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Germania Ovest, 1974
III. Ancora su calcio e potere

L’esordio della nazionale italiana, finalista in Messico quattro anni prima, al campionato del Mondo è in programma contro la squadra di Haiti. Non è la prima volta che una nazionale caraibica prende parte alla fase finale di un Mondiale, ma quasi: l’unico precedente è accaduto con Cuba nell’edizione del ’38. Sabato 15 giugno 1974, alle sei del pomeriggio, le squadre scendono in campo all’Olympiastadion di Monaco. L’Italia è nettamente favorita, per il blasone e il tasso tecnico, ovviamente, ma anche perché non incassa gol dal settembre di due anni prima. La porta di Dino Zoff è rimasta infatti inviolata per ben dodici partite. Nel primo tempo dell’incontro, però, il portiere che si mette maggiormente in evidenza è quello haitiano, Henri Francillion, autore di almeno cinque interventi decisivi. L’Italia preme invano. Poi a inizio ripresa, tramite un’azione di contropiede da manuale, l’attaccante haitiano Sanon brucia Spinosi e infila Zoff, ponendo fine all’imbattibilità del portiere azzurro dopo 1143 minuti. Sanon ad Haiti milita in una squadra che si chiama Don Bosco, fondata proprio da immigrati italiani. L’incombente incubo di una nuova Corea grava sulle spalle azzurre solo una manciata di minuti, il tempo per consentire a Rivera di riportare l’incontro sul pari. Arrivano in seguito altri due gol dell’Italia che fissano il definitivo tre a uno.

Però i sei minuti che intercorrono tra il gol di Sanon e il pareggio di Rivera rappresentano in assoluto il momento di maggior gloria del calcio haitiano. Nella parte occidentale dell’isola di Hispaniola esplodono immediatamente i festeggiamenti, pare altresì con vittime causate da colpi d’arma da fuoco. Ma come è nato l’estemporaneo successo del calcio haitiano? Grazie – anche – alla volontà di un’efferata e feroce dittatura.

Francois Duvalier (detto Papa Doc) controlla Haiti con il pugno di ferro dal 1957. La sua milizia armata personale, detta Tonton Macoutes, terrorizza la popolazione. All’ennesimo dittatore caraibico non manca inoltre l’indispensabile appoggio di Washington, stante l’esplicito anticomunismo che lo caratterizza. Papa Doc è appassionato di pallone e nel corso degli anni sessanta ritiene che la crescita del calcio haitiano possa rafforzare il suo potere – senza nel contempo trascurare o tanto meno abbandonare lo strumento della violenza politica. Investe pertanto denaro pubblico nel settore e la nazionale haitiana sfiora l’accesso alla fase finale dei Mondiali già nell’edizione del 1970. Raggiunge infatti la finale del raggruppamento centro-americano contro El Salvador. All’andata, a Port Au Prince, Haiti viene sconfitta due a uno. Pare tutto perduto, ma, al di là delle previsioni, riesce a vincere in trasferta, e per tre a zero. Non è però applicata la regola della differenza reti e pertanto è necessario uno spareggio. A Kingston, in Giamaica, l’otto ottobre del 1969, si impone El Salvador grazie a un gol segnato quasi al termine dei supplementari. El Salvador quindi parteciperà ai Mondiali. È dovuto passare addirittura attraverso una guerra per raggiungere questo obiettivo. Infatti, la semifinale del torneo ha posto di fronte El Salvador all’Honduras. Fra i due Stati c’è tensione da tempo e la sfida calcistica esacerba il clima a livelli parossistici. Alle elites dominanti dei due poverissimi Paesi centroamericani senza dubbio il calcio interessa assai poco, però approfittano del clima instauratosi per soffiare ulteriormente sul fuoco e consolidare la presa sulle rispettive popolazioni. Scoppia quindi una breve e intensa guerra che dura circa quattro giorni, miete migliaia di vittime e lascia la situazione di confine assolutamente identica a quella prebellica. Grazie alla penna di Ryszard Kapuscinski, l’evento passerà alla storia come la prima guerra del calcio mai combattuta.

