Riflettendo la suddivisione territoriale e sociale già in atto nelle vicende umane, il calcio è da sempre inteso e diffuso – anche e soprattutto – come sfida tra Stati-nazione. È stato così sin dalla fondazione della federazione internazionale all’inizio del Novecento e il copione non è cambiato alla fine del secolo. Quale mezzo migliore, quindi, nell’intento di diffondere il pallone in giro per il mondo, che allargare il numero delle partecipanti alla fase finale della Coppa? Il Mondiale a trentadue squadre rappresenta un nuovo balzo in avanti dopo l’ultimo allargamento occorso sedici anni prima in occasione del torneo spagnolo, e rende minoritarie per la prima volta nella storia le formazioni europee. Ma certifica altresì un percorso di crescita del livello calcistico nelle realtà periferiche: per quanto permanga inalterata l’incapacità di competere per i posti d’onore del torneo – salvo l’effimera esperienza del Mondiale nippo-coreano, quattro anni dopo quello francese – la quasi definitiva scomparsa di squadre ritenute già sconfitte a priori (le squadre materasso) sarà col tempo un dato pienamente acquisito.
La Coppa del ’98 segna il record di presenze nel numero di selezioni che partecipano alle qualificazioni, ovvero 174. La frammentazione territoriale degli ultimi decenni, conseguente al tramonto del socialismo reale, determina un deciso aumento delle squadre europee in lizza per un posto alla fase finale: diventano 49, tredici in più rispetto quattro anni prima. L’UEFA qualifica quindi quattordici nazionali, più la squadra ospitante. Il resto del Gotha calcistico mondiale è così composto: cinque selezioni da Sudamerica e altrettante dall’Africa; quattro dall’Asia; tre provenienti dalla CONCACAF (Nordamerica, Centroamerica, Caraibi). C’est beau un monde qui joue è lo slogan ufficiale del torneo.
Bene o male le grandi protagoniste, le favorite, ci sono tutte. Resta a casa la Svezia, semifinalista nell’edizione americana; fra le europee falliscono la qualificazione anche Portogallo, Russia, Svizzera, Irlanda e i vice-campioni continentali della Repubblica Ceca; fra le americane non si qualifica l’Uruguay, in crisi nera. Una novità è l’utilizzo del ranking FIFA per indirizzare il sorteggio dei giorni della prima fase. La formula del torneo poi, in virtù dell’aumento delle partecipanti, cambia: dagli otto gironi a quattro passano alla fase a eliminazione diretta due squadre, senza possibilità di ripescaggi – quindi la fase a gironi diventa più impegnativa rispetto al recente passato. Con gli ottavi di finale il torneo diventa a eliminazione diretta, come da Messico ’86 a questa parte.
E proprio l’arrivo delle partite secche è il momento in cui prende forma una sorta di richiamo all’ordine: quasi tutte le nuove invitate alla festa del Mondiale sono costrette a lasciare il passo ai tradizionali poteri forti calcistici. Le sedici nazionali qualificate per gli ottavi sono infatti o europee o latinoamericane (includendo nella definizione anche la parte dell’America centrale) – salvo una, la Nigeria.

Con alle spalle l’ottima impressione lasciata nel torneo iridato precedente, e il titolo olimpico di Atlanta ’96 in tasca, la nazionale nigeriana è molto attesa sui campi francesi. La allena Bora Milutinovic, il cui incarico però gli è stato affidato pochi mesi prima della Coppa e pertanto senza avere a disposizione molto tempo per preparare a dovere la competizione – tra l’altro, Milutinovic ha partecipato alla fase di qualificazione come ct del Messico. La Nigeria è sorteggiata in un girone di ferro dall’esito davvero incerto: ci sono due europee, Bulgaria e Spagna, reduci entrambe da un ottimo Mondiale in America nel 1994 (ed entrambe eliminate dall’Italia, così come la Nigeria stessa); c’è poi il Paraguay, una selezione da verificare ma pur sempre sudamericana, giunta inoltre seconda nel girone di qualificazione della CONMEBOL. L’esordio è Nigeria – Spagna ed è subito spettacolo.
