Giochi Olimpici di Helsinki, anno 1952: Unione Sovietica e Jugoslavia si scontrano in una sfida ad alta tensione negli ottavi di finale. L’URSS affronta il primo appuntamento internazionale della sua storia calcistica, mentre la Jugoslavia presenta una squadra davvero potente: Beara in porta, Cajkovski e Horvat in difesa, Boskov (proprio il futuro allenatore) e Zebec a centrocampo, Mitic, Vukas e Bobek in attacco. Non solo, ma i due paesi sono da qualche anno ai ferri corti, e Stalin e Tito si accusano reciprocamente di tradire l’ortodossia comunista. La rappresentativa sovietica, guidata dal grande Arkadiev, schiera in attacco Vsevolod Bobrov, il miglior calciatore sovietico di quegli anni. Amico personale del figlio di Stalin, già giocatore di hockey (sopravvive per puro caso al disastro aereo che coinvolge la squadra nazionale nel ’50 a Sverdlosk, evento mantenuto segreto per anni), Bobrov lascerà a breve il calcio per dedicarsi esclusivamente all’hockey e vincerà la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Cortina del 1956. A mezzora dalla fine la selezione jugoslava conduce per cinque a uno; poi i sovietici si destano e allo scadere realizzano un incredibile cinque a cinque, risultato che non muta nei tempi supplementari. Nella sfida di ripetizione la Jugoslava si impone con un netto tre a uno, rifilando così ai sovietici una pesante sconfitta calcistica a politica. Poi, raggiunta la finale, gli jugoslavi saranno sconfitti dall’irresistibile Ungheria di quegli anni.
Prima edizione dei campionati europei, giocati in Francia nel 1960. La nazionale sovietica ha un’ottima formazione, le cui architravi sono i centrocampisti Netto e Ivanov a supporto di Metreveli in attacco, e soprattutto l’uomo che difende i pali, Lev Jascin. Detto il Ragno nero, Jascin è considerato da alcuni ancora oggi come il miglior portiere di sempre, per le sue doti e per la capacità di sviluppare l’interpretazione del ruolo sotto diversi frangenti: le uscite, la posizione, la capacità di guidare la difesa e di impostare l’avvio dell’azione offensiva. Questa Unione Sovietica vince il titolo continentale sconfiggendo in finale la Jugoslavia per due a uno, ai supplementari (nel frattempo il clima fra i due Stati si è rasserenato) e ottiene in tal modo il suo più grande successo. Quel torneo inoltre, insieme al Mondiale cileno di due anni dopo, segna il vertice storico del calcio est-europeo.
C’erano una volta due nazionali di calcio che si chiamavano Unione Sovietica e Jugoslavia. Notevoli pezzi della storia del gioco, le due squadre non si incrociano e quindi non replicano ai Mondiali del 1990 le storiche sfide appena citate; disputano inoltre tornei molto diversi negli esiti, deludente quello dei sovietici, positivo – a un passo dal grandioso – quello degli jugoslavi. Ma un elemento le accomuna: sarà per entrambe l’ultima partecipazione a un campionato del Mondo di calcio. Di lì a breve i loro paesi scompariranno, e di conseguenza scompariranno le nazionali che ne portano il nome. Per sempre. Perché alle stirpi condannate a cent’anni di solitudine non è data una seconda opportunità sulla terra.

“Chi vuole restaurare il comunismo è senza cervello. Ma chi non lo rimpiange – è senza cuore” (Vladimir Putin, da Limonov, di Emmanuel Carrere).
Nelle sue particolarità di dilettantismo di Stato, di formazioni collegate agli apparati amministrativi, di culto del collettivismo a scapito del singolo atleta, la storia del calcio sovietico resta un’affascinante vicenda di squadre, giocatori e allenatori1)Vedi infra Messico, 1986: III. Come fu sconfitto il calcio del Duemila non molto diversa in fin dei conti dalle vicende calcistiche dell’occidente capitalista.