Duvalier muore nel 1971 e lascia la guida di Haiti al figlio neanche ventenne, Jaen-Claude, detto Baby Doc. Questo Baby Doc in un primo momento pare poco propenso a seguire le questioni di governo; consente quindi che gli affari di Stato siano gestiti dalla madre Simone Ovide e dal gerarca Luckner Cambronne. È maggiormente attratto da altre faccende, quali il gentil sesso, l’accumulo di ricchezze, e anche il calcio. Prosegue e approfondisce quindi la politica di sviluppo del calcio haitiano già lanciata dal padre. La Concacaf, la federazione calcistica che comprende il Nord America, il Centro America e i Caraibi, decide di far svolgere il girone finale di qualificazione per il Mondiale 1974 in un unico torneo. La competizione vale anche come campionato della Concacaf e soltanto la squadra vincitrice andrà ai Mondiali. Il regime haitiano ottiene che il torneo si giochi a Port Au Prince, la capitale di Haiti. Le partite si disputano tra il 29 novembre e il 18 dicembre 1973 in un clima di estrema passione popolare, frammista ad autentica intimidazione e pura follia – si narra di giocatori affrontati e minacciati dai tifosi nei dintorni dello stadio. Vi partecipano sei squadre, che si sfidano in un girone all’italiana. Il Messico è il naturale favorito; Trinidad e Tobago, da par suo, presenta un’ottima formazione ed è una seria pretendente per il titolo. Vincono invece i padroni di casa, a sorpresa – diciamo così. Nell’incontro che vede Haiti opposta a Trinidad e Tobago, l’arbitro salvadoregno Henriquez annulla a quest’ultimi la bellezza di quattro gol presumibilmente regolari. Henriquez sarà subito rispedito a casa, ma Trinidad e Tobago, misteriosamente, non presenta ricorso1)Simon Burton, Haiti stun Dino Zoff’s Italy, The Guardian. I caraibici defraudati battono in seguito il Messico e spianano così ad Haiti la strada per la Coppa del Mondo. Il commissario tecnico che qualifica la nazionale haitiana ai Mondiali è un italiano, si chiama Ettore Trevisan ed è uno dei primi tecnici italiani giramondo. Quando accetta l’incarico ad Haiti, l’ambasciata lo invita esplicitamente a non interessarsi delle faccende politiche interne, pena il rischio di correr guai piuttosto seri. In vista dei Mondiali viene però sollevato dall’incarico: lo straordinario evento rappresentato dalla partecipazione alla fase finale della Coppa richiede infatti l’esclusivo protagonismo di haitiani. Quale nuovo tecnico è nominato il suo vice, Antoine Tassy.

In Germania Ovest la nazionale haitiana vive in una sorta clausura, strettamente accompagnata dai pretoriani del regime. Dirà Sanon: “Lui (Baby Doc, ndr) ci fece esplicitamente capire che quella era la sua squadra, e che grazie ai suoi soldi eravamo arrivati sin lì. Era più accessibile del padre, veniva agli allenamenti e telefonava a me e ad altri giocatori per verificare che tutto procedesse bene; però alcuni dei ragazzi ritenevano pericoloso avere Jean Claude troppo vicino alla squadra. Sebbene fosse giovane, si comportava pur sempre come un vecchio patriarca, che ci dava sì la vita, ma che poteva anche punirci severamente in qualsiasi momento e a puro piacimento2)Jon Spurling, How vodoo and gangsters took Haiti to the World Cup, Sabotage Times. La partita con l’Italia si risolve in una sconfitta tutto sommato onorevole e, soprattutto, con gli occhi ammirati del mondo rivolti alla squadra che ha interrotto la lunga imbattibilità di Zoff e della difesa azzurra. Prima del secondo incontro, previsto contro la Polonia, accade però un fatto. Ernst Jean-Joseph, difensore di Haiti, risulta positivo al controllo antidoping per uso di fendemetrazina, uno stimolante. Il giocatore dichiara pubblicamente: “Ho l’asma e il mio dottore di Port Au Prince mi ha prescritto un sacco di pillole. Non avevo idea che fosse illegale. Il medico della squadra non mi ha avvisato al riguardo”. Ma Patrick Hugeux, medico della nazionale haitiana, in conferenza stampa smentisce il giocatore: no, non c’entra niente con l’asma, l’ha presa apposta per l’incontro. E non contento, descrive Jean-Joseph come una sorta di minus habens (“il ragazzo non ha un livello intellettuale sufficiente per capire cosa ha fatto o cosa ha detto”). Jean-Joseph viene prelevato a forza dall’albergo in cui dimora la squadra, picchiato dagli sgherri della federazione/dittatura haitiana davanti agli sguardi allibiti di alcuni giornalisti e caricato su di un aereo diretto verso la madrepatria3)Simon Burton, cit.. Il volo transoceanico non deve essere stato dei più piacevoli per il povero Jean-Joseph. Tristi tropici.