La Spagna attraversa i Pirenei con la consapevolezza di appartenere al novero delle favorite per il titolo. Nel gennaio del ’98 è stata invitata dalla federazione francese per inaugurare lo Stade de France ed è uscita sconfitta per uno a zero: l’ultima volta che la nazionale spagnola aveva perso un incontro era il quarto di finale del Mondiale negli USA. Ciò vuol dire tre anni e mezzo senza sconfitte. Agli Europei del ’96 esce da imbattuta ai calci di rigore, nei quarti, contro l’Inghilterra padrona di casa. L’allenatore è ancora Javier Clemente. Squadra sempre piuttosto abbottonata, schiera nel reparto avanzato, oltre a Kiko e Luis Enrique, un lanciatissimo attaccante ventenne del Real Madrid. Si chiama Raul e farà incetta di trofei con il club, tra i quali la Coppa dei Campioni della stagione 1997/98 vinta dai blancos dopo trentadue anni di digiuno, ma in nazionale arriva un attimo prima del momento giusto.
Siamo a Nantes e sono le due e mezza del 13 giugno. Le furie rosse iniziano alla grande, colgono la traversa su colpo di testa di Raul e poi vanno in vantaggio grazie a una punizione calciata da Hierro; dopo tre minuti però la Nigeria pareggia con un colpo di testa di Adepoju appostato sul primo palo, su calcio d’angolo. La Spagna lamenta un rigore abbastanza netto per fallo su Luis Enrique, solo a due metri dal portiere e dalla riga di porta, imbeccato da gran lancio di Raul. Poi, appena inizia la ripresa, finalmente Raul va a segno con un meraviglioso gol: lancio di Hierro dalla tre quarti offensiva, scatto del giovane madridista, pallone calciato di sinistro al volo, rete e due a uno.
Ma l’imprevisto è dietro l’angolo. Al minuto settantatré si assiste a una bella ripartenza nigeriana, Lawal scappa a Campo in area sulla sinistra e quasi sulla linea di fondo scocca un rasoterra, probabilmente con l’intenzione di dare la sfera in mezzo: l’esperto Zubizarreta, preferito in mezzo ai pali spagnoli a Canizares del Real, è tranquillamente sul pallone ma non lo trattiene – anzi, gli sferra un colpetto senza alcun senso e lo devia in rete. Subito dopo cross dalla destra di Exteberria, Luis Enrique non ci arriva ma Raul sì, sulla destra, solo: tira, fuori! Clamoroso errore che gli spagnoli pagano tutto, senza sconti e immediatamente: rimessa latrale in attacco, respinta della difesa, gran conclusione dalla distanza di Oliseh che lambisce il palo e termina in rete per l’inatteso vantaggio nigeriano. Gli africani sfiorano il quarto gol con Yekini che, su cross di Finidi, cerca il gol spettacolare in mezza rovesciata ma conclude fuori (era solo, magari sarebbe stato più utile provarci senza fare il fenomeno); Amor per la Spagna lambisce l’incrocio dei pali da fuori area, e poi è finita. Tre a due per la Nigeria, splendida partita ed enorme delusione fra gli iberici.
Le super aquile nigeriane sembrano invece destinate a replicare, se non a migliorare, il successo del torneo precedente. Il secondo incontro, che le vede opposte alla nazionale bulgara, si risolve in una nuova affermazione, sebbene faccia storcere un po’ il naso: gli africani iniziano bene e si portano in vantaggio con un tiro da fuori di Ikpeba; poi nella ripresa la Bulgaria sfiora più volte il pareggio senza riuscirci – Stoichkov, giunto davanti a Rufai con ottimo tempismo ma mira non all’altezza, manda fuori una facile deviazione a rete, Kostadinov coglie la traversa. È una Bulgaria lontana parente dai semifinalisti in America. Esce dal torneo incassando sei reti dalla Spagna nel terzo incontro ed è il tramonto di una generazione d’oro ma senza eredi: da lì in avanti la Bulgaria assisterà da casa a tutte le successive fasi finali dalla Coppa.