Per un lungo periodo il campionato dell’URSS è dominato dalle squadre della capitale, prima che la Dinamo Kiev riesca a imporre la sua forza nel periodo tra gli anni Settanta e la dissoluzione dell’Unione. La Dinamo Mosca, fra i cui pali per tanti anni staziona Jascin, è tradizionalmente la compagine per eccellenza del Ministero dell’interno, e quindi dei servizi segreti. È la prima formazione sovietica a raggiungere una finale europea – nel 1972, in Coppa delle Coppe, sconfitta dal Glasgow Rangers – dopo aver superato in semifinale la Dinamo Berlino nel derby dei servizi segreti comunisti. La finale è giocata a Barcellona, nella Spagna ancora franchista, ed è funestata da tafferugli innescati dai tifosi scozzesi (tradizionalmente anti-comunisti). La Dinamo inoltre è stata protagonista di una storica tournée in Inghilterra nel ’45 che strabilia gli appassionati di calcio di oltremanica per lo stile di gioco, la spregiudicatezza tattica e i risultati ottenuti in campo. Il CSKA Mosca è la squadra dell’esercito e domina la le stagioni a cavallo tra i Quaranta e i Cinquanta con Arkadiev in panchina; ma è la compagine individuata come capro espiatorio dopo la debacle olimpica del ’52, punita addirittura con lo scioglimento (decisione poi rientrata dopo due anni). In opposizione ai due club prettamente di apparato, la Spartak Mosca – la squadra del Komsomol, cioè la gioventù comunista del partito – è sempre stata considerata come la preferita del popolo. C’è poi la quarta squadra di Mosca, la Torpedo, che negli anni è riuscita a emergere grazie all’apporto di due validi e sfortunati talenti: il centrocampista Voronin e l’attaccante Streltsov, quest’ultimo detto il Best (ante litteram) sovietico.
L’inaspettata sconfitta alle Olimpiadi di Helsinki rappresentò una svolta per la nazionale dell’Unione Sovietica, un po’ come è stato per l’intero paese la morte di Stalin, avvenuta un anno dopo. Sgravata dal fardello di eccessive pretese e responsabilità, nonché liberata da un clima di opprimente segretezza, l’URSS conquista la medaglia d’oro ai Giochi del 1956. Inizia allora un periodo fecondo nel quale l’Unione Sovietica, oltre al già ricordato titolo continentale, raggiunge la finale europea nel ’64 e nel ’72, la semifinale nel ’68, e ottiene il suo miglior risultato ai campionati del Mondo: la semifinale nell’edizione del 1966. Segue una fase di appannamento durata circa un decennio, superata negli anni Ottanta sotto la guida tecnica di Lobanovsky, commissario tecnico dell’URSS anche nel Mondiale del ’90.
La nazionale sovietica del torneo in Italia viene dalla delusione di quattro anni prima, quando una squadra potenzialmente pronta a giocarsi il titolo si è fermata agli ottavi di finale; d’altro canto viene altresì dalla prestigiosa piazza d’onore conquistata nel campionato europeo del 1988. Nell’occasione Lobanovsky ha schierato una squadra più raccolta e coperta, pronta a sfruttare il contropiede e molto fisica. L’URSS rimane un’avversaria ostica in ogni contesto, ma le difficoltà iniziano a palesarsi già nelle qualificazioni quando nell’ottobre del 1989 è sconfitta da una nazionale tedesco-orientale di nuovo competitiva. La DDR avrebbe pertanto la possibilità di conquistare la qualificazione ai danni del grande alleato russo, ma perde tre a zero a Vienna. È il 15 novembre 1989 e quattro giorni prima il Muro di Berlino è stato abbattuto.
È probabile che la situazione profondamente incerta vissuta in patria, accompagnata dalla crisi economica che sta travolgendo le riforme di Gorbaciov, influiscano in maniera negativa sulle prestazioni della squadra sovietica durante il torneo iridato. Alcuni dei principali giocatori, inoltre, hanno avuto per la prima volta la possibilità di emigrare e di proseguire la carriera nei ricchi campionati occidentali: ma tale passaggio risulta in molti casi traumatico. Si aggiunga infine una discreta dose di sfavori arbitrali, e quindi l’esito molto deludente della spedizione sovietica non può costituire una grossa sorpresa.