I giocatori di Haiti sono sconvolti dall’accaduto. Contro la Polonia perdono sette a zero – e i polacchi con ogni probabilità evitano di infierire in maniera ancora più marcata, stante che al trentaquattresimo del primo tempo ne hanno infilate già cinque, di reti. Ernst Jean-Joseph, probabilmente imbeccato dallo stesso Duvalier, telefona da Haiti ai suoi compagni di squadra, avvisandoli di essere ancora vita4)Jon Spurling, cit.. La squadra si tranquillizza, perde comunque la terza partita – quattro a uno a favore dell’Argentina – e conclude così l’avventura ai Mondiali. È stata sinora l’unica presenza della squadra caraibica nella fase finale della Coppa. Haiti sfiora però la qualificazione anche alla successiva edizione dei Mondiali: giunge seconda infatti nel torneo della Concacaf, dietro il Messico, padrone di casa. Sulla panchina haitiana siede un promettente allenatore tedesco, Sepp Piontek.

Diversi giocatori haitiani sfrutteranno il palcoscenico mondiale per ottenere dei contratti all’estero. Sanon e Jean Joseph giocheranno per alcuni anni nella Nasl, la lega statunitense all’epoca in voga. Francillion firma un contratto con il Monaco 1860, ma resisterà poco in Germania. Ma il giocatore haitiano che ha fornito il maggior contributo alla storia del calcio non è uno dei reduci della spedizione tedesca. Si chiama Joe Gaetjens ed ha giocato soltanto una partita con la nazionale haitiana, nel 1953 e, sempre a livello internazionale, ha giocato tre partite con la nazionale degli Stati Uniti d’America. Già, perché Gaetjens, nato nel 1924, lasciò l’isola di Hispaniola a ventitré anni, quando si trasferì a New York per motivi di studio. Appassionato di calcio, iniziò a giocare e a mettersi in luce in una formazione locale chiamata Brookhattan, mentre lavorava in un ristorante. Nel 1950 c’erano i Mondiali in Brasile e all’epoca non si andava molto per il sottile nel tesserare i giocatori. Gaetjens non aveva la cittadinanza a stelle strisce, ma fu sufficiente la promessa di acquisirla a breve per essere inserito nella selezione. Le sole tre partite che Gaetjens disputò con gli USA furono proprio durante la Coppa. Una di queste partite, la seconda, oppose gli statunitensi alla nazionale inglese: i maestri del gioco, proprio loro, appena usciti dal superbo isolamento calcistico nel quale si erano rinchiusi e presenti per la prima volta al Mondiale. In Inghilterra il professionismo aveva preso piede sin dagli anni ottanta del diciannovesimo secolo; di fronte ai maestri scendeva in campo una squadra composta da dilettanti. Morale della favola, vinsero gli Stati Uniti per uno a zero. Quel risultato rappresentò la più grande sorpresa non solo del gioco del calcio, ma probabilmente dell’intera storia dello sport moderno. Il gol americano lo realizzò l’haitiano Joe Gaetjens.

Gaetjens alla fine non prese la cittadinanza americana. Viaggiò in Europa, poi decise di tornare ad Haiti, dove venne accolto come un eroe nazionale. Mise su famiglia, moglie e tre figli. Lo descrivono come una brava persona, gioviale, generosa. Non si interessava di politica ma, come inevitabilmente accade, la politica si interessò di lui. Due dei suoi fratelli erano oppositori del regime di Duvalier padre e, ad Haiti, era un motivo più che sufficiente per subire una ritorsione. L’otto luglio del 1964 Gaetjens fu prelevato dalla propria casa dai Tonton Macoutes. Pare fu condotto a Fort Dimanche, luogo tristemente noto come centro di tortura e di morte del potere haitiano. Joe Gaetjens scomparve e da quel giorno nessuno mai più lo rivide5)Alison Gee, Joe Gaetjens – the footballers that disappeared, BBC News.

