei primi minuti del secondo tempo ci sono ancora due nitide occasioni da rete sui piedi di uno scatenato Elkjaer, in forma strepitosa, ma in un caso il portiere respinge, nell’altro la mira dell’attaccante fa difetto. Intorno al decimo minuto la Spagna batte un calcio d’angolo; sbuca il Buitre e segna il clamoroso due a uno. Per la prima volta dall’inizio del Mondiale i danesi sono sotto nel punteggio.

Piontek a questo punto manda in campo Eriksen, un attaccante, al posto del difensore Andersen. I minuti passano e la Danimarca, pur spingendo, non riesce a pervenire al pareggio. Il panico cresce e la squadra vacilla. Forse c’è qualcosa di non previsto, di non calcolato, nel divertente e divertito gioco danese: ovvero trovarsi sotto a meno di mezzora dalla fine, per di più immeritatamente, e in una partita decisiva per una generazione di giocatori. Come se la dura realtà prendesse il sopravvento sui sogni idilliaci. La difesa danese continua a ballare; sbilanciati, sono costretti a un fallo di rigore sull’irresistibile Butragueno, rigore che Goicoechea mette in rete.

Da lì in avanti la possente Danimarca che fu, crolla e resta in pezzi sul terreno di Queretaro. La Spagna segna altre due reti, tutte e due ancora con Butragueno, la seconda su rigore. Il Buitre realizza nel complesso quattro gol in una partita gigantesca. Era stato profetico, prima dell’incontro: “Sì, i danesi giocano molto bene. Però ti lasciano anche giocare6)Rob Smyth, Lars Eriksen, Mike Gibbons, The end of the affair, The Blizzard n. 14. Pure troppo, verrebbe da dire.

Il cinque a uno finale rappresenta uno dei risultati meno veritieri di sempre nella storia dei Mondiali, poiché per quasi un ora di gioco aveva meritato di più la Danimarca. Però a calcio non prendi cinque gol soltanto per caso, bisogna rimarcarlo. I danesi hanno sofferto l’assenza di Arnesen, la giornata non eccelsa di Laudrup, ma soprattutto una fase difensiva nel complesso disastrosa. La Spagna ha giocato le sue carte con perizia: ha retto finché doveva parare l’urto degli attacchi danesi, opponendo un ottimo Zubizarreta; ha punito senza appello le mancanze dell’avversario; ha goduto di uno strepitoso Butragueno.

Ciò che resta è un bel ricordo dalla dinamite danese a Messico ’86, una delle squadre che è maggiormente rimasta nella memoria degli appassionati, in misura di certo superiore rispetto ad altre formazioni che sono progredite ben oltre nel torneo. Chissà se basta come consolazione, mah; perché la delusione è stata grande e i giocatori la ricordano ancor adesso. Ad ogni modo, il ct dei danesi Sepp Piontek prese la disfatta con filosofia: “Abbiamo mostrato al mondo che si può giocare in maniera divertente… ma anche, in ultima analisi, che non sempre funziona7)Ibidem. È andata proprio così.

23 febbraio 2019

immagine in evidenza: Elkjaer in azione contro la Spagna – thenational.ae

References   [ + ]

1. Janus Koster-Rasmussen, Denmark 4 USSR 2, The Blizzard n. 3
2. Steven Scragg, Preben Elkjaer: the last great maverick of world football, These Football Times
3. Terry Crouch, James Corbett, The World Cup: the complete story, deCoubertin Books, 2014
4. Federico Buffa, Carlo Pizzigoni, Storie mondiali, Sperling & Kupfer Editori, 2014
5. Crouch, Corbett, cit.
6. Rob Smyth, Lars Eriksen, Mike Gibbons, The end of the affair, The Blizzard n. 14
7. Ibidem