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Italia, 1990
VII. La tragedia del San Paolo

È la selezione del paese che ospita il campionato mondiale, i cui tifosi ogni domenica si raccolgono attorno al campionato per club più prestigioso al mondo; è una squadra di tutto rispetto – con carenze, certo, ma altresì con elementi di valore assoluto – e gode dei favori del pronostico: è questa la nazionale italiana che gioca le sue carte nel secondo torneo casalingo della sua storia (per la cronaca il primo, nel ’34, l’ha vinto). Un titolo per gli azzurri nel 1990 rappresenterebbe l’apoteosi. Sarebbe un nuovo trionfo appena otto anni dopo Spagna ’82 e il quarto alloro mondiale in assoluto, più di chiunque altro, compresi i brasiliani.

Per questa impresa storica, ovvero trasformare l’Italia in un’autentica Repubblica del calcio, la guida tecnica degli azzurri è affidata ad Azeglio Vicini. Da quattro anni è il commissario tecnico dell’Italia e nella sua carriera, da sempre nei ranghi della federazione, brilla l’esperienza sulla panchina della nazionale under-21. In quel ruolo Vicini ha allevato un’importante nidiata di giovani talenti (Zenga, Ferri, De Napoli, Donadoni, Giannini, Vialli, Mancini – di fatto la nazionale che arriva al Mondiale), ha garantito alla squadra un gioco appassionante e ha sfiorato il titolo europeo nel 1986, perso ai rigori contro la Spagna. È stata probabilmente la nazionale under-21 più amata di sempre in Italia, come se fosse predestinata al successo.

La nazionale di Vicini gioca un ottimo Europeo nel 1988, concluso però un po’ con l’amaro in bocca in quanto almeno la finale pareva a portata di mano. Non deve passare attraverso le qualificazioni poiché è il paese ospitante del campionato del Mondo; disputa quindi solo amichevoli, che danno comunque risultati incoraggianti: nel complesso sono nove vittorie, quattro pareggi e due sole sconfitte, entrambe nel 1989, contro Romania (in trasferta) e Brasile (in casa). Appena dopo gli Europei la formazione italiana ha sconfitto anche i campioni continentali dell’Olanda; però attenzione, si tratta in fine dei conti dell’unica vittoria contro una grossa squadra ottenuta nel biennio.

Ciò che impressiona davvero è la forza e l’efficacia della difesa italiana: tra la semifinale europea e quella mondiale, l’Italia incassa appena quattro reti, in venti partite! La retroguardia degli azzurri è composta da un misto esclusivamente milanese. Il libero è Franco Baresi (che nella squadra di club gioca in una difesa in linea), l’esterno sinistro è Paolo Maldini, entrambi del Milan: sono due giganti, fra i migliori difensori dell’intera storia del calcio, e giocano un torneo pressoché perfetto. Al loro fianco si trovano tre interisti: Zenga in porta, Ferri stopper e Bergomi nel ruolo di esterno destro. Campione del Mondo nel 1982 – e unico reduce di quella squadra ancora in nazionale – Beppe Bergomi è il capitano della squadra, un difensore tipico della scuola italiana e capace di valide prestazioni un po’ in tutti i ruoli arretrati. Giocherà anche il Mondiale del 1998 dopo sette anni fuori dal giro azzurro. La carriera di Bergomi racchiude una particolarità forse unica nel suo genere: ha giocato quattro fasi finali del Mondiale, per un totale di sedici partite, senza mai disputare nemmeno un minuto nelle sfide di qualificazione (nel 1982 e 1998 è arrivato direttamente al torneo; nelle edizioni ’86 e ’90 l’Italia era qualificata di diritto).

D’altro canto, il centrocampo azzurro non è immune da lacune. Accanto a un elemento di grande talento quale è l’esterno destro del Milan Roberto Donadoni – autore di un gran bel Mondiale -, i titolari sono De Napoli e Giannini (il regista della squadra), due validi giocatori ma non eccelsi. Il quarto uomo a centrocampo dovrebbe essere Carlo Ancelotti, un calciatore intelligente dal punto di vista tattico (non a caso avrà un futuro radioso come allenatore) e, nonostante i pesanti infortuni subiti, sempre protagonista nei club in cui ha giocato, cioè la Roma e il Milan di Sacchi. In carriera Ancelotti non ha avuto altrettanta fortuna in nazionale: è stato il cardine dell’Italia nel corso degli Europei ’88, ma nel corso del torneo iridato, il suo primo Mondiale, è vittima di una contrattura all’esordio. Viene così sostituito per tutta la competizione da Berti o da De Agostini.

