Per una volta merita un accenno la finale per il terzo posto giocata a Bari tra Italia e Inghilterra: intanto perché consente a Schillaci di laurearsi capocannoniere del Mondiale con sei reti; e inoltre, perché il clima festoso diffuso tra i giocatori e il pubblico, nonostante la cocente delusione, viene interpretato come una sorta di pacificazione fra le due nazioni calcistiche segnate pochi anni prima dalla tragedia dell’Heysel. Poi, dopo la partita, chi non è uscito di casa ha potuto assistere in diretta a un meraviglioso e storico spettacolo, organizzato in occasione del Mondiale alle Terme di Caracalla in Roma. Si tratta del famoso concerto dei tre tenori, ovvero Josè Carreras, Placido Domingo, Luciano Pavarotti, con la direzione di Zubin Metha e un’orchestra di ben duecento musicisti, frutto della fusione delle orchestre del Maggio Musicale Fiorentino e dell’Opera di Roma; un evento diventato presto celeberrimo e che probabilmente ha aperto le porte della musica lirica a una generazione di giovani appassionati calcistici.
Il giorno seguente, l’otto luglio 1990, Roma ospita per la seconda volta nella sua plurimillenaria storia una finale della Coppa del Mondo di calcio. L’impianto in cui si giocherà è però diverso dal precedente: nel 1934 fu lo Stadio PNF, poi demolito e sostituito dallo Stadio Flaminio; ora è il turno dello Stadio Olimpico, una struttura che riassume alle proprie spalle già parecchia storia. Edificato per la prima volta nei ’30 sotto il nome di Stadio dei Cipressi e nell’ambito del complesso sportivo del Foro Italico, è teatro nel 1938 della triste parata che celebra la visita nella città eterna di Hitler, mentre nell’immediato dopoguerra è utilizzato come parcheggio per i mezzi militari alleati, che hanno lì vicino il loro quartier generale1)Federico Di Vita, Fabiagio Salerno, Stadio Olimpico: una biografia, l’Ultimo Uomo. Agli inizi degli anni Cinquanta viene risistemato e rimodellato – lo chiamano Stadio dei Centomila per la capienza, poi ridotta -, e assume quel caratteristico aspetto ovale e poco elevato che gli consente di integrarsi molto bene nell’ambiente circostante. Prende il nome di Olimpico quando ospita i fantastici Giochi del 1960 (si veda il bel documentario La grande Olimpiade di Romolo Marcellini per un’idea su quell’evento). Per i Mondiali del 1990 viene nuovamente modificato: gli spalti crescono in altezza, ma soprattutto è installata, come sospesa sulle tribune, una splendida copertura bianca ispirata ai velarium degli antichi anfiteatri romani.
La finale è la stessa di quattro anni prima: Germania Ovest – Argentina. Una finale non inedita è una novità nella storia della Coppa del Mondo, così come una nazionale – nella fattispecie quella tedesca – che si presenta per la terza volta consecutiva all’ultimo atto del torneo. Le squadre però ci arrivano palesemente stanche, poiché oltre allo stress del torneo in sé, iniziano a sentirsi anche il peso di stagioni regolari sempre più impegnative, per quanto l’uniformarsi del calcio a livello internazionale renda tale sforzo sempre più uniforme nei vari giocatori.
Come già analizzato, tedeschi e argentini adottano uno schieramento speculare, ma diverso in termini di interpretazione e di caratteristiche degli uomini in campo. Beckenbauer schiera un centrocampo senza incontristi e composto, oltre a Matthaus, da elementi offensivi quali Hassler e Littbarski, per compensare le minori sortite in avanti di Buchwald che è deputato a marcare Maradona a uomo. Il ct argentino deve invece rimediare all’assenza di quattro squalificati (Giusti, Olarticoechea, Caniggia e Batista): schiera Sensini e Lorenzo sulle fasce, Troglio in mediana è preferito a Calderon, mentre in attacco compare Dezotti. È un giocatore in forza a una formazione italiana di secondo piano, la Cremonese (retrocessa in Serie B proprio quell’anno), il quale sinora ha raccolto appena otto presenze in nazionale; la nona, giocata quella sera, sarà l’ultima. Le assenze comunque costituiscono un grosso peso per la formazione argentina e ne sfaldano la quadratura trovata a fatica nelle settimane precedenti. Ecco le squadre. Germania Ovest: Illgner; Berthold, Kohler, Augenthaler, Buchwald, Brehme; Hassler, Matthaus (capitano), Littbarski; Voller, Klinsmann. Argentina (in maglia blu): Goycoechea; Sensini, Serrizuela, Simon, Ruggeri, Lorenzo; Burruchaga, Basualdo, Troglio; Maradona (capitano), Dezotti.
