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Messico, 1986
I. Que viva futbol

Quando viene fischiato il via alla tredicesima edizione del Mondiale, in Messico si sta giocando a calcio da almeno tremila anni. Fra le civiltà precolombiane stanziate nell’area del Centro America erano infatti molto diffusi e apprezzati i giochi con la palla, in taluni casi accostabili al calcio moderno; sono innumerevoli i campi da gioco rinvenuti dagli scavi archeologici, sparsi un po’ ovunque, dai luoghi più sperduti alle città principali. Pare che proprio sotto la cattedrale di Città del Messico, che sorge nel pieno centro della metropoli (in piazza dello Zocalo, dove sventola l’enorme tricolore della bandiera nazionale), riposi quello che fu un importante campo da gioco degli aztechi. Quella era la loro capitale, Tenochtitlan. I giochi con la palla terminarono con l’arrivo degli europei nel sedicesimo secolo: i conquistadores spagnoli ne imposero la soppressione poiché, dal loro punto di vista, rappresentavano il demonio1)David Goldblatt, The ball is round, Penguin Books, 2007. Ma fu soltanto una pausa. Dopo poco più di tre secoli la palla fece ritorno in Messico per insediarsi nuovamente in pianta stabile, sotto il nome di futbol.

È naturale quindi che il manifesto del Mondiale, firmato dalla grande fotografa americana Annie Leibovitz, sia un omaggio al mondo delle civiltà precolombiane e alla loro passione per il gioco. L’immagine raffigura gli Atlantes de Tula, ovvero delle figure antropomorfe, allungate come colonne, che furono edificate nel corso della civiltà tolteca (una civilizzazione che precedette quella azteca). A terra si vede un pallone. C’è poi l’ombra allungata e stilizzata di un indigeno, inquietante e meravigliosa, che si proietta sul monumento e pare nell’atto di calciare la sfera. È un manifesto strepitoso. Anche il logo della manifestazione, un pallone con a fianco due mondi, è degno di nota, e la scritta ricorda quella utilizzata nelle Olimpiadi del 1968. Un’edizione della Coppa in cui la grafica e l’immagine sanno lasciare il segno.

Nel 1986 il Messico diventa il primo paese al mondo a ospitare in due occasioni il massimo torneo calcistico del pianeta. La prima volta era accaduto solo sedici anni prima, nel 1970. Messico ’86, quindi, ma in realtà doveva essere Colombia ’86: il paese sudamericano aveva ottenuto il diritto di organizzare il torneo e poi vi aveva rinunciato, nel 1982, per questioni economiche. Non era più in grado di osservare le prescrizioni della FIFA in tema di stadi, infrastrutture, sistemi di comunicazione. Inoltre, e più di tutto, vaste zone della Colombia erano da tempo attraversate da una cruenta guerra civile.

Il Messico si offre e viene scelto come sostituto, e porta a termine il compito affidatogli nonostante un terribile terremoto ne devasti parte del territorio pochi mesi prima dell’inizio del torneo. È il settembre del 1985. Oltre diecimila esseri umani periscono a causa del sisma che colpisce anche la sterminata capitale, Città del Messico, all’epoca l’insediamento urbano più popolato di tutta la Terra.

Ci sono sempre ventiquattro squadre al Mondiale, ma si escogita ancora una volta una nuova formula, piuttosto macchinosa. Prima fase lenta, con sei gironi all’italiana da quattro e pertanto trentasei partite necessarie per eliminare appena otto squadre – passano le prime due e le quattro migliori terze. Poi, immediatamente, partite a eliminazione diretta: in caso di parità, supplementari e rigori. La formula appena descritta avrà comunque successo. Verrà utilizzata in modo identico nelle due successive fasi finali della Coppa, mentre nelle ulteriori sei edizioni il percorso sarà molto simile. Il Mundial messicano numero due si disputa in dodici stadi, sparsi in undici città. Buona parte degli impianti sono nella zona centrale del paese, dove si trova anche la capitale: Città del Messico (lo Stadio Olimpico e l’enorme Stadio Azteca), Guadalajara, Puebla, Queretaro, Leon, Nezahualcóyotl, Irapuato, Zapopan, Toluca. Più a nord, si gioca sui campi di Monterrey e di un suo sobborgo, San Nicolas de los Garza.