Brasile-Zaire - ignoredbypep.wordpress.com
Brasile-Zaire – ignoredbypep.wordpress.com

Gelsenkirchen, Parkstadion, 22 giugno del ’74. È in corso la terza partita del girone B, Brasile – Zaire. Mancano cinque minuti al termine e viene fischiata una punizione a favore dei sudamericani. Il punto di battuta è posto alcuni metri al di fuori dell’area avversaria. Appena l’arbitro Rainea fischia l’esecuzione del tiro, o poco prima, non è chiaro, un difensore della squadra africana esce di corsa dalla barriera, come un forsennato, e molla un calcione tremendo alla palla, che sfiora la testa di Rivellino e si perde in lontananza. I calciatori brasiliani sono basiti, poi scoppiano a ridere; Jairzinho si rivolge agli avversari chiedendo se il loro compagno sia impazzito. Ma non sembra che gli zairesi abbiano molta voglia di condividere l’ilarità generale. L’arbitro ammonisce il giocatore, che pare dire: “Ok, se proprio devi farlo dammi l’ammonizione, mi adeguo”. La punizione al contrario di Joseph Mwepu Ilunga, questo il nome del difensore zairese, passa alla storia sia come simbolo dell’arretratezza del calcio africano, sia come uno degli episodi di gioco più divertenti di sempre. Perché ridere, fa ridere, c’è poco da obiettare. Ma col tempo si comprenderà che il contesto all’interno del quale l’evento si determinò non era così divertente. E che quella corsa disperata non era la conseguenza di una mancata comprensione delle regole del gioco, bensì dell’esercizio di un potere, nella sua accezione più bieca e autoritaria.

Lo Zaire è il Congo. Lo è stato prima e lo è nuovamente adesso – precisamente la Repubblica Democratica del Congo, quello con capitale Kinshasa. Prima di che? Dell’avvento al potere di Mobuto Sese Seko, il cui nome originario, a sua volta, è Joseph Desiré Mobutu. È una storia in cui niente è ciò che appare, questa. Il Congo è uscito dalla colonizzazione europea formalmente nel 1960; di fatto, però, la sua posizione e le sue risorse continuano a stimolare l’appetito delle potenze mondiali. Patrice Lumumba, primo capo di Stato del paese e fautore di un’autentica indipendenza nazionale, viene brutalmente assassinato. Il Congo è nel caos, la regione orientale del Katanga, ricca di minerali, proclama la secessione, e intorno alla metà degli anni sessanta si rafforza il potere del generale Mobutu. Instaura una feroce dittatura personale appoggiata dai governi occidentali, Francia in primis, ma anche Stati Uniti, che progressivamente sostituiranno le vecchie potenze europee nel controllo dell’area. Per il potere di Mobutu non c’è contraddizione tra indipendenza nazionale e piena libertà di azione alle multinazionali straniere. Quello che impone, però, è il ritorno formale e simbolico alle tradizioni africane: negli abiti, ad esempio. Oppure nei nomi, e per tale ragione rinomina il paese Zaire, che in realtà è la semplice traslitterazione portoghese di un termine locale usato per indicare il fiume. E nel processo di costruzione dell’autentica, o presunta tale, identità nazionale, il regime utilizza anche il calcio.

Tra la fine degli anni sessanta e l’inizio dei settanta, il governo di Mobutu investe soldi e sforzi affinché la nazionale e in generale il calcio zairese siano in grado di emergere. Ai migliori giocatori è vietato l’espatrio. Alcuni calciatori in forza a formazioni straniere, in particolare nell’ex metropoli coloniale del Belgio, sono convinti con lauti assegni a tornare in patria. Il TP Mazembe, formazione di Lubumbashi, conquista due Coppe dei Campioni africane nel ’67 e nel ’68, mentre nelle due edizioni successive è sconfitta in finale. Anche questa formazione ha dovuto cambiare il proprio nome: il prefisso TP (Tout Puissant, come dire onnipotente) è rimasto, ma la parola Mazembe ha sostituito il termine usato in precedenza, Englebert, cioè il nome di una fabbrica belga di pneumatici. La finale del 1967 ha un epilogo particolare, piuttosto rilevatore del carattere in parte ancora improvvisato del calcio africano, almeno sul versante organizzativo. La squadra congolese affronta l’Asante Kotoko, del Ghana. Entrambi gli incontri, andata e ritorno, finiscono in parità. Il regolamento della competizione non è molto chiaro su come procedere in casi del genere e pertanto la federazione africana opta per una partita di spareggio da disputarsi in campo neutro, in Camerun. Il TP Mazembe però si aggiudica il trofeo a tavolino in quanto gli avversari non si sono presentati in campo. Il motivo è semplice: pare infatti che nessuno si sia preso la briga di avvisarli della partita in programma6)Ian Hawkey, The Flight of the Ravens, The Blizzard n. 11. Il TP Mazembe manterrà comunque col tempo, oltre al nuovo nome, anche ottime tradizioni calcistiche. Nel 2010 sarà la prima squadra non europea né sudamericana a disputare la finale del Mondiale per club, poi sconfitta dall’Inter.

Anche la nazionale zairese raggiunge importanti traguardi. Nel 1968 è campione d’Africa. Batte in finale il Ghana, squadra che ha dominato il calcio africano negli anni sessanta. Rivince il titolo nel ’74, l’anno dei Mondiali. In quell’edizione della Coppa della nazioni africane, lo Zaire sconfigge in semifinale i padroni di casa dell’Egitto ribaltando l’iniziale svantaggio di due reti a zero. In finale supera lo Zambia. La prima partita termina due a due ai supplementari. Nella ripetizione, e questa volta gli avversari vengono avvisati per tempo, lo Zaire vince due a zero. Ndaye Mulamba è capocannoniere del torneo con nove reti. I giocatori tornano in Patria sull’aereo presidenziale e sono accolti da grandi festeggiamenti. Il presidente promette e concede loro diversi benefici. “Mobutu era come un padre per noi”, dichiarerà anni dopo Mwepu – già sentito qualcosa di molto simile.

La squadra si qualifica agevolmente per la Coppa del Mondo in Germania Occidentale. È la prima squadra subsahariana a conquistare il diritto di giocare la fase finale dei Mondiali, la terza africana in assoluto dopo l’Egitto nel 1934 e il Marocco nel 1970. L’allenatore è Blagoje Vidinic, uno jugoslavo, proprio lo stesso tecnico che ha guidato la nazionale marocchina nel corso del precedente Mondiale. Schiera lo Zaire in maniera abbastanza spregiudicata. Gli elementi migliori sono gli attaccanti Ndaye Mulamba e Adelard Mayanga, detto il brasiliano per i suoi dribbling, nonché il portiere Kazadi. La squadra assembla le forze dei due principali club zairesi, il TP Mazembe e l’AS Vita Kinshasa, campione d’Africa nel 1973. Lo Zaire ha una maglia verde con al centro la grossa effige di un leopardo, simbolo del paese da quando Mobutu ha preso l’abitudine di sfoggiare in pubblico copricapi fatti con la pelle di quell’animale. Ecco allora l’esito di quella avventura ai Mondiali.

Prima partita, Zaire – Scozia. Gli scozzesi tornano al campionato del Mondo dopo sedici anni, forti di una compagine niente male. Hanno in rosa cinque giocatori del Leeds United campione d’Inghilterra (Harvey, Bremer, Jordan, Lorimer, McQueen), il giovane Dalgish, oltre ad elementi esperti come Johnstone e Law. Sono inoltre l’unica squadra britannica presente alla fase finale del torneo. Lo Zaire disputa una buona partita, soprattutto in fase offensiva, mentre in difesa lascia parecchio a desiderare. Gli attaccanti zairesi compiono alcuni errori sotto porta davvero marchiani. La Scozia vince due a zero e colleziona altresì due legni; il primo gol è un bel tiro al volo di Lorimer. Il secondo gol scozzese nasce da una punizione: palla in area, difensori letteralmente immobili e Jordan che colpisce di testa nella solitudine totale; la palla potrebbe sbattere contro il portiere zairese se questi non si spostasse di lato giusto quel mezzo metro sufficiente a farla entrare. Negli anni a venire i giocatori africani denunceranno l’atteggiamento razzista tenuto in campo da alcuni scozzesi, in particolare da parte del capitano Bremer7)Simon Kuper, Calcio e potere, Isbn Edizioni, 2008.