Questa volta la battaglia dello stile fra i due tecnici è appannaggio di Beckenbauer: completo scuro con occhiali a goccia oscurati. Bilardo si presenta all’appuntamento con la storia – il possibile doppio titolo mondiale, come Pozzo negli anni Trenta – con una tremenda cravatta giallo senape e disegnini marroni, la stessa dei suoi collaboratori, quindi fornita direttamente dalla federazione. Il pubblico è decisamente dalla parte della nazionale tedesca, i tricolori italiani si mischiano a quelli, preponderanti, tedeschi e l’inno argentino è fischiato sonoramente. Maradona risponde con un hijos de puta pronunciato in modo ostentato a favore di telecamere. Restando in tema, già alla vigilia si era verificato l’episodio della bandiera argentina strappata durante la notte nel ritiro della seleccion a Trigoria, nei pressi della capitale.

La nazionale tedesca conduce l’incontro ma con il preciso intento di non sbilanciarsi troppo, per cui sfrutta anche i lanci lunghi e non disdegna di approfittare del contropiede. Dopo pochi minuti, una punizione di Brehme dalla tre quarti sinistra trova nell’area piccola la deviazione di Voller in scivolata, con il pallone che termina alto. Passa un’altra manciata di minuti e la Germania usufruisce di una punizione dal limite, senza esito; ma ciò che colpisce sono le reiterate e insistenti proteste argentine e il tempo necessario all’arbitro per fare rispettare la distanza della barriera. Dezotti è ammonito, i giocatori argentini tendono a lamentarsi troppo spesso in modo eccessivo, e forse il voler esasperare il direttore di gara, quasi a prescindere, non costituisce un atteggiamento molto produttivo.
I tentativi tedeschi proseguono con Voller che da centro area, su cross di Klinsmann, colpisce di testa e indirizza fuori. Littbarski ci prova dalla distanza (alto non di molto). Al diciottesimo Voller perde tempo in area di rigore e vanifica così un pericoloso contropiede avviato da Matthaus dopo aver rubato la sfera a Burruchaga. Cinque minuti dopo Voller ci prova ancora una volta di testa senza inquadrare la porta. Poi al minuto trentasette si vede finalmente l’albiceleste: una punizione dal limite, un po’ sulla destra, è calciata da Maradona ma la palla finisce lentamente sopra la porta difesa da Illgner.
Non c’è altro da descrivere. Si chiude a reti inviolate un primo tempo noioso, giocato al rallentatore e con un numero esagerato di errori tecnici: la Germania, i cui migliori in campo sono stati Kohler, Matthaus e Hassler, ha condotto le danze ma non ha avuto grosse occasioni da rete; l’Argentina si è guardata bene anche solo dal provarci a segnare. Nell’intervallo Vicini discute con Pavarotti sugli spalti dell’Olimpico e meravigliose immagini televisive di Roma sono un valido rimedio alla mancanza di bellezza riscontrata sul prato verde.
La ripresa è più divertente – d’altronde ci voleva poco. Cresce la pressione della Germania, perché i tedeschi si rendono conto che questa finale soltanto loro possono provare a vincerla. L’unico interesse della seleccion è di portare la partita ai calci di rigore e, di conseguenza, auspicare lo stesso esito positivo ottenuto nei due precedenti incontri. Per cui nei primi minuti del secondo tempo si assiste a tre importanti occasioni tedesche, le migliori sin qui occorse alla mannschaft: slalom di Littbarski al limite dell’area e successiva conclusione bassa che sfiora il palo; poco dopo, su calcio di punizione, Brehme indirizza il pallone sul lato opposto dove spunta Berthold che, tutto solo, di testa manda fuori; e poi un’occasione fotocopia si presenta sui piedi di Voller, e anche questa volta la conclusione tedesca non è precisa.
L’Argentina utilizza subito le sue due sostituzioni a disposizione, mandando in campo Monzon e Calderon per Ruggeri (in precarie condizioni fisiche) e un Burruchaga spento. In questa prima parte della ripresa la Germania sta producendo il suo massimo sforzo e l’albiceleste è costretta a ricorrere anche ai falli per frenare gli avversari. Al minuto cinquantasette la compagine europea reclama un rigore poiché Augenthaler, a tu per tu con Goycoechea, è toccato dal portiere argentino, ma in realtà il tedesco sembra cercare il contatto più che pensare a giocare la palla. Due minuti dopo un tiro di Brehme da fuori area verso l’angolino basso è deviato in tuffo da Goycoechea; poi una bella azione tedesca, con assist di Hassler per Klinsmann, è conclusa al volo e in alto dall’attaccante. Al sessantacinquesimo lo stesso Klinsmann scappa sulla sinistra e Monzon gli entra diretto sulle gambe in tackle; l’arbitro estrae il rosso, Monzon diventa così il primo espulso in una finale mondiale. Sull’azione seguente un nuovo tentativo di Brehme da fuori area spedisce il pallone fuori, sulla sinistra dei pali.
Per il resto della partita la seleccion, in dieci uomini, si attesta prudentemente in fase di non possesso sulla propria tre quarti, ma l’iniziativa tedesca ha ormai perso smalto e senza aver conseguito alcunché. Poi, al minuto ottantatré, ecco la svolta dell’incontro e del Mondiale: Matthaus verticalizza in area per Voller, il quale viene affrontato sulla corsa da Sensini; l’argentino allarga un po’ il braccio e tocca l’avversario con la gamba destra – non è chiaro se tocca anche la sfera. Pochi minuti prima, in uno dei rari ingressi nell’area di rigore tedesca, un presunto sgambetto di Matthaus ai danni di Calderon – anche qui le immagini televisive non aiutano molto – aveva innescato qualche protesta argentina, in quel frangente flebili e poco convinte.
L’arbitro è il messicano naturalizzato Codesal. È naturalizzato perché di origine uruguaiana (si è trasferito in Messico solo da qualche anno), ma ha altresì un nonno argentino, oltre a essere un figlio d’arte in quanto il padre ha arbitrato nei Mondiali del 1966. Ha già diretto due partite del torneo, nel corso delle quali ha concesso la bellezza di quattro rigori, e in questa finale, con il passare dei minuti, sta cominciando a mostrare un eccesso di protagonismo. Codesal assegna il calcio di rigore alla formazione tedesca e in ogni caso ci vuole coraggio a fischiare un penalty che probabilmente deciderà il titolo mondiale; ma il rigore, a dirla tutta, non pare così inventato come invece sosteranno gli argentini presumo in eterno.
Dopo due minuti di discussioni Brehme va sul dischetto. Racconta il laterale tedesco che Voller si avvicinò a lui e gli fece presente che, in caso di realizzazione, avrebbero vinto il titolo mondiale2)A magical night in Rome, fifa.com – giusto per non agitarlo. “La palla deve finire almeno sessanta centimetri al di qua del palo; se è negli ultimi sessanta, è sempre gol”, così si è espresso Goycoechea sulla possibilità di parare un calcio di rigore3)Federico Buffa, Carlo Pizzigoni, Storie mondiali, Sperling & Kupfer Editori, 2014. Il portiere argentino indovina l’angolo e si allunga al massimo delle sue possibilità, ma il tiro di Brehme è uno dei rigori più importanti e nel contempo efficaci mai visti, in termini di potenza e precisione. Finisce proprio lì dove Goycoechea e nessun altro essere umano può arrivare, e la Germania Ovest passa in vantaggio.
C’è ancora il tempo di vedere una seconda espulsione argentina comminata ai danni di Dezotti, reo di aver afferrato Kohler al collo per recuperare la sfera a gioco fermo. I sudamericani assaltano l’arbitro; si fa avanti Maradona in qualità di capitano e viene ammonito. Menomato fisicamente, annullato da Buchwald, il dieci argentino è stato ininfluente per tutto l’incontro. Nei minuti restanti si assiste soltanto a un contropiede tedesco sprecato da Klinsmann, questa sera non così brillante come invece è stato nel resto del torneo.