Il settore della nazionale italiana sul quale iniziano però a sorgere alcuni dubbi è l’attacco. Nelle ultime cinque amichevoli prima del Mondiale l’Italia raccoglie due vittorie (ai danni di Algeria e Svizzera) e tre pareggi (Inghilterra, Argentina, Olanda); mantiene la porta inviolata, ma segna appena due reti. Questa tendenza non si inverte nell’amichevole non ufficiale disputata contro la Grecia pochi giorni prima del debutto e chiusa sullo zero a zero. La sterilità in fase offensiva si era già palesata nel corso degli Europei, soprattutto se confrontata con la gran mole di gioco prodotto, ma ora pare aggravarsi. Vicini decide di iniziare il torneo con la coppia d’attacco formata da Vialli e Carnevale.

Insomma, un po’ di nubi all’orizzonte si scorgono nel percorso di avvicinamento al Mondiale, non da ultimo un gioco di squadra non molto strutturato e spesso assente, il cui rimedio è affidato all’iniziativa dei singoli. Ma nonostante ciò l’entusiasmo prevale e il grande obiettivo, per quanto sottaciuto, assume veramente dei contorni concreti. Il 4-4-2 degli azzurri è formalmente nel solco del gioco all’italiana; l’impostazione però è a zona anche in difesa, benché organizzata con il libero classico. È uno degli schieramenti più offensivi nel panorama delle squadre presenti al torneo e inoltre gli uomini messi in campo sono all’incirca sempre gli stessi – salvo l’attacco, come si vedrà -, sintomo quindi di sicurezza e idee chiare. La squadra del ’90 è stata anche definita come la più forte nazionale italiana di sempre1)John May, Italy win a nation’s heart, BBC Sport. Per me è eccessivo, ma il giudizio è testimone in merito alle potenzialità della squadra, e nel contempo delle aspettative della vigilia – franate invece rumorosamente, inaspettatamente, tragicamente, in certa misura inspiegabilmente. Ecco la storia di quel tracollo.

La nazionale italiana prima della semifinale al San Paolo

Le notti magiche italiane prendono il via contro l’Austria sabato 9 giugno 1990, a Roma, dove gli azzurri giocheranno sino ai quarti di finale. Lo Stadio Olimpico è stracolmo e offre uno spettacolo meraviglioso con migliaia di tricolori inframmezzati da bandiere azzurre, che sventolano dando l’idea di un oceano in movimento. Ma nonostante il tifo, nonostante l’evidente superiorità della compagine italiana su quella austriaca e le numerose occasioni da rete occorse sui piedi degli azzurri ma non concretizzate, soprattutto nel primo tempo – bravo il portiere Lindenberger, insufficiente però la precisione degli attaccanti – il risultato non si schioda dallo zero a zero. I problemi in fase realizzativa dell’Italia sembrano diventati cronici. A un quarto d’ora dalla fine il ct Vicini inserisce Schillaci per Carnevale. Passano due minuti e Donadoni serve un bel pallone per Vialli sulla fascia; Vialli arriva sulla linea di fondo ed effettua un cross al centro dell’area. In mezzo a due colossi austriaci, ma posizionati male, c’è il piccolo Schillaci: colpo di testa, gol, tripudio e vittoria uno a zero per l’Italia.

Si sarà ormai capito che questo è il Mondiale dei subentrati, dei giocatori capaci di imporsi pur partendo dalla panchina. Salvatore Schillaci, da quell’estate per sempre Totò, è nato e cresciuto nel popolare e disagiato quartiere palermitano di San Giovanni Apostolo (o CEP). Da ragazzo alterna la passione per il pallone al lavoro di gommista. È arrivato nel calcio che conta soltanto un anno prima, a venticinque anni, quando è stato acquistato dalla Juventus; con i bianconeri disputa un’ottima stagione, arricchita da Coppa Italia e Coppa UEFA. Prima del gol segnato all’Austria, Schillaci ha all’attivo appena una presenza in nazionale, ottenuta tre mesi prima in amichevole. A poco più di un anno dal Mondiale giocherà la sua ultima partita in maglia azzurra, perché Totò Schillaci è stato davvero un uomo che ha ballato una sola estate: dopo il ’90, non raggiungerà più neanche lontanamente i livelli del campionato del Mondo. Ma in quell’estate diventa il protagonista di un’autentica favola umana – il ragazzo siciliano venuto dal nulla e ora sotto tutti i riflettori; sembra baciato dagli dei del gioco, è l’uomo della provvidenza per l’asfittico attacco italiano. I suoi occhi spiritati passeranno alla storia.