Per ragioni televisive, cioè la possibilità di far vedere le partite in Europa all’ora di cena, molte gare sono disputate all’ora di pranzo, quindi sotto il cocente sole estivo. È il torneo dell’altura poiché diverse città messicane sono edificate parecchio in alto rispetto agli standard usuali – Città del Messico è appollaiata oltre i duemila metri sul livello del mare. L’aria rarefatta rende la respirazione più difficoltosa a chi non è abituato, quindi molte squadre ci pensano in anticipo e organizzano la preparazione al torneo in condizioni di clima analogo. Inoltre l’aria meno densa, cioè l’attrito ridotto, conferisce ai palloni un certa leggerezza e bisogna prendere l’abitudine di calciarli nel modo adatto, cioè attenuando un poco la forza. Come se non bastassero il sole allo zenit e l’aria di alta montagna, i partecipanti al torneo sono altresì affiancati dal rischio di contrarre la così detta maledizione di Montezuma (dal nome dell’ultimo sovrano azteco, detronizzato e massacrato, come parecchi suoi conterranei, dagli invasori spagnoli). Si tratta di una sorta di disturbo intestinale parecchio fastidioso in condizioni normali, figuriamoci dovendo giocare a pallone.

Il Mondiale in Messico è ricordato anche per la ola, o onda, o onda messicana, da allora diffusa in tutto il mondo. Per chi non lo sapesse, si tratta di quel particolare effetto ottico che il sollevarsi ritmico e coordinato degli spettatori produce sugli spalti – l’effetto appunto di un onda. All’epoca era già diffusa in tutto il Nordamerica e fu vista per la prima volta a livello internazionale due anni prima, nel corso delle Olimpiadi di Los Angeles. Pare che negli States fosse una pratica diffusa già dagli anni Settanta. I messicani da parte loro rivendicano a sé l’invenzione, facendola risalire ai Giochi Olimpici del 1968.

Il manifesto del Mondiale - tvsvizzera.it
Il manifesto del Mondiale – tvsvizzera.it

Nel grande paese centroamericano, così lontano da Dio e così vicino agli Stati Uniti, il calcio è senza dubbio lo sport più popolare. Il calcio messicano non ha però mai sfornato grandi interpreti, né ha donato ai propri tifosi particolari gioie in termini di vittorie, a differenza dell’altra grande passione sportiva del paese nella quale invece i messicani eccellono, ovvero il pugilato. Alcuni nomi già all’epoca rientravano nel novero dei migliori pugili di sempre: Ruben Olivares, Carlos Zarate, Salvador Sanchez, costui tragicamente morto nel 1982 a soli ventitré anni, causa incidente automobilistico, da campione del Mondo in carica dei pesi piuma. Verranno poi Chavez, Barrera, Morales, Marquez, Alvarez. Il Messico è probabilmente il paese con la più grande tradizione di boxeur al mondo, dopo ovviamente l’ingombrante vicino a stelle e strisce.

Nel calcio, almeno sino a quel momento, la situazione non è così esaltante. La nazionale messicana ha partecipato a otto edizioni del Mondiale, sfruttando percorsi di qualificazione non proibitivi se consideriamo le formazioni che compongono la CONCACAF, ovvero la confederazione delle nazionali di nord e centro America, oltre alle Antille. Però non ha mai superato il primo turno nella fase finale, salvo nel corso dell’edizione casalinga del ’70, dove ai quarti di finale fu sconfitto quattro a uno dall’Italia. I messicani hanno addirittura saltato i tornei del 1974 e del 1982, superati nel primo caso da Haiti, nel secondo da Honduras e El Salvador. Dopo il 1986 il Messico sarà escluso dal successivo torneo iridato causa squalifica, rimediata per aver impiegato giocatori oltre l’età consentita nel corso dei Mondiali under-20 del 1989. Poi però prenderà il via un periodo senza dubbio florido per il calcio messicano: la nazionale sarà sempre presente nei successivi campionati del Mondo, e sarà sempre in grado di superare il primo turno, benché ogni volta incapace di fare anche solo un passo oltre gli ottavi di finale.