Con il risultato di uno a zero per la Germania Ovest va in archivio quella che, per definizione quasi unanime, è descritta come la finale più brutta della storia dei Mondiali. Il giudizio è ampiamente condivisibile. Dire che i tedeschi abbiano meritato, è il minimo: pur con tutte le attenuanti del caso (squalificati, uomo in meno per mezzora, minuti giocati alle spalle) sarebbe stato scandaloso se quella sera una formazione come l’Argentina, incapace di costruire anche un solo serio tentativo di impensierire la porta avversaria, avesse vinto il titolo. Dall’incontro emergono un paio di dati statistici in grado di impreziosire il successo tedesco: Illgner è stato il primo portiere uscito imbattuto da una finale di Coppa; è inoltre la prima vittoria di un’europea ai danni di una sudamericana nell’ultimo atto del torneo (sinora avevano sempre perso – ’58, ’70, ’78 e ’86).
Al fischio finale, alcuni membri della rappresentativa argentina cercano di avventarsi sull’arbitro; ma dura poco, e nel contempo molti giocatori della seleccion si complimentano sportivamente con i vincitori. La Coppa del Mondo è alzata al cielo da Matthaus e la festa dei tedeschi è accompagnata da un’enorme Luna piena che fa capolino sopra il tetto dello Stadio Olimpico e che saluta così la conclusione del campionato.

Pochi gol e scarso spettacolo, così viene spesso ricordato il Mondiale in Italia del 1990. L’analisi ha una base di verità – benché sia eccessiva -, ma è stato un torneo molto teso ed equilibrato, con otto incontri conclusi ai supplementari e quattro ai rigori, un record che sarà eguagliato solo nel 2014. L’importanza di Italia ’90, misconosciuta, è però attestata da alcuni dati incontestabili, primo fra tutti le due stellari semifinali: assieme a Messico ’70, è ancora adesso l’unico caso nella storia del torneo in cui quattro nazionali già campioni del Mondo giungono a giocarsi il titolo nelle ultime tre partite. Sono semifinali che – come accaduto nel 1970, e come accadrà di nuovo nella Coppa del 2014, ma senza il confronto fra quattro campioni – costituiscono una sorta di periodico riepilogo sulle squadre che hanno dominato il calcio per nazionali nei decenni precedenti. Poi, oltre alla rivincita tedesca nell’identica finale di quattro anni prima, il Mondiale ha permesso agli appassionati di assistere a vere e proprie rese dei conti delle sfide che hanno contraddistinto un’epoca, e si parla di Germania Ovest – Olanda, Argentina – Brasile e Italia – Argentina. Si prende altresì atto della scomparsa di alcune storiche nazionali est europee, e nel contempo si assiste al definitivo ingresso sulla ribalta internazionale, non più soltanto come semplice comprimario, del calcio africano.
Due nazionali hanno confermato la loro forza, Germania Ovest e Argentina, ma non si è verificato un dominio assoluto di queste due formazioni, anzi. Le pretendenti al titolo sono state diverse (le semifinaliste, ma aggiungerei anche il sorprendente Camerun) e fra queste, come sottolineato, i maggiori rimpianti sono tutti riservati ai padroni di casa dell’Italia – benché non fosse così scontata un’affermazione in finale sui tedeschi come invece spesso si tende ad affermare. Tutto sommato il titolo alla nazionale tedesca è stato meritato: un sorta di prima inter pares. I tedeschi sono giunti sul traguardo con il fiatone, hanno segnato l’ultimo gol su azione negli ottavi e poi sono stati abili a fare cassa grazie a due rigori e una punizione; ma nelle fasi a eliminazione diretta hanno subito appena due reti e per tutto il torneo non sono stati in svantaggio neanche un minuto. Qualcosa vorrà dire. Non eccezionale, la Germania Ovest ha dato l’impressione di forza e solidità superiori a tutte le altre avversarie, e si può pertanto tranquillamente argomentare che la Coppa del Mondo FIFA sia approdata in buone mani.
Ma Italia ’90 rappresenta anche un anno zero del calcio, sotto aspetti diversi e di differente portata.
Anno zero perché il mondo sta subendo una svolta. La Germania Ovest è campione del Mondo per l’ultima volta come nazionale di un paese diviso in due: nel novembre ’89 il Muro di Berlino è stato abbattuto e nell’ottobre del ’90 la Germania sarà unificata in un unico paese, o meglio, la Repubblica Federale assorbirà la parte orientale. Nel frattempo le democrazie popolari dell’Est Europa si sono dissolte, l’Unione Sovietica cessa di esistere come tale nel ’91 e l’anno successivo il quattordicesimo congresso del Partito Comunista Cinese propone imponenti riforme che apriranno il paese al mercato internazionale. A posteriori si comprende come la repressione di piazza Tienammen della primavera ’89 abbia avviato il periodo della dittatura capitalista a livello globale.