La nazionale statunitense – seconda avversaria dell’Italia – torna alla fase finale di un Mondiale di calcio dopo quarant’anni; il gol decisivo, storico, è siglato nelle qualificazioni da Caligiuri nella partita vinta uno a zero su Trinidad e Tobago. La vera maturazione del calcio statunitense è ancora di là da venire e gli USA portano nel Belpaese una squadra formata per la maggior parte da non professionisti. Si attende una goleada da parte degli azzurri e il pronostico pare realizzarsi quando, dopo dieci minuti, Giannini porta in vantaggio l’Italia al culmine di una bellissima azione – l’assist per Giannini proviene una finta geniale di Vialli -, ma il parziale rimane tale sino al novantesimo. Vialli scaglia un generoso rigore sul palo e il suo Mondiale di fatto si ferma lì. Carnevale, di nuovo sostituito con Schillaci, manda affanculo il commissario tecnico mentre è inquadrato in primo piano dalla telecamera, chiudendo in tal modo il suo torneo. Qualcosa sta cambiando nell’attacco italiano.

In occasione della terza partita che vede opposta all’Italia la nazionale cecoslovacca, vuoi per un problema fisico occorso a Vialli, vuoi per l’epiteto ricevuto in mondovisione, e soprattutto perché il reparto offensivo inizia a preoccupare davvero, Vicini schiera come titolari Schillaci e Roberto Baggio, ovvero il nuovo, promettente talento del calcio italiano. L’Italia è già qualificata, ma deve vincere per conquistare il primo posto nel girone e gioca forse la sua miglior partita nel torneo. Passa in vantaggio con Schillaci all’inizio della sfida. Nella ripresa c’è un gol annullato ai cecoslovacchi, forse buono. Poi c’è il raddoppio azzurro: Baggio triangola con Giannini, dalla tre quarti, spostato sulla sinistra; converge in mezzo saltando due uomini, giunge al limite dell’area, ne disorienta un terzo, entra in area e accarezza il pallone con un tocco morbido che infila la sfera in rete. È un gol straordinario, il più bello del Mondiale; Roberto Baggio si presenta così agli appassionati di tutto il mondo, e da quel momento diventa uno dei protagonisti assoluti del gioco. La coppia di piccoli e imprevedibili attaccanti formata da Baggio e Schillaci pare in grado di risolvere le difficoltà azzurre in zona gol e viene quindi riproposta nelle due successive partite.

L’avversario dell’Italia negli ottavi di finale è l’Uruguay, sempre condotto dall’estro – un po’ latitante ai Mondiali – di Enzo Francescoli, e dotato nel complesso di un bel reparto offensivo, formato da Ruben Sosa, Aguilera e Fonseca. Il tecnico è Oscar Tabarez, che tre anni prima ha conquistato la Coppa Libertadoroes con il Penarol; è la quinta e ultima affermazione continentale del glorioso club di Montevideo, il cui nome è un omaggio alla città di Pinerolo in quanto alcuni dei soci fondatori erano di origine piemontese. La nazionale sudamericana, dopo un buon inizio di campionato contro la Spagna, si qualifica agli ottavi soltanto nei minuti di recupero della partita con la Corea del Sud (per altro in dieci uomini da metà della ripresa) grazie a un gol di testa di Fonseca. Non pare costituire un ostacolo troppo impegnativo per i padroni di casa, spinti dall’entusiasmante tifo sugli spalti dell’Olimpico.