Seconda partita, Zaire – Jugoslavia. Bisogna premettere che i giocatori dello Zaire impegnati nel torneo serbavano dentro di sé la concreta speranza di arricchirsi, o almeno di ritagliarsi un tenore di vita migliore, grazie alla partecipazione alla Coppa del Mondo. Invece, prima dell’incontro con gli slavi, vengono avvisati dalla loro federazione che non riceveranno neanche i premi partita promessi in precedenza. Probabilmente li ha intascati al loro posto qualcun altro del giro della nazionale. I calciatori sono furibondi. Minacciano di ritirarsi, poi decidono di giocare ugualmente, ma senza un reale impegno. La gara termina quindi nove a zero per la Jugoslavia, uno dei passivi più ampi della storia dei Mondiali. Sul tre a zero Vidinic sostituisce Kazadi con il portiere di riserva, Tubilandu – piuttosto bassino per fare il portiere – il quale raccoglie dalla rete gli altri sei palloni. In merito alla sostituzione, dopo l’incontro l’allenatore dello Zaire dichiara di aver ricevuto un esplicito ordine proveniente da Lockwa, rappresentante del Ministero dello Sport, e di averlo eseguito. Dal ventesimo del primo tempo lo Zaire è anche rimasto in dieci. L’arbitro ha ricevuto un calcetto da dietro da parte di un giocatore africano e ha identificato l’autore in Ndaye Mulamba. In realtà è stato Mwepu, che lo dice esplicitamente, ma l’arbitro è irremovibile e manda fuori il calciatore incolpevole anziché il reo confesso. Nel frattempo, però, c’è qualcuno a Kinshasa che segue l’incontro e che non sta gradendo affatto la figura barbina rimediata in mondovisione dalla sua squadra di calcio…

Terza partita, Zaire – Brasile. Questo qualcuno è ovviamente l’uomo coi berretti leopardati. Mobutu invia un manipolo delle sue poco raccomandabili guardie presidenziali in Germania, presso l’albergo della nazionale zairese. Gli sgherri del capo spediscono fuori i giornalisti e riuniscono in una stanza i giocatori per dire loro più o meno quanto segue: con il Brasile vi è concesso perdere sino a tre a zero; oltre, non vi conviene tornare in patria se tenete alla vostra incolumità, e anche per le vostre famiglie il soggiorno in Zaire potrebbe diventare davvero poco piacevole. O almeno è quello che si racconta8)Mark Dummett, 1974: Zaire’s show of shame, BBC Sport. Alla formazione brasiliana servono proprio tre gol per avere la certezza di passare il turno, indipendentemente dal punteggio dell’altro incontro giocato in contemporanea, Jugoslavia – Scozia. Nel primo tempo il Brasile passa in vantaggio, quindi Kazadi compie allora una serie di miracoli che mantengono il risultato sull’uno a zero per i verdeoro sino a metà della ripresa. Poi il Brasile raddoppia e infila il terzo gol al minuto settantanove – in questo caso su papera colossale di Kazadi. Ecco quindi che si rivela appieno il motivo per cui, a pochi minuti dal termine, quando lo specialista Rivellino è pronto a battere una punizione da posizione favorevole, Mwepu scappa dalla barriera e scalcia il pallone il più lontano possibile. Perché ha una paura fottuta di prendere il quarto gol. Vuole far passare quei maledetti minuti in tutti i modi possibili, anche quelli più ridicoli. Circola però anche un’altra storia che in parte potrebbe contraddire la spiegazione appena illustrata. Il risultato fra le due squadre, si dice, è stato il frutto di un accordo. Nell’intervallo la delegazione brasiliana si sarebbe infatti presentata negli spogliatoi per discutere con gli zairesi e in seguito l’allenatore Vidinic avrebbe suggerito ai suoi giocatori di non impegnarsi eccessivamente e di congelare il gioco9)Andrew Harding, Africa’s abandoned football legend, BBC News. Sia quel che sia, le immagini televisive della famosa punizione permettono comunque di scorgere sui visi e negli atteggiamenti dei giocatori africani una tensione senza dubbio eccessiva a quel punto dell’incontro. Non sembrano gli attori di una combine; sembrano invece veramente preoccupati – potremmo dire tendenti al terrorizzato – che qualcosa di irreparabile stia per avverarsi. Ma per loro fortuna non si avvera: l’incontro si conclude sul tre a zero per il Brasile.