Nella partita contro la Romania, l’URSS subisce il primo gol avversario sul finire del primo tempo, quando Lacatus sfrutta a dovere un buco della difesa sovietica. I romeni raddoppiano su rigore – sempre con Lacatus – assegnato per un fallo di mano che in realtà è stato commesso almeno un metro e mezzo fuori dall’area. La partita contro l’Argentina è una sorta di spareggio. Arbitra lo svedese Fredriksson, lo stesso direttore di gara della mitica sfida tra sovietici e belgi nel 1986, e dei gol segnati dal Belgio in presunto fuorigioco. Durante il primo tempo, sullo zero a zero, Maradona (memore come tutti quanti, salvo l’arbitro, del gol di pugno realizzato nel Mondiale precedente) respinge con la mano una conclusione sovietica destinata a infilarsi in rete. Fredriksson è sulla linea di fondo, sembra impossibile che non l’abbia visto; ma così è, e lascia proseguire il gioco. Lì finisce il Mondiale sovietico – e nel contempo inizia quello argentino. L’URSS in due partite ha preso quattro reti, senza riuscire a segnarne nemmeno una. Il quattro a zero che i sovietici rifilano al Camerun già qualificato è inutile alla luce del pareggio concluso tra argentini e romeni.
La formazione sovietica gioca la sua ultima partita a Cipro il 13 novembre 1991, poi diventa per breve tempo CSI e poi Russia. Il giorno di Natale dello stesso ’91 la bandiera rossa è ammainata dal Cremlino; l’Unione Sovietica termina la sua controversa storia con la quale il genere umano dovrà, volente e nolente, confrontarsi ancora per parecchio tempo. Ma alcune partite di calcio, più ancora di quelle già citate, sono emblematiche della vicenda storica sovietica. In esse mito e verità si mischiano in modo ormai inestricabile. Nella Leningrado assediata dai nazisti per novecento giorni giorni, dal settembre ’41 al maggio ’44, stremata, affamata, devastata, la formazione locale della Dinamo disputa tre partite dimostrative contro rappresentative militari e di fabbrica2)Mario Alessandro Curletto, I piedi dei soviet, il melangolo, 2010. Serviranno da esempio per sollevare il morale delle truppe al fronte e dei civili rimasti in città. A Kiev, nell’agosto del ’42, una rappresentativa locale denominata FC Start sfida in due occasioni una formazione formata dagli occupanti tedeschi. Coraggiosamente la Start vince entrambi gli incontri. Diversi membri della formazione sovietica moriranno di lì a breve nelle prigioni e nei lager nazisti. Dopo la guerra, la storia della partita della morte diventa mito, contribuendo alla nascita di racconti e film (tra i quali Fuga per la vittoria di John Huston, 1981), conditi anche da una certa dose di fantasia. Propaganda, eroismo e calcio.

“Con dolore, con tristezza e con gioia ricorderemo la nostra terra, quando racconteremo ai nostri figli storie che cominciano come fiabe: c’era una volta un paese…” (dal film Underground di Emir Kusturica, 1995).
L’alba degli anni Novanta costituisce un momento straordinario per lo sport di squadra jugoslavo, le cui formazioni mietono successi a ripetizione. Una grandissima nazionale di basket conquista il titolo mondiale del ’90, in Argentina (sebbene ancora senza i pro americani): nell’occasione, proprio al suono della sirena che decreta il trionfo jugoslavo, un tifoso entra sul parquet brandendo la bandiera croata. Divac, giocatore jugoslavo di origine serba, lo affronta strappandogli la bandiera dalle mani, e il gesto segna la rottura del rapporto di amicizia che lo legava a un altro grande protagonista di quella squadra – ma di etnia croata – ovvero Drazen Petrovic (il quale perderà la vita di lì a tre anni a causa di un incidente d’auto). Nella pallanuoto la Jugoslavia è campione del Mondo (’86 e ’91), nonché campione olimpica a Seul. I successi coinvolgono anche il calcio e questo avviene a partire dai livelli giovanili. La selezione jugoslava è campione del Mondo under-20 nel 1987 in Cile, dove Prosinecki, Suker, Mijatovic e Boban disputano uno torneo eccellente, e raggiunge la finale dell’Europeo under-21 nel 1990, sconfitti dall’URSS. Ci sono prospettive davvero interessanti per il pallone jugoslavo.
Nulla di strano quindi che la Jugoslavia torni al Mondiale dopo otto anni, superando come prima classificata e imbattuta un girone non semplice, composto da Scozia, Francia, Norvegia e Cipro. Ma qualcosa nel paese cova e il calcio è una spia del malessere montante.
Il 13 maggio 1990, allo Stadio Maksimir di Zagabria, è in programma la sfida tra la locale squadra della Dinamo e la Stella Rossa Belgrado. Una settimana prima si sono tenute delle elezioni politiche in Croazia che hanno visto il trionfo del partito nazionalista. Franjo Tudjman, ex partigiano ed ex presidente della polisportiva Partizan Belgrado, poi diventato dissidente politico, è eletto presidente del paese. La frangia più estremista del tifo organizzato della Dinamo ha il nome di Bad Blue Boys ed è uno strumento di primo piano del nazionalismo croato. I tifosi della Stella Rossa, altrettanto nazionalisti, annoverano fra i propri capi Zelijko Raznatovic detto Arkan, futuro criminale di guerra. Alcune scaramucce violente si erano già verificate a marzo dell’anno precedente dopo un Partizan – Dinamo, ma quel giorno al Maksimir i durissimi scontri tra i tifosi croati e la polizia federale, che si svolgono direttamente sul terreno di gioco prima dell’incontro, assumono l’aspetto di una vera sommossa. Vengono coinvolti anche alcuni giocatori della Dinamo in campo per riscaldarsi quando esplodono i tumulti, e fra questi c’è un giovane Zvonimir Boban, che scaglia un calcio al volto di un agente e diventa eroe nazionale in Croazia. Davanti allo stadio oggi c’è un monumento che ricorda i caduti della guerra, accompagnato da questa iscrizione: “Ai tifosi di questo club che iniziarono la guerra con la Serbia su questo campo”3)David Goldblatt, The ball is round, Penguin Books, 2007. Non è esatto poiché si giocherà ancora una stagione del campionato jugoslavo, e fra Dinamo e Stella Rossa non accadrà alcunché; ma nel settembre dello stesso anno, durante Dinamo – Partizan, i tifosi irrompono in campo chiedendo la nascita della federazione calcistica croata, e un’invasione di campo dei tifosi si ripete anche durante Hajduk – Partizan. Pochi giorni prima del Mondiale italiano, sempre a Zagabria, la nazionale jugoslava è impegnata in amichevole contro l’Olanda e viene pesantemente fischiata dalla maggioranza dei tifosi sugli spalti.
Il padre-padrone della Jugoslavia socialista, il maresciallo Tito, è morto il 4 maggio di dieci anni prima. Quel giorno si giocava Hajduk Spalato – Stella Rossa Belgrado. L’Hajduk, campione jugoslava in carica, non è una squadra come le altre: fondata prima della guerra, durante la resistenza diventa la squadra ufficiale dell’esercito di liberazione e disputa alcune amichevoli nei territori liberati dagli alleati, tra le quali un incontro giocato a Bari il 23 settembre del ’44 contro una rappresentativa dell’esercito britannico di fronte a quarantamila spettatori. A sostegno dell’Hajduk viene fondato nel 1950 il primo esempio di tifoseria organizzata in Europa, sotto il nome di torcida. Diventerà la formazione in grado di opporsi idealmente alle squadre di apparato – un po’ come la Spartak nel calcio sovietico. Durante il primo tempo della partita giunse la notizia del decesso del presidente. L’incontro fu interrotto e i giocatori si allinearono a metà campo, mentre il pubblico iniziava a intonare inni in memoria di Tito. Molti piansero. “Chi dice che non stava piangendo per Tito, mente”, ricorda Durovski, giocatore della Stella Rossa4)Charles Ducksbury, Hajduk Split v Crvena Zvezda (abandoned), The Blizzard n. 19. Vennero interrotte le partite anche a Zagabria e Sarajevo. Negli anni successivi il delicato equilibrio nel mosaico di nazioni, etnie e religioni sarebbe andato progressivamente in pezzi, aggravato dalle difficoltà economiche e dalle ingerenze provenienti da potenze straniere. Il demone dell’estremismo nazionalista prese il sopravvento.
La nazionale jugoslava di calcio ovviamente è formata da giocatori provenienti da varie parti del paese, e tutti quanti sono concordi nel ricordare come tra di loro non sorse il minimo problema di ordine politico o etnico durante il campionato del Mondo. Una buona fetta dei giocatori convocati è in forza a squadre straniere, come gli ottimi centrocampisti Susic e Katanec, e un’altra buona fetta proviene dal blocco della Stella Rossa. Il club di Belgrado domina il campionato in patria e l’anno dopo il Mondiale vincerà una storica Coppa dei Campioni sul terreno dello stadio di Bari. La finale, che li vede contrapposti ai favoriti francesi dell’Olympique Marsiglia, si conclude ai calci di rigore – dopo due ore che definire noiose è dir poco. Ci sono alcuni giovani di quella Stella Rossa che saranno protagonisti nel torneo italiano e nel calcio degli anni a seguire. Dejan Savicevic, 23 anni, detto il Genio, di ruolo centrocampista avanzato o seconda punta: ha dribbling e inventiva adeguati al suo appellativo, ma altresì una scarsa propensione al rispetto dei ruoli e alle consegne; porterà a termine una carriera incostante ma nel complesso di successo, segnata da periodi di autentica grandezza e momenti di pausa. Dragan Stojkovic, 25 anni, regista e autentico leader della nazionale jugoslava: definito in modo un po’ troppo precipitoso il Maradona dell’Est, lascia la Stella Rossa nell’anno del trionfo europeo per accasarsi proprio all’Olympique; in finale entra negli ultimi minuti, rifiuta di presentarsi al dischetto per i rigori finali e ammette di avere anche gioito per la vittoria dei suoi ex compagni5)Andrew McKirdy, Intervista a Dragan Stojkovic, The Blizzard n. 2. Il resto del suo percorso calcistico sarà deludente, anche a causa di un pesante infortunio ai legamenti del ginocchio, ma in Italia gioca uno splendido Mondiale. Robert Prosinecki, 21 anni, centrocampista: sarà eletto il miglior giovane del torneo. È una nazionale già forte, ma che in prospettiva con ogni probabilità sarebbe diventata devastante e potenzialmente in grado di rivaleggiare alla pari con le squadre migliori al mondo, grazie all’emergere e al consolidarsi a breve di altri talenti quali Mihajlovic, Boban, Jugovic, Mijatovic, Suker, Boksic.
Oltre tutto, sulle spalle della compagine jugoslava durante il Mondiale pesa l’assenza di organizzazione poiché la federazione è già avviata al caos, in parallelo alle altre strutture federali; i giocatori sono abbastanza liberi di lasciare il ritiro quando vogliono e di passare il tempo con fidanzate, famiglie o come più li aggrada6)Alex de Llano, El penalti que resquebrajò un pais, Revista Libero n. 23. L’esordio con la Germania Ovest non è dei più semplici, si tratta di una delle bestie nere degli jugoslavi (vedi le sconfitte patite nei Mondiali del ’54 e del ’74, oppure nel corso dell’Europeo casalingo datato 1976), nonché di una pretendente al titolo. E in effetti i giocatori jugoslavi ne escono con le ossa rotte: quattro a uno – partita mai davvero in discussione e sconfitta senza appello. Il torneo sembra non promettere molto per la nazionale degli slavi del sud. Ma riescono a riprendersi. Ottengono una vittoria importante e meritata sulla temibile Colombia, contro la quale va ancora in gol Jozic (ha già segnato ai tedeschi, nonostante sia un difensore) su assist di Susic, Lo stesso Susic, liberato in area da Stojkovic, prende il palo della porta avversaria; poi Hadzibegic potrebbe raddoppiare su calcio di rigore, però si fa parere il tiro. L’episodio non sarà di buon auspicio ma al momento nessuno lo sa. Nella terza partita la Jugoslavia regola la debole selezione degli Emirati Arabi Uniti con quattro reti (Susic, doppietta di Pancev, Prosinecki). Galvanizzati da due successi, gli slavi approdano agli ottavi.
Qui li attende la Spagna, una nazionale fondata sul blocco del Real Madrid e nelle cui fila svettano le personalità di Martin Vazquez, Michel (già autore di quattro gol, tre dei quali rifilati alla Corea del Sud) e Butragueno. Gli spagnoli hanno destato qualche perplessità nella prima fase, ma hanno chiuso in crescendo e sono comunque favoriti. La loro prima partita del girone, contro l’Uruguay, è terminata zero a zero, ma la Spagna ha seriamente rischiato di perdere e deve inoltre ringraziare l’uruguaiano Ruben Sosa che a venti minuti dalla fine ha spedito al cielo un calcio di rigore. Poi le furie rosse si sono imposte sui coreani del sud e hanno chiuso il girone in testa battendo il Belgio nella rivincita del quarto di finale di quattro anni prima.