La squadra padrona di casa nel Mondiale 1986 non può quindi rientrare nel novero delle favorite alla vittoria finale. Si tratta di una formazione discreta, composta quasi esclusivamente da giocatori in forza alla locale lega professionistica, salvo uno: la stella, il giocatore più atteso dal pubblico messicano, cioè Hugo Sanchez. Attaccante del Real Madrid, molto prolifico, funambolico, espressivo in campo e fuori, è anche l’unico superstite della nazionale presente ai Mondiali 1978. Gioca poi un ottimo torneo il centrocampista (e capitano della squadra) con il nome da eroe dei fumetti, Tomas Boy, e anche l’altro attaccante titolare, Negrete. L’allenatore del Messico è Bora Milutinovic, un tecnico jugoslavo che guiderà squadre di tutto il pianeta nei Mondiali a seguire, con risultati pregevoli.

La prima partita della nazionale messicana è in programma il 3 giugno 1986, all’ora di pranzo, di fronte a centoquindicimila spettatori assiepati nello Stadio Azteca. Si risolve in un’affermazione, forse inaspettata, contro il Belgio. Quirarte porta in vantaggio il Messico, di testa, e il pubblico esplode. Su calcio d’angolo, ancora di testa, Sanchez raddoppia, e la festa dei tifosi diventa puro delirio. Il Belgio accorcia sfruttando un’uscita avventata del portiere avversario, sempre nel corso della prima frazione di gioco, ma il risultato non muta sino al termine: due a uno.

Secondo incontro, Messico – Paraguay. È una partita fallosa (al fischio finale se ne conteranno addirittura settantasette), piena di interruzioni e perdite di tempo, per cui non molto gradevole. Il Messico passa in vantaggio nel primo tempo, attacca con forza e si vede negare un rigore. Poi nella ripresa viene fuori il Paraguay, che pareggia a cinque dalla fine. A tempo scaduto, rigore per il Messico: va sul dischetto l’eroe di casa Hugo Sanchez, tira teso e abbastanza angolato, ma il portiere paraguayano Fernandez respinge con un grande intervento. La fase a gironi è oltrepassata dopo la vittoria di misura (uno a zero) sull’Iraq nell’ultima partita del girone.

L’occasione storica di approdare ancora una volta ai quarti di finale del Mondiale si presenta per il Messico il 15 giugno, sempre allo Stadio Azteca della capitale. L’avversario, la Bulgaria, non è di quelli proibitivi: sinora la compagine est europea ha mostrato prestazioni piuttosto anomale. Il Messico ci crede e spinge: dopo tre minuti dal fischio di inizio Negrete impegna severamente il portiere bulgaro con una conclusione da fuori; alla mezzora circa i messicani hanno un’enorme opportunità di passare in vantaggio, con un uomo solo davanti al portiere in uscita, ma è sprecata. Poco male. Altri cinque minuti e Negrete si produce in un gol favoloso, frutto di uno scambio al volo al limite dell’area e di una mezza rovesciata (sforbiciata) che manda il pallone in rete. Una realizzazione che fa impazzire il paese e viene trasmessa a ripetizione in tv nei giorni a seguire.

Il Messico, scatenato, fissa il definitivo due zero nel secondo tempo, con Servin. Dall’altra parte la Bulgaria abbandona ancora una volta il campionato del Mondo senza riuscire a vincere un incontro, su sedici disputati. Si rifaranno di lì a otto anni. Alla fine della partita la regia televisiva inquadra il presidente messicano Miguel De La Madrid Hurtado, molto soddisfatto, che applaude dalla tribuna. La nazionale messicana di calcio raggiunge i quarti di finale della Coppa del Mondo, così come sedici anni fa, ma dopo aver affrontato una partita in più. Li aspetta la Germania Occidentale. La gioia popolare è incontenibile, il Mondiale funziona e la squadra di casa avanza, a sorpresa, avanza…

Allora todo bien nel mondo del futbol, anno di grazia 1986? No, per niente. Le note sono invece davvero dolenti. Il contesto in cui vive il calcio in quegli è tutt’altro che semplice e incruento, soprattutto in Europa. Il malessere latente nella società, la frustrazione e il disagio che covano nella vita quotidiana, il senso di vuoto apparente e reale, prendono forma concreta nella bieca violenza fuori controllo di frange del tifo organizzato, di matrice prevalentemente britannica ma non solo – i così detti hooligans. Gli stadi sono diventati un luogo insicuro, con un che di sinistro. Sono anche strutture vecchie e spesso fatiscenti, nelle quali vengono aggiunte barriere e costruite zone di confinamento per i gruppi di tifosi più aggressivi, delle specie di gabbie. Gli animi sono eccitati da alcool e sostanze stupefacenti, e gli scontri tra tifoserie avverse sono ormai un rituale.

È un processo che cresce già da diversi anni, almeno una quindicina, ma che trova il suo culmine drammatico e sconvolgente nella seconda metà degli anni Ottanta, quando si iniziano a contare addirittura i morti. L’undici maggio 1985, alla Valley Parade di Bradford, Inghilterra, una tribuna dello stadio è avvolta da un violento incendio. L’impianto è vecchio e mancano gli estintori, eliminati per timore di un uso improprio da parte dei tifosi; tra gli spalti e il campo c’è una barriera di separazione, edificata anch’essa al fine di evitare disordini, ma per fortuna non è troppo alta e molte persone si mettono in salvo scavalcandola. Perdono però la vita in cinquantasei.

Pochi giorni dopo è in programma la finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool, un incontro molto atteso che pone di fronte le due squadre di club più forti di quegli anni. È il 29 maggio e si gioca a Bruxelles, Stadio Heysel. Già la scelta dell’impianto da parte dell’UEFA è sconsiderata: si tratta di una costruzione molto datata e in parte cadente, letteralmente. Inoltre non è pianificata una reale gestione dell’ordine pubblico sebbene già l’anno prima, durante la finale di Coppa tra Roma e Liverpool, gli incidenti fossero stati numerosi. All’Heysel i supporters inglesi occupano in massa il loro settore, colmi di alcool e aggressività; entrano anche tifosi senza biglietto poiché i controlli mancano del tutto. All’interno dello stadio sono presenti pochissimi poliziotti. Gli hooligans iniziano a caricare un settore dello stadio loro adiacente, occupato da tifosi juventini non organizzati in gruppi. Cedono le barriere fra i settori, le persone fuggono all’impazzata, schiacciandosi e calpestandosi, mentre i poliziotti colpiscono chi cerca salvezza sul campo di gioco. Le immagini televisive riprendono la tragedia mentre il sole tramonta dietro gli spalti e sprigiona raggi di un rosso intenso. Un muretto crolla sotto il peso delle persone e le conseguenze sono terribili: trentanove morti, centinaia di feriti. La partita si gioca ugualmente per ragioni di ordine pubblico e la Juventus si impone per uno a zero. L’Heysel rimarrà nella memoria come la più nota, tristemente famosa, fra le tragedie avvenute all’interno di uno stadio di calcio. Sembra una strada senza ritorno. Il giorno seguente, L’Equipe scrive: se questo è il calcio, lasciatelo morire.

È un’enorme problema europeo, ma non solo. In Cina, realtà che si presume calcisticamente molto diversa, solo dieci giorni prima dell’Heysel pesanti disordini seguono la sconfitta della nazionale di casa contro Honk Kong per due a uno. Per la nazionale cinese sfuma così la possibilità di giocare il Mondiale, e i tifosi sfogano la propria rabbia assaltando negozi, bus, stazioni della metropolitana di Pechino2)Ibidem. Tafferugli si verificheranno, per quanto in forma limitata, anche sugli spalti del torneo messicano.

Heysel, Bruxelles, 29 maggio 1985 - panorama.it
Heysel, Bruxelles, 29 maggio 1985 – panorama.it

Dopo l’Heysel le squadre inglesi sono estromesse dalla coppe europee per cinque anni (il Liverpool per sei). La Gran Bretagna è toccata in prima persona dall’ondata di violenza del mondo del calcio e il governo inizia a emanare alcuni provvedimenti: vieta la vendita di alcolici negli stadi e nei dintorni degli stessi, accresce i poteri dei tribunali al fine di bandire gli elementi peggiori dagli stadi. Ma servirà un’altra immane tragedia per imprimere una svolta storica alle modalità di gestione degli impianti dedicati al calcio, toccando proprio alla radice l’idea stessa di fruizione dello spettacolo calcistico. Il 15 aprile 1989, allo Stadio di Hillsborough, Sheffield, è in programma la semifinale di FA Cup tra Liverpool e Nottingham Forest. Per una serie di sfortunate coincidenze, sommate ancora una volta a un’insufficiente gestione dell’ordine pubblico, il settore dello stadio al primo anello dedicato ai tifosi del Liverpool viene riempito rapidamente e in modo eccessivo. Novantasei esseri umani vanno incontro a una fine terribile, travolti o schiacciati dalla calca, oppure trafitti dagli spuntoni metallici che sormontano le recinzioni di contenimento poste attorno al campo. La psicosi del tifo violento diffusa nel paese induce in un primo momento le forze dell’ordine a respingere con la forza chi prova a tirarsi fuori dall’inferno entrando sul terreno di gioco, mentre l’incontro è già iniziato. Solo dopo alcuni minuti il deflusso viene agevolato; altre persone sono issate dai tifosi all’anello superiore, e così tratte in salvo. La gara è interrotta e la diretta televisiva prosegue mostrando scene tremende.

È istituita una commissione inchiesta sul disastro di Hillsborough, affidata al giudice Taylor. Nel gennaio del ’90 presenta al parlamento del Regno Unito le proprie conclusioni. Quello che passerà alla storia come il rapporto Taylor evidenzia innanzitutto, quale principale causa della tragedia, gli errori della polizia. Ma nel contempo il rapporto avanza alcune proposte di carattere organizzativo in grado di evitare il ripetersi di eventi simili, fra le quali: tutti i posti del pubblico devono essere a sedere; ciascun spettatore è identificato tramite il biglietto; si devono rimuovere le gabbie, e altresì devono sparire le barriere che separano il campo dagli spalti; siano gli stessi club i responsabili della sicurezza all’interno degli impianti, con proprio personale; la sicurezza deve essere rafforzata tramite l’utilizzo di telecamere a circuito chiuso. Queste proposte diventeranno realtà negli stadi britannici negli anni a seguire.

Oltre a tutto ciò, altri due elementi contribuiscono al rivolgimento epocale: da un lato gli stadi sono ricostruiti; dall’altro inizia progressivamente a mutare la composizione sociale del pubblico che affolla le arene calcistiche. Proletari e sottoproletari vengono in parte allontanati, attraverso l’aumento delle misure repressive e, soprattutto, l’incremento del prezzo dei biglietti. Al loro posto cresce la componente di ceto borghese, la quale garantisce maggiore tranquillità e porta con sé un portafoglio più gonfio. Il sistema che inizia a far capolino nei primi anni Novanta del secolo scorso sarà il futuro paradigma dello spettacolo-calcio fruito dal vivo.

Alcune delle iniziative poste in atto erano senza dubbio necessarie. Altre costituiscono la consueta risposta di un potere statale che, nelle sue istituzioni, mostra in ultima istanza l’esclusivo interesse a preservare il controllo sociale, anche attraverso la repressione, se necessaria. Quindi non si identifica una risposta possibile a un reale problema sociale, sicuramente manifestatosi nelle forme di una violenza di per sé ingiustificata e insensata, ma che in ogni caso rappresenta un sintomo di qualcosa di più radicale e che come tale sarebbe degno di riflessione e approfondimento. Si cancella il sintomo, e basta. Nonostante il modello britannico sia stato esportato negli anni pressoché ovunque, i disordini nel mondo del calcio non sono venuti meno, anzi. Gli esempi possono essere innumerevoli, dalle ondate di violenza che hanno caratterizzato il calcio latinoamericano nei Novanta, sino a quanto avvenuto nel corso degli Europei in Francia, nel 2016. Ma in tutta onestà, in un determinato ambito il piano ha funzionato: dentro gli stadi. Almeno ad alti livelli, all’interno delle arene calcistiche il clima e gli incidenti di quel burrascoso periodo non si sono più ripetuti nelle proporzioni descritte, e nemmeno si sono avvicinati a quel tragico passato. Gli stadi hanno smesso di essere potenzialmente dei contenitori di brutalità e tragedie, cioè dei luoghi pericolosi. Il nuovo ordine in qualche modo ha salvato il gioco. Il calcio è sopravvissuto.

23 febbraio 2019

References   [ + ]

1. David Goldblatt, The ball is round, Penguin Books, 2007
2. Ibidem