In una partita impostata quasi solo per non prenderle, nei primi trentacinque minuti l’Uruguay riceve tre ammonizioni, confermando così lo stile rude e falloso che li contraddistingue ormai da diversi anni. Nel primo tempo l’Uruguay vacilla, ma resiste: l’Italia colleziona due buone opportunità con Schillaci (una va fuori di poco, l’altra è bloccata in uscita bassa dal portiere) e tentativi variamente assortiti su calcio di punizione. Su errato disimpegno di De Napoli, i sudamericani hanno anche una possibilità con Fonseca, il cui tiro però è neutralizzato da Zenga. Nella ripresa Alvez sfodera due grandissime parate, una su Schillaci e l’altra su conclusione da fuori di De Agostini, poi capitola: al ventesimo minuto Schillaci riceve palla appena fuori dall’area di rigore e lascia partire una fantastica conclusione che scavalca il portiere ed entra in rete sotto la traversa. Venti minuti dopo una punizione di Giannini dalla destra trova la testa di Serena per il raddoppio italiano. Due a zero e altro turno superato.

Italia – Eire è l’inedito incontro dei quarti di finale in programma sabato 30 giugno. La nazionale irlandese sorprende e conquista simpatie grazie alla sua tifoseria festante, chiassosa e numerosa quanto corretta, soprattutto se paragonata alla gesta degli hooligans della vicina Gran Bretagna. Con il suo caratteristico doppio petto, è proprio un inglese a sedere sulla panchina irlandese, ovvero Jack Charlton, e in un’epoca in cui la questione dell’Ulster pare ancora abbastanza lontana da una soluzione. Al ritorno la sua squadra verrà accolta nelle strade di Dublino da mezzo milione di tifosi entusiasti e riconoscenti. Il calcio dell’isola vive un periodo decisamente florido: l’Irlanda del Nord è scesa in campo nelle due precedenti edizioni del Mondiale; l’Eire è alla prima partecipazione in una fase finale della Coppa del Mondo e giocherà un ottimo torneo anche negli USA quattro anni dopo. È una squadra solida quella irlandese, senza stelle – i migliori sono McGrath, Houghton e Aldridge – ma formata in gran parte da giocatori che militano nel campionato inglese, e quindi provvista di una certa esperienza. Tramite un sano atteggiamento difensivo, finora l’Irlanda ha sempre pareggiato. Nel corso degli ottavi ha superato la Romania ai calci di rigore, anzi, all’ultimo rigore della serie, dopo che tempi regolamentari e supplementari si erano chiusi sullo zero a zero – una partita che con ogni evidenza non passerà alla storia del gioco.

All’avvio, l’Irlanda spaventa i tifosi italiani con un colpo di testa di Quinn bloccato da Zenga. Ma a pochi minuti dall’intervallo Baggio (che si è visto annullare un gol poco prima per un fuorigioco dubbio) avvia un’azione dalla metà campo, salta tre avversari e cede la sfera a Schillaci, che a sua volta la cede a Giannini; scarico su Donadoni e conclusione improvvisa dell’esterno azzurro da fuori area, a cui segue una respinta corta dall’estremo irlandese. Schillaci è in agguato: spostato sulla sinistra, riesce a coordinarsi e di piatto destro spinge la sfera in porta. Nel resto dell’incontro non accade poi molto, in sintonia con parecchie partite di questo torneo. L’Irlanda non ha la forza di ribaltare il risultato; l’Italia segna con Schillaci, ma il gol è di nuovo annullato per un fuorigioco non così certo, e ancora Schillaci coglie la traversa su calcio di punizione, con la palla che atterra sulla linea e poi schizza via.

L’uno a zero sulla nazionale irlandese garantisce ai padroni di casa l’accesso fra le prime quattro squadre al mondo e quindi, a soli due gradini dall’epilogo, tifosi e addetti ai lavori confidano apertamente nel successo. Ma la nazionale italiana comincia a dare qualche chiaro segno di difficoltà. Salvo Donadoni e Schillaci, in questa partita i giocatori non hanno brillato; Vicini lamenta la stanchezza accumulata e rimpiange l’assenza di parziali più ampi negli incontri precedenti, poiché avrebbero permesso ai giocatori di tirare il fiato. L’Italia procede a sprazzi e fiammate: i dati positivi prevalgono – solidissima in difesa (è ancora imbattuta), capace di gestire le partite e di costringere gli avversari sulla difensiva -, è innegabile però che la squadra sia priva di un vero e proprio gioco, di un’identità. E gli avversari affrontati dagli azzurri, per quanto coriacei e rognosi, non sono nazionali di primissimo piano, non rientrano nel novero delle grandi del calcio mondiale. Almeno sino alla formazione che li aspetta in semifinale: l’Argentina di Maradona. A Napoli.