L’equilibrio contraddistingue il primo tempo dell’ottavo di finale. La Spagna ci prova con Julio Salinas, un paio di volte, e con Butragueno, mentre per la Jugoslavia Pancev ha una buona opportunità e allo scadere Zubizarreta salva su Vujovic. Nella ripresa è invece la formazione spagnola a prendere nettamente il comando delle operazioni: Martin Vazquez conduce i suoi e si ritrova sui piedi due buone opportunità, non sfruttate; Ivkovic, l’estremo jugoslavo, para un colpo di testa ravvicinato di Gorriz; Butragueno è dimenticato dalla difesa avversaria e coglie il palo di testa. Come talvolta accade, il predominio non concretizzato è preludio al gol avversario. A tredici dal termine, su una palla spiovente in area di rigore, Stojkovic compie un capolavoro: finta il tiro al volo e manda a vuoto il difensore, poi controlla e infila il portiere in uscita. Ma la Spagna non ci sta e nei pochi minuti che mancano prima reclama un rigore non assegnato, poi pareggia con Julio Salinas, che deve solo spingere in rete un assist di Martin Vazquez.
Uno a uno al novantesimo e quindi tempi supplementari. A due minuti dal via c’è una punizione per la Jugoslavia: calcia Stojkovic, splendidamente, e la palla finisce in rete, regalando il nuovo vantaggio alla Jugoslavia e marcando a lettere indelebili l’incontro con il proprio nome. La Spagna non reagisce, gli jugoslavi sfiorano il terzo gol con Savicevic in contropiede. Finisce due a uno e la Jugoslavia conquista i quarti di finale del campionato del Mondo. Non è ancora il miglior risultato nella storia della nazionale jugoslava, che in due occasioni ha già raggiunto le semifinali del Mondiale (nel ’30 e nel ’62). Ma entrare fra le prime quattro al Mondo in questa fase storica e in queste condizioni avrebbe un significato enormemente superiore rispetto al passato.
“Poteva diventare l’incontro più grande, aveva tutto per esserlo, tutte le caratteristiche. Ma la partita fu giocata nel momento sbagliato: avevamo troppi problemi e la squadra non poteva mantenere la concentrazione. E quando i giocatori non possono confidare sulle loro qualità, è davvero arduo giocare”7)Jonathan Wilson, Intervista a Ivica Osim, The Blizzard n. 7. In questi termini il tecnico jugoslavo Ivica Osim descriverà anni dopo il clima che avvolge la selezione jugoslava alla vigilia del quarto di finale. Osim ricorda inoltre che poche ore prima dell’incontro Srecko Katanec, un giocatore molto importante per la squadra, lo pregò di non schierarlo in campo perché aveva ricevuto delle minacce e temeva quindi per la propria incolumità una volta tornato nella sua città, Lubiana. La nazionale jugoslava che deve scendere in campo per giocarsi l’accesso alle semifinale è sospesa a mezz’aria, come il paese che rappresenta.
Nell’anno che segue il Mondiale, la Jugoslavia si qualificherà per la fase finale dei campionati europei, ma verrà esclusa a causa degli eventi bellici che sconvolgono il paese. Quel torneo avrebbe potuto vincerlo, la nazionale jugoslava; ma ormai è il meno. Ha scritto Ryszard Kapuscinski in Imperium: “Tre sono i flagelli che minacciano il mondo. Primo, la piaga del nazionalismo. Secondo, la piaga del razzismo. Terzo, la piaga del fondamentalismo religioso. Tre pesti unite dalla stessa caratteristica, dallo stesso comune denominatore: la più totale, aggressiva e onnipotente irrazionalità. Impossibile penetrare in una mente contagiata da uno di questi tre mali. Nella testa di un tipo così arde il rogo sacro che aspetta le sue vittime. Qualunque tentativo di fare un discorso pacato risulterà inutile”. Sarà il triste destino della Jugoslavia, un paese che forse non è mai davvero esistito ma è stato soltanto sognato.
1 giugno 2019
immagine in evidenza: La Jugoslavia campione del Mondo under-20 nel 1987 – thesefootballtimes.co
References
1. | ↑ | Vedi infra Messico, 1986: III. Come fu sconfitto il calcio del Duemila |
2. | ↑ | Mario Alessandro Curletto, I piedi dei soviet, il melangolo, 2010 |
3. | ↑ | David Goldblatt, The ball is round, Penguin Books, 2007 |
4. | ↑ | Charles Ducksbury, Hajduk Split v Crvena Zvezda (abandoned), The Blizzard n. 19 |
5. | ↑ | Andrew McKirdy, Intervista a Dragan Stojkovic, The Blizzard n. 2 |
6. | ↑ | Alex de Llano, El penalti que resquebrajò un pais, Revista Libero n. 23 |
7. | ↑ | Jonathan Wilson, Intervista a Ivica Osim, The Blizzard n. 7 |