Le conseguenze in ambito calcistico, pur limitando il discorso soltanto all’organizzazione delle selezioni nazionali, sono notevoli. URSS, Jugoslavia e Cecoslovacchia scompaiono, dando vita a una pletora di nuove formazioni. Ma il nuovo periodo certifica anche un progressivo declino di un calcio, quello dell’Europa orientale, capace di rimanere in passato quasi sempre ai vertici. Se prendiamo come riferimento i paesi posti al di là della cortina di ferro (ovvero, ai sensi della celebre definizione di Churchill, a est di una linea immaginaria che corre da Stettino a Trieste), si riscontrano ancora ottimi risultati durante i campionati del ’94 e del ’98, grazie alle prestazioni di Bulgaria e Croazia, e poi basta: nei successivi quattro Mondiali, nessuna formazione riesce a inserirsi fra le prime quattro, quando in precedenza non si erano mai giocati più di due tornei iridati senza una selezione dell’Est almeno in semifinale.
Anno zero perché il grande ciclo calcistico tedesco iniziato nel 1954 giunge al termine. Con il terzo titolo mondiale del ’90 – e raggiungendo così le nazionali di Brasile e Italia al vertice della relativa classifica – la Germania porta a termine un periodo straordinario, contraddistinto altresì da altrettanti finali e da due semifinali (il tutto in dieci edizioni del torneo). Beckenbauer dichiara che, una volta unificata, la mannschaft sarebbe diventata imbattibile, ma sbaglia: il ciclo si chiude, la nazionale tedesca fallisce i due Mondiali successivi (per altro raggiungendo i quarti di finale). Sarà solo una pausa relativamente breve prima di un nuovo ciclo vincente.
Anno zero, infine, poiché finisce un periodo storico del calcio. La media gol del Mondiale italiano è la più bassa di sempre, cioè 2,21 reti a partita; gli Europei di due anni dopo registreranno una media realizzativa ancora più bassa e un gioco se possibile ancora più noioso del Mondiale, in termini di spettacolo. Il meccanismo sta iniziando a incrinarsi Ha ormai da tempo preso piede un’attitudine al difensivismo, all’attesa, al gioco di rottura, ben rappresentata dal modulo 5-3-2 nel quale le squadre, sempre più abbottonate, tendono a schierare cinque difensori veri e propri (e quindi neanche dei cursori esterni). Nel corso di Italia ’90, diciannove squadre su ventiquattro giocano con il libero.
Il modulo 5-3-2 rappresenta l’approdo storico di quella linea di tendenza presente, e possiamo dire dominante nell’interpretazione tattica del gioco, che ha visto un progressivo aumento del numero dei difensori nell’impostazione delle squadre. Il 5-3-2 ribalta definitivamente lo schema utilizzato per decenni tra fine Ottocento e inizio Novecento, passato alla storia come la Piramide di Cambridge e composto da due difensori, tre centrocampisti e cinque attaccanti (2-3-5). La piramide è stata rovesciata4)Jonathan Wilson, La piramide rovesciata, Edizioni Libreria dello Sport, 2012. Ma è un punto di non ritorno, come se un percorso fosse arrivato alla sua conclusione e venisse certificato anche graficamente dalla posizione degli uomini sul rettangolo verde. Se si eccettuano le punte più avanzate (Sacchi, Maturana, Cruyff, ma rappresentanti eccezioni nel contesto), a posteriori si può sostenere che, a quelle condizioni, non fosse più possibile un avanzamento dell’intero movimento calcistico senza una svolta.
Questa impasse, la progressiva mancanza di spettacolo e di gioco offensivo, e quindi il preoccupante diffondersi della noia fra i tifosi, troveranno una soluzione nella rivoluzione regolamentare che sarà realizzata durante gli anni Novanta.
1 giugno 2019
immagine in evidenza: Finale mondiale, il rigore di Brehme
References
1. | ↑ | Federico Di Vita, Fabiagio Salerno, Stadio Olimpico: una biografia, l’Ultimo Uomo |
2. | ↑ | A magical night in Rome, fifa.com |
3. | ↑ | Federico Buffa, Carlo Pizzigoni, Storie mondiali, Sperling & Kupfer Editori, 2014 |
4. | ↑ | Jonathan Wilson, La piramide rovesciata, Edizioni Libreria dello Sport, 2012 |