Totò Schillaci e Roberto Baggio – medium.com

E allora io dico che incontrando l’Italia a Napoli, i napoletani dovranno ricordarsi una cosa, cioè che l’Italia li fa sentire importanti un giorno solo all’anno e negli altri 364 si dimentica di loro. Io invece di loro mi ricordo sempre”. Maradona insegna come le partite non si giochino solo sul campo. Apre una crepa nelle certezze italiane, forse più ampia di quanto si potesse immaginare; ma il clamore di quella frase non è solo il frutto dell’amore che la città partenopea tributa al suo idolo calcistico, bensì è il riflesso di un clima strisciante nel paese. Un anno prima, nel corso di un amichevole giocata a Verona, una fetta consistente del pubblico ha fischiato l’inno nazionale senza apparente motivo. La forza del club napoletano in quegli anni è mal tollerata dal tifo delle grandi squadre del nord Italia, e il campionato 1989/90 si chiude nelle polemiche: il Napoli conquista due punti a tavolino a Bergamo a causa di una monetina che colpisce Alemao (e nel labiale di un membro dello staff si intuisce la frase “stai giù”), il Milan perde a Verona, contestando l’arbitraggio, e lascia il tricolore ai partenopei. I fischi che accompagnano la nazionale argentina durante il Mondiale in tutti gli stadi italiani, salvo quello di Napoli, sono da taluni interpretati come una presa di posizione contro i napoletani. Pertanto, prima della semifinale non si parla d’altro che della dichiarazione di Maradona e di come si comporterà il pubblico allo stadio.

Ora, se il pubblico quella notte al San Paolo abbia o meno tifato contro la propria nazionale, non riusciremo mai a scoprirlo. Intanto, perché non esiste uno strumento di misurazione utilizzabile allo scopo. In secondo luogo, perché la questione si è ricoperta di una patina di mito che è ormai difficile da spostare: pregiudizio anti-napoletano (“è vero, preferite Maradona all’Italia”) e conseguente pregiudizio discriminatorio (“non è vero, lo dite perché siete anti-napoletani”). E lo stesso vale per quei giocatori della nazionale azzurra che hanno lamentato il mancato sostegno dei tifosi nel corso della partita, le cui parole sono state pertanto etichettate soltanto come una scusa per un esito diverso da quello auspicato alla vigilia – lo stesso Vicini, dopo la semifinale, dirà: “Abbiamo sempre giocato per fare spettacolo, per la gente. Anche qui. E qui devo dire che sì, ci hanno applaudito… ma insomma, il tifo dell’Olimpico ci ha tenuto sempre su meglio, il pubblico romano è stato un’altra cosa2)Mondiali 1990: Italia-Argentina 1-1; 3-4 d.c.r., Storie di Calcio.

Sensini ammette che giocare a Napoli è stato per l’albiceleste un grande vantaggio3)Paolo Brusorio, Sensini e la notte magica: “Nel 90 vi battè la fifa”, il Giornale. Di sicuro la nazionale argentina non viene pesantemente fischiata a prescindere, ovvero prima dell’incontro, come avvenuto altrove, e fin qui niente di male. Quali elementi oggettivi rilevati dalla diretta televisiva, è d’obbligo altresì precisare come alla rete dell’Italia il boato dello stadio sia evidente, così come si coglie una maggioranza di fischi mentre lo stesso Maradona si sta apprestando a battere il rigore (però si ode anche un’esultanza dopo la realizzazione). Ma detto questo, il dato saliente della vicenda consiste nel fatto che per la prima – e sino a oggi unica – volta nella storia dei Mondiali, la squadra di casa non ha la piena certezza di godere del fattore campo, tra l’altro in una partita importante come una semifinale. Ricorderà Vialli: “Era surreale, come stare sott’acqua o dentro quei sogni in cui non puoi parlare e non ci sono suoni. Potevi sentire la tensione e l’incertezza nella folla4)Gabriele Marcotti, A sentimental journey, The Blizzard n. 2. Un evento storico per il gioco, e volendo un fatto inquietante per il paese.