L’esperienza dello Zaire nella Coppa del ’74 segna, calcisticamente parlando, un deciso passo indietro nella storia del movimento africano. Il calcio dell’Africa si riprenderà subito, a partire dal Mondiale successivo, e da lì inizierà una costante crescita sino all’edizione del 1990. Lo Zaire invece si ritirerà dalle qualificazioni per il Mondiale del ’78. Il calcio non interessa più al potere e i giocatori reduci dal Mondiale tedesco, rei di aver screditato l’immagine del paese e del suo leader, diventeranno quasi dei paria. Molti inizieranno a condurre delle esistenze fatte di povertà e costruite sugli espedienti, sorte tra l’altro condivisa dalla stragrande maggioranza dei loro connazionali. Ricordando il campionato del Mondo, lo stesso Ndaye Mumbala ha detto: “Non è solo il calcio che iniziò ad andare male. L’intero paese stava scivolando verso l’abisso10)David Goldblatt, The ball is round, Penguin Books, 2007. Nel ventennio successivo lo Zaire si avvitò in una spirale di decadenza, povertà estrema e violenza apparentemente senza fine. Nel ’96 scoppiò la prima guerra del Congo, in seguito alla quale Mobutu perse il potere. Poco dopo scoppiò la seconda guerra del Congo, detta anche grande guerra africana (1998 – 2003), un conflitto terribile e devastante quanto misconosciuto in occidente, le cui vittime si contarono nell’ordine dei milioni.

Il 1974 si concluse però con un nuovo tentativo da parte di Mobutu di porre lo Zaire, e di riflesso il proprio potere, sotto i riflettori del mondo attraverso l’utilizzo dello strumento sportivo. Venne organizzato a Kinshasa, allo Stade 20 du Mai, l’incontro di pugilato tra il campione del mondo in carica George Foreman e il grandissimo Mohammed Alì, entrambi di nazionalità statunitense. In questa occasione si può dire che l’obiettivo fu raggiunto. L’incontro, vinto da Alì per knock out dell’avversario all’ottava ripresa, è una delle sfide di pugilato più famose di sempre, e non solo. È diventato uno dei principali eventi sportivi degli anni settanta grazie anche e soprattutto ai suoi significati extra-sportivi: l’organizzazione in un paese africano; la retorica del risveglio negro; la contrapposizione tra bianchi dominatori e popoli oppressi, e la riscossa di questi. L’evento fu preceduto da uno straordinario concerto che riunì alcuni fra i migliori esponenti della black music dell’epoca, come B.B. King, James Brown, Bill Withers, oltre a vari interpreti della musica africana (ad esempio, Miriam Makeba). La sfida Alì – Foreman, passata alla storia come Rumble in the Jungle, fu tutto questo, è vero. Ma fu nel contempo, e in evidente contraddizione con quanto appena espresso, un baraccone propagandistico messo in piedi da un regime sanguinario e finanziato dalle potenze imperialiste occidentali. È impossibile negarlo. In quegli anni, sulle sponde del fiume Congo, niente era davvero ciò che sembrava.

4 ottobre 2018

immagine in evidenza: La nazionale haitiana ai Mondiali del ’74 – storiedicalcio.altervista.org

References   [ + ]

1. Simon Burton, Haiti stun Dino Zoff’s Italy, The Guardian
2. Jon Spurling, How vodoo and gangsters took Haiti to the World Cup, Sabotage Times
3. Simon Burton, cit.
4. Jon Spurling, cit.
5. Alison Gee, Joe Gaetjens – the footballers that disappeared, BBC News
6. Ian Hawkey, The Flight of the Ravens, The Blizzard n. 11
7. Simon Kuper, Calcio e potere, Isbn Edizioni, 2008
8. Mark Dummett, 1974: Zaire’s show of shame, BBC Sport
9. Andrew Harding, Africa’s abandoned football legend, BBC News
10. David Goldblatt, The ball is round, Penguin Books, 2007