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Introduzione

Prendiamo una fotografia. In basso c’è lo scorcio di un campo di calcio. Nella parte superiore dell’immagine inizia la tribuna, e sulla tribuna è evidente che nessuno è ormai in grado di restare fermo. A destra si vede un pezzo di porta, la rete e un palo. In primo piano nella foto c’è un uomo vestito di nero, biondo, capelli sul collo, con un numero uno sulla schiena. È in ginocchio e ha le mani sopra la testa. Ma il viso guarda verso il basso. Pare affranto, esasperato ed esausto, non ce la fa più. Il corpo è proteso in avanti e, con ogni probabilità, fra un attimo il corpo cadrà a terra, di pancia, la faccia sull’erba. Alla sua sinistra c’è un altro uomo, spostato, un po’ più indietro. È in piedi e anch’egli ha le braccia al cielo. Ma, a differenza del primo, è in estasi. Sorride. Il corpo è inarcato all’indietro; anche questo uomo sarebbe finito a terra, di schiena, se non ci fosse stato un altro uomo ancora a sorreggerlo, ad abbracciarlo. E ad urlargli in faccia per la felicità. I due uomini abbracciati hanno i pantaloncini bianchi e la maglietta colorata – la foto è in bianco e nero. Ha invece i pantaloncini neri e la maglia bianca un quarto uomo, alla destra di quello in ginocchio. Cammina dritto verso la porta, lo sguardo verso il basso e perso nel vuoto; sembra avere un braccio appeso al collo. Sullo sfondo, poi, un altro uomo vestito di nero, ma un po’ troppo in carne per essere un calciatore, guarda la scena e indica con il braccio sinistro il centro del campo. Altre figure sparse di giocatori si notano, fra i quali uno, pantaloncini bianchi e maglia colorata, che corre braccia con le braccia levate. Il pallone non c’è nella foto. Il pallone è dentro la rete.

Città del Messico, 17 giugno 1970, tardo pomeriggio. Un minuto e otto secondi prima che venisse scattata la fotografia, il giocatore che esulta con il corpo inclinato all’indietro, e che si chiama Gianni Rivera, è appoggiato al palo della porta opposta, mentre il portiere della propria nazionale, Albertosi, lo sta ricoprendo di insulti. Gli avversari hanno appena pareggiato, di testa. Rivera era sulla linea di porta, poteva allungare la gamba per respingere la palla abbastanza agevolmente, ma ha esitato, ed è stato gol. Il sesto della partita, la semifinale del Mondiale: Italia – Germania Ovest. Uno a zero per l’Italia, poi uno a uno allo scadere dell’incontro, anzi, nel recupero. Supplementari, due a uno per la Germania Ovest, pareggio, tre a due per l’Italia. Il tre a due l’ha segnato Gigi Riva, l’uomo che sorregge Rivera. Ora, tre a tre. Da trentadue anni l’Italia non gioca una finale della Coppa del Mondo.

Rivera ha vinto il campionato europeo con l’Italia due anni prima. L’anno precedente ha vinto la Coppa dei Campioni per la seconda volta. Ma non metterà mai le mani sul Mondiale, anche se in quel momento non lo sa. Sa che vuole rimediare all’errore. Riceve la palla subito alla ripresa del gioco, a metà campo, vorrebbe scartare tutti gli avversari e arrivare in porta, ma cede a più miti consigli. Passa la palla a un compagno, De Sisti, che la dà a Facchetti, il quale lancia sulla sinistra. Qui c’è Boninsegna, l’uomo che nella foto corre esultando sullo sfondo. Non doveva neanche esserci al Mondiale, ma l’infortunio di un compagno gli ha consegnato il posto. Segnerà in finale il gol del momentaneo pareggio. Inutilmente, vincerà il Brasile. Boninsegna corre sulla fascia, inseguito invano da un difensore tedesco. Entra in area, e anziché fare un cross, passa la palla rasoterra all’indietro, verso il centro dell’area. L’inquadratura televisiva si allarga. In mezzo all’area c’è Rivera. Di fonte c’è l’uomo in ginocchio nella fotografia, Sepp Maier, portiere della Germania. Sepp Maier si butta sulla sua sinistra, Rivera calcia alla sua destra. La palla entra in rete.

Franz Beckenbauer, difensore della nazionale tedesca, va a raccogliere il pallone nella propria porta. È l’uomo con il braccio a collo. Si è lussato una spalla durante la partita, ma è rimasto in campo, strenuamente. Quattro anni prima era sul terreno di Wembley, quando la Germania Ovest aveva perso il titolo mondiale contro l’Inghilterra. Di lì a breve, assieme a Sepp Maier, il portiere distrutto con il volto sull’erba, vincerà tutto.

Il gol di Rivera è l’ultimo dell’incontro e definisce il risultato di quella che sarà ricordata come la partita del secolo. Quattro a tre. Un partita consegnata al mito in eterno. Al fischio finale, e nonostante sia notte fonda, milioni di italiani scendono nella piazze e nelle strade. Sventolano i tricolori, in quegli anni di contestazione, cortei politici, scontri con la polizia, bandiere rosse. Forse sono le stesse persone.

Non solo. È la prima volta nel secondo dopoguerra che Italia e Germania si incrociano sul campo per una partita così importante. E avvia l’epopea delle sfide fra le due nazionali: semifinale mondiale ’70; finale mondiale ’82; semifinale mondiale 2006. Ogni generazione di italiani avrà il suo Italia – Germania da ricordare. Da quel pomeriggio all’Estadio Azteca, e sino al momento in cui scrivo, le due nazionali si aggiudicheranno complessivamente cinque titoli di campione del mondo. L’Italia è all’inizio del suo secondo grande ciclo storico vincente – il primo è stato quello degli anni trenta – che terminerà nel 2006. La Germania Occidentale è quasi all’apice del suo primo grande periodo di vittorie (1954 – 1990). Il secondo ciclo, come Germania senza l’attributo geografico, è cosa recente.

È una fotografia, quindi, ma non è solo una fotografia. È un’immagine delle mura di Ilio nel ventesimo secolo. Epica, etica, politica ed estetica – del gioco del calcio.

incipit Coppa del Mondo FIFA

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