Proprio Gianluca Vialli è la grossa novità nello schieramento di partenza italiano. Vialli è stato uno dei migliori attaccanti italiani di sempre. Non così prolifico, ma leader in campo e completo, è stato protagonista assoluto di due passaggi storici nelle squadre di club in cui ha giocato: lo scudetto della Sampdoria nel ’91 e la Champions League della Juventus nel ’96. Ma in nazionale non è mai riuscito a rivestire un ruolo analogo. Italia ’90 doveva essere il suo grande palcoscenico, ma alla fine delude, un po’ come accaduto a van Basten, e di lì in avanti il suo rapporto con la maglia azzurra si inclinerà progressivamente. Perché Vicini lo ha schierato titolare in semifinale, dopo tre panchine di fila? Forse per riconoscenza – un sentimento umano, bello e pericoloso – poiché Vialli è stato il giocatore simbolo dell’esperienza del ct sulla panchina azzurra, sia a livello giovanile, sia nella squadra maggiore. È un errore che verrà rimproverato a Vicini sin dai primi istanti che seguiranno il fischio finale dell’incontro.

La seleccion argentina scende in campo con la stessa formazione che ha affrontato la Jugoslavia nei quarti: Goycoechea; Giusti, Serrizuela, Simon, Ruggeri, Olarticoechea; Burruchaga, Basualdo, Calderon; Maradona, Caniggia. Italia: Zenga; Bergomi, Baresi, Ferri, Maldini; Donadoni, De Napoli, De Agostini; Giannini; Vialli, Schillaci. Arbitra il francese Vautrot. Le due squadre si sono incontrate in amichevole nel 1987 (netta affermazione italiana per tre a uno) e un anno prima, pareggiando. Ma il 3 luglio 1990, ore 20, allo Stadio San Paolo di Napoli va in scena anche la quinta sfida consecutiva – e al momento ultima – fra Argentina e Italia ai Mondiali. Sono le nazionali che da dodici anni si dividono il titolo mondiale.

Chi avesse notato il pugno basso agitato da Maradona all’ingesso sul terreno di gioco, ne avrebbe potuto intuire il significato: nonostante tutti i pronostici, per i padroni di casa non sarà così semplice tornare a Roma per giocarsi il titolo. E infatti la nazionale campione in carica mostra di non provare troppo timore reverenziale rendendosi pericolosa per prima, all’ottavo minuto, con un bel tiro da fuori area di Burruchaga che costringe Zenga a sfoderare un intervento non semplice. L’Italia però inizia a controllare il gioco e al minuto diciassette passa in vantaggio grazie a una pregevole percussione centrale. Schillaci avvia in modo efficace l’azione a centrocampo aprendo per De Napoli, che tocca di prima per Vialli, che a sua volta lancia di prima Giannini; questi scavalca con un pallonetto il diretto di avversario e, entrato in area, tocca di testa a sinistra verso Vialli; tiro di Vialli, respinta del portiere, e tap-in decisivo ancora una volta di Totò Schillaci (con gli argentini che reclamano una posizione di fuorigioco).

I giocatori italiani esultano e corrono verso gli spalti a incitare il pubblico – sì, di solito è il contrario. Sembra tutto facile a questo punto per gli azzurri: in vantaggio, in casa, di fronte a un’Argentina raffazzonata e arrivata così avanti nel torneo quasi per caso – o almeno così si pensa. In effetti l’Argentina non produce molti sforzi per recuperare lo svantaggio, salvo una bella girata di Maradona dal limite dell’area bloccata senza problemi da Zenga. Lo stesso discorso vale però per l’Italia, che non affonda e sembra non avere la forza di chiudere subito la partita. Il primo tempo finisce uno a zero.

Nell’intervallo Bilardo lascia Calderon negli spogliatoi e inserisce Troglio, un giocatore più offensivo. L’Argentina del secondo tempo è più vivace e pericolosa, e inizia a controllare il centrocampo, mentre la nazionale italiana cala vistosamente, con i reparti sfilacciati; ma Vicini non cambia. La seleccion spinge. Su invito di Maradona, si assiste a un tentativo di Olarticoechea in area, defilato sulla sinistra, respinto da Zenga. Poi un lancio dalla trequarti coglie l’Italia fuori posizione: Burruchaga tocca di testa per Caniggia, abbastanza libero, ma l’attaccante argentino tenta forse un dribbling di troppo e la sua conclusione è intercettata dal doppio intervento in tackle di Giannini e Baresi. È solo il prologo: minuto ventidue, palla di Maradona per Olarticoechea sulla sinistra che, indisturbato, crossa di destro in area; Zenga esce in modo intempestivo, davanti ha Ferri, ma davanti ancora c’è Caniggia, spalle alla porta, il quale tocca la palla di nuca appena il necessario per indirizzarla in rete. È il clamoroso pareggio della nazionale argentina.

È la prima palla che Zenga deve raccogliere nella propria porta dopo 517 minuti di Mondiale, un record. Walter Zenga è in quel periodo il miglior portiere al mondo, fortissimo fra i pali (detto non a caso l’Uomo ragno) ma un po’ meno nelle uscite e sui rigori. Il suo torneo – e lo stesso discorso vale per l’intera difesa italiana – è stato ineccepibile, ma verrà ricordato proprio per un’uscita sbagliata e per i calci di rigore finali.

Poco dopo il gol incassato, Vicini decide di cambiare qualcosa: Serena entra per Vialli, Baggio per Giannini. L’Italia prova a scuotersi, l’ingresso di Baggio sembra giovarle e il fantasista azzurro ci prova in prima persona, da fuori area, ma non inquadra lo specchio della porta. A dieci dal termine un’efficace ripartenza condotta da Baggio, poi proseguita da Donadoni, trasmette la sfera a De Agostini in area avversaria; da buona posizione, seppur spostato sulla sinistra, il centrocampista azzurro tira ma Goycoechea chiude lo specchio in maniera efficace.

L’Italia trascorre all’attacco anche il primo tempo supplementare, forse in maniera un po’ disordinata ma con la consapevolezza di dover inventare qualcosa per evitare i rigori, epilogo che invece è l’obiettivo unico nella testa degli argentini. Una gran punizione di Baggio da venticinque metri è tolta dall’angolino da Goycoechea, il quale sta diventando ancora una volta determinante. Poi al decimo Giusti viene espulso in quanto reo di una gomitata a Baggio, non colta dalle telecamere e segnalata dall’assistente di gara, il danese Mikkelsen; gli argentini protestano con teatralità e veemenza anche eccessiva, e si scagliano furiosi contro il collaboratore dell’arbitro, lo insultano, tanto che lo stesso Bilardo è costretto a mettersi in mezzo e allontanare i suoi esagitati giocatori. Il primo tempo dura otto minuti in più: l’arbitro si è scordato di fischiare il cambio campo, evidentemente sente anche lui tensione.

Anche in dieci l’Argentina si difende con efficacia, e nel secondo supplementare ci prova dal limite con Olarticoechea – gran prestazione la sua -, dopo uno spettacolare slalom di Maradona, ma il tiro termina fuori. Un’altra bella azione di Baggio è neutralizzata da Serrizuela, che anticipa Serena a due passi dalla porta; Schillaci, lanciato verso Goycoechea, è fermato da una chiamata errata di fuorigioco. E poi nient’altro: uno a uno, la finalista del campionato del Mondo sarà decisa ai calci di rigore.

È la prima volta che la nazionale italiana affronta i decisivi tiri dal dischetto nel corso di una grande manifestazione internazionale (se si eccettua la trascurabile finale per il terzo posto a Euro ’80); da lì in avanti la sua storia calcistica sarà contrassegnata dai calci di rigore, ma d’altronde negli ultimi decenni è un destino comune a tutte le principali nazionali. Il clima in campo e fuori è anomalo: un silenzio cupo, nervoso e gravido di presagi nefasti, una tensione tale che gli azzurri neanche esultano per i rigori realizzati. Baresi è il primo uomo a presentarsi agli undici metri, e segna. Serrizuela per l’Argentina calcia centrale, Zenga sfiora ma la palla entra lo stesso. È il turno di Baggio, migliore in campo degli azzurri assieme a Donadoni e Maldini: segna, ma anche in questo caso il portiere ha sfiorato il pallone. Burruchaga realizza, così come De Agostini (che poi ribadisce la sfera in rete – è quasi un segno di vita degli azzurri) e così pure Olarticoechea. Siamo tre a tre e ci avviamo ai tiri decisivi.

Donadoni calcia abbastanza angolato, alla sinistra del portiere e a mezza altezza; Goycoechea compie un balzo e respinge la conclusione. È emblematica la foto di Donadoni in ginocchio, testa a terra e mani nei folti riccioli, mentre sullo sfondo Goycoechea salta con le braccia al cielo: è ormai l’eroe della patria, protagonista di un Mondiale enorme. Adesso sul dischetto si presenta Maradona. Nonostante le parole della vigilia, durante l’incontro ha mantenuto un contegno discreto, concentrato sulla sua prestazione. Tira basso, sulla sinistra, e spiazza Zenga; il Pibe de oro esulta correndo verso il centro del campo perché adesso l’albiceleste è in vantaggio e a un passo dalla vittoria. Per l’Italia è il turno di Serena, la cui espressione facciale mentre si avvia sul dischetto – ideale per un funerale – in quel contesto e in quel momento non promette nulla di buono: la conclusione è abbastanza centrale, innocua, e Goycoechea para ancora. Quattro a tre per l’Argentina ai rigori, cinque a quattro complessivo.

Il portiere argentino corre dai suoi compagni verso il centro del campo. I sudamericani festeggiano quasi increduli, Maradona esce con pugno levato al cielo in direzione degli spalti. È un’impresa di rilievo quella dell’albiceleste, ottenuta con tenacia e umiltà, ed è la prima finalista non europea nel vecchio continente dal 1958. Per la seleccion è soprattutto la terza finale mondiale nelle ultime quattro edizioni del torneo, l’atto conclusivo di un maestoso ciclo vincente.

La nazionale italiana è eliminata dal Mondiale in semifinale: imbattuta, senza essere mai stata in svantaggio, con otto gol all’attivo e uno solo al passivo, in sei partite. Probabilmente la delusione, enorme, è perfino inferiore all’incredulità. Gli azzurri siedono silenziosi negli spogliatoi del San Paolo per lungo tempo dopo l’incontro5)Aidan Williams, Salvatore Schillaci: the unlikely hero of Italia 90, These Football Times. Per Schillaci “era fatta, stavamo vincendo, giocavamo in casa e l’Argentina non era affatto pericolosa. Insomma, ormai ci credevamo tutti. E in finale, da nazione ospitante, non avremmo mai potuto perdere. E invece quella fesseria a venti minuti dalla fine ha fatto svanire tutto6)Lucio Luca, Le notti magiche di Schillaci ‘Toccavo la palla ed era gol’, la Repubblica. Questo è vero. Secondo Vialli invece “non avevamo un gioco. Finché è durata la freschezza fisica, le iniziative dei singoli ci hanno portato avanti, ma quando è subentrata la stanchezza ci siamo trovati nell’incapacità di far correre la palla. Con l’Argentina siamo usciti ai rigori, ma la partita l’avevano vinta loro tatticamente7)Italia ’90: Vialli contro tutti, Storie di Calcio, e anche questo è vero. Non sempre è agevole ricavare una spiegazione logica da una partita di calcio, e forse neppure necessario.

Si dice che in Italia non ci sia il tragico in quanto il suo posto è occupato dal melodramma. Un discorso simile vale per il calcio, poiché è abitudine nazionale l’attribuire un carattere storico soprattutto alle sconfitte patite da squadre inferiori, da outsiders – che infatti costituiscono un tallone d’Achille per gli azzurri. E nel contempo, si tende a sottolineare il lato comico di tali disfatte (ridolini i coreani del ’66; giocatori di rugby i neozelandesi del 2010), quindi a sminuirne la portata. Più in generale, non si è soliti riconoscere il carattere di grandezza che è insito anche nella sconfitta. Invece la vera tragedia calcistica italiana esiste ed è stata la semifinale di Italia ’90: la partita persa contro gli argentini da una nazionale favorita per il titolo, anzi lanciata verso il titolo; opposta a rivali snobbati e ritenuti inferiori; come padroni di casa, ma con il dubbio di un tifo non esplicitamente o completamente a favore. Ce n’è abbastanza per sostenere che quella del 3 luglio 1990 sia la più grande sconfitta della storia calcistica nazionale. È il nostro maracanazo. È la tragedia del San Paolo.

1 giugno 2019

References   [ + ]

1. John May, Italy win a nation’s heart, BBC Sport
2. Mondiali 1990: Italia-Argentina 1-1; 3-4 d.c.r., Storie di Calcio
3. Paolo Brusorio, Sensini e la notte magica: “Nel 90 vi battè la fifa”, il Giornale
4. Gabriele Marcotti, A sentimental journey, The Blizzard n. 2
5. Aidan Williams, Salvatore Schillaci: the unlikely hero of Italia 90, These Football Times
6. Lucio Luca, Le notti magiche di Schillaci ‘Toccavo la palla ed era gol’, la Repubblica
7. Italia ’90: Vialli contro tutti, Storie di Calcio