Come avvenuto all’esordio contro i bulgari, il Paraguay ferma la Spagna sullo zero a zero e trascina le furie rosse a un passo dal dramma dell’eliminazione. Paraguay – Spagna è una partita molto combattuta: Zubizarreta si riscatta dall’errore pregresso con una prestazione più che valida, ma l’autentico protagonista dell’incontro è Chilavert, l’estremo difensore dei sudamericani, in grado oltre tutto di sfiorare la rete su calcio di punizione. Nel turno decisivo il Paraguay ha ragione per tre a uno su di una Nigeria già qualificata e imbottita di riserve – ma sull’uno a uno Chilavert è di nuovo decisivo: gran parata su tiro da lontano di Oliseh, poi calcio d’angolo e grandissima parata su colpo di testa di West. È quindi il risultato che conduce alla prematura e inaspettata eliminazione della nazionale spagnola dal Mondiale dopo appena tre partite.
Sulla carta, e per quel che vale, la Nigeria è anche più forte di quattro anni prima. Rufai è ancora il portiere, benché ora si mostri un po’ più incerto; ottimi i centrali difesa – West e Uche – con Adepoju e Babayaro nel ruolo di esterni; ottimo altresì il centrocampo formato da Finidi, Okocha (in qualità di regista), Oliseh (l’uomo di fatica) e Lawal. È una squadra capace di garantire tecnica e una grande spinta sulla fasce, ma è incompleta in attacco dove al fianco di Ikpeba, unico titolare fisso, ruotano Amokachi, Kanu e Yekini. Le super aquile pagano il fio essenzialmente di tre problemi: il nuovo allenatore ingaggiato a ridosso del torneo; l’individualismo esibito in campo dai giocatori, all’apparenza più attenti alla propria carriera che alle sorti della squadra; e – forse il peggiore di tutti – le enormi aspettative che gravano sulle loro spalle (giocare la finale, o almeno la semifinale)1)Team analysis – Nigeria, FIFA Technical Report France 1998. Probabilmente non giova neanche la particolare situazione politica in patria, con il potere in mano a una giunta militare più volte condannata per pesanti violazioni dei diritti umani, ma comunque apprezzata dai commercianti di petrolio (che abbonda nel sottosuolo nigeriano); un contesto che ha già condotto la selezione nigeriana all’esclusione dalla Coppa d’Africa del ’96. Agli ottavi del Mondiale li attende ora la Danimarca, ma sembra che i nigeriani siano già con la testa all’eventuale, storico quarto di finale che dovrebbero poi disputare con il Brasile. Male, male…
Ci sono poi le altre selezioni africane. Il Marocco guidato da Henri Michel non sfigura: pareggio con la Norvegia, sconfitta patita dal Brasile e tre a zero rifilato alla Scozia – ma non basta per passare il turno, a causa del risultato dell’altro incontro. La Tunisia perde le prime due sfide, con inglesi e colombiani (contro i quali sfodera una notevole prestazione ma incassa un gol allo scadere) ed è eliminata. Nel Camerun incontriamo ancora un paio di reduci dalla mitica esperienza del Mondiale italiano, entrambi titolari: si tratta di Songo’o, che gioca nel Deportivo La Coruna e continua la tradizione dei validi portieri camerunensi, e dell’attaccante Omam-Biyick. C’è inoltre un giovanissimo (diciassettenne) attaccante in forza alla squadra spagnola del Leganes di nome Samuel Eto’o che entra nel secondo tempo della partita contro l’Italia. I leoni d’Africa esordiscono con l’Austria, vanno in vantaggio a dieci dal termine ma subiscono il pareggio nel recupero su azione d’angolo da parte di Polster, lasciato beatamente indisturbato nel cuore dell’area di rigore. Il loro torneo si chiude praticamente lì e le successive partite certificano il ritorno in patria di una formazione piuttosto mediocre.
La quinta selezione del continente nero è un’esordiente ai Mondiali che in quegli anni desta particolare interesse, così come il paese che rappresenta: il Sudafrica. Gli anni Novanta si sono aperti con la fine del violento regime razzista al potere da decenni e l’elezione di Nelson Mandela alla presidenza, nel 1994, un evento di portata epocale per l’intera Africa. Il nuovo Sudafrica si consolida sin da subito attraverso un’importante affermazione sportiva. Nel ’95 ospita il campionato del Mondo di rugby, uno sport molto diffuso ma da sempre ritenuto un passatempo ad esclusivo uso dei bianchi – i neri in genere preferiscono il calcio –, tanto che negli anni dell’apartheid la maggioranza dei sudafricani era solita tifare contro la nazionale di rugby. Il Sudafrica vince il titolo contro la Nuova Zelanda, ai supplementari, e l’affermazione unisce il paese. Indossando la maglia della nazionale un tempo tanto esecrata, Mandela consegna il trofeo al capitano della nazionale Francois Pienaar, ma in realtà quello che realmente si celebra è il suo trionfo, l’apoteosi di un personaggio gigantesco.
Però i sudafricani mostrano di sapersela cavare anche con la palla sferica. Riammessi nel consesso della FIFA nel 1992, solo quattro anni dopo conquistano il titolo continentale africano, sempre tra le mure amiche: sconfiggono il Ghana in semifinale e la Tunisia due a zero nella finale di Johannesburg. E non è un fuoco di paglia poiché nel 1998, oltre a disputare il Mondiale, raggiungono nuovamente la finale della Coppa d’Africa, persa contro l’Egitto (e nel 2000 saranno terzi).
Superati nettamente dalla Francia all’esordio, i bafana bafana (i nostri ragazzi in lingua zulu) devono vedersela con la Danimarca a Tolosa. L’incontro si chiude sull’uno a uno, ma è in parte compromesso dall’inadeguato arbitro colombiano John Toro Rendon che abusa dei suoi cartellini: i danesi, a fronte di sei falli commessi in totale, ricevono addirittura tre gialli e due rossi, gli africani quattro ammonizioni e un’espulsione. McCarthy infila un gol sotto le gambe di Schmeichel e pareggia il vantaggio di Nielsen – nel frattempo la Danimarca ha colto anche due pali. Poi all’ultimo minuto una gran sventola da lontano del sudafricano Fortune (evidentemente solo di nome) sbatte in pieno sulla traversa, negando così lo storico gol che con ogni probabilità avrebbe aperto ai sudafricani le porte degli ottavi.
Il terzo turno del girone ha in programma Sudafrica – Arabia Saudita. Bella sorpresa a USA ’94, gli asiatici sono ora in evidente difficoltà: due sconfitte e ct esonerato a torneo in corso – si tratta di Parreira, campione del Mondo con il Brasile. Termina con un altro pareggio, due a due; le reti sudafricane sono segnate da Bartlett, dell’Ajax Cape Town, e Benny McCarthy, un giovane e già discretamente famoso attaccante che milita nell’Ajax (quello di Amsterdam, però) e raccoglierà diverse esperienze nei campionati europei. Altri giocatori di livello nella compagine sudafricana sono il difensore Fish (Bolton Wanderers) e Masinga, attaccante del Bari.
Alla fine dei conti il torneo dell’esordiente Sudafrica non è poi così male. Ma Philippe Troussier, francese che da poco tempo siede sulla panchina sudafricana dopo aver portato la Nigeria ai Mondiali, non è soddisfatto: criticherà pubblicamente la mancanza di motivazione e di grinta dei suoi giocatori2)Terry Crouch, James Corbett, The World Cup: the complete history, deCoubertin Books, 2014,e poi sbarcherà in oriente come ct del Giappone, in cerca di maggior fortuna.

Chi all’epoca avesse provato ad accostare il gioco del calcio alla Giamaica, avrebbe inevitabilmente pensato a Bob Marley che palleggia, e a null’altro. Ma nella seconda metà dei Novanta, sull’isola caraibica, circola l’idea che il calcio giamaicano possa approdare verso lidi più prestigiosi. Horace Burrell è un ex militare e presidente della federazione calcistica: fortemente appoggiato dal primo ministro giamaicano P. J. Patterson, ha il folle obiettivo di vedere i reggae boyz, per la prima volta nella loro storia, scendere in campo durante la fase finale della Coppa del Mondo. E ci riesce – nello stupore generale – superando selezioni più quotate quali Costa Rica, El Salvador e Canada (tutte con un’esperienza ai Mondiali). Il 16 novembre 1997, grazie al pareggio ottenuto contro il Messico all’Independence Park di Kingston e alla contemporanea vittoria degli USA su El Salvador, la nazionale giamaicana stacca il biglietto per la Francia e scatena la gioia di un popolo.
La federazione giamaicana ha avuto un’intuizione decisiva: reclutare alla causa della nazionale alcuni giocatori professionisti attivi nel campionato inglese ma parte della diaspora giamaicana – immigrati o figli di. Si tratta nel complesso di sette giocatori che accettano di vestire la maglia del loro paese di origine e fra i quali spiccano Robbie Earle (centrocampista del Wimbledon) e Frank Sinclair (difensore del Chelsea); gli altri, gli autoctoni, sono in quel periodo soltanto dei semiprofessionisti. L’allenatore è un brasiliano – all’epoca andavano parecchio di moda – Rene Simoes. Prima del Mondiale la Giamaica disputa un’ottima Gold Cup sui campi statunitensi, pareggiando con il Brasile e raggiungendo la semifinale, dove è sconfitta dal Messico.
Ottenuto un traguardo di per sé storico, ovvero la fase finale della Coppa, le speranze di passare il primo turno sono pressoché inesistenti se messe altresì di fronte a ostacoli chiamati Croazia e Argentina. I giamaicani perdono infatti entrambi gli incontri: con gli europei tengono un tempo e poi capitolano nella ripresa, con i sudamericani subiscono una sconfitta pesante e senza appello. Nei giorni che precedono la sfida con i croati si verifica inoltre un episodio curioso: Simoes, in incognito e travestito, tenta di spiare gli avversari nel corso di una partita di preparazione a porte chiuse; viene beccato, ma il ct croato Blazevic non se la prende e bonariamente gli regala due videocassette della sua squadra3)Marco Gaetani, Una cosa divertente che la Giamaica non farà mai più, l’Ultimo Uomo. I reggae boyz riescono però sorprendentemente a tornare in patria con in tasca una vittoria, sul Giappone per due a uno, con doppietta di Whitmore.
A differenza dei giamaicani, la prima presenza al Mondiale della nazionale giapponese è invece molto attesa da parte degli addetti ai lavori. Due eventi anticipano e preparano questo esordio nell’ambito di una realtà, quella giapponese, provvista di notevoli potenzialità calcistiche per evidenti ragioni economiche e organizzative, nonché per la forte tradizione sportiva radicata nel paese. Il primo evento è la nascita della prima lega professionistica giapponese a metà degli anni Novanta. Attratti da ottime prospettive di sviluppo e dagli yen a disposizione, diversi giocatori di livello accettano di giocare in estremo oriente, in particolare i brasiliani: Zico e Leonardo fanno da apripista; li seguono Jorginho e Dunga allo Jubilo Iwata, Zinho agli Yokohama Flugels, Muller al Kashiwa Reysol, Ronaldao allo Shimizu S-Pulse e Gilmar ai Cerezo Osaka. La lega all’inizio è un successo, poi entra in crisi finanziaria e di pubblico dopo appena tre-quattro anni, e dovrà essere rifondata su basi più solide. Ma in ogni caso contribuisce in modo decisivo allo sviluppo del calcio nel paese del sol levante.
Nel frattempo – ed è il secondo evento chiave della vicenda – la selezione giapponese vince il suo primo importante trofeo, la Coppa d’Asia del ’92, ospitata in casa nella prefettura di Hiroshima. Il Giappone supera la prima fase con un gol in extremis ai danni dell’Iran, poi sconfigge la Cina in semifinale e supera l’Arabia Saudita in finale, interrompendo così il dominio assoluto dei sauditi sul calcio asiatico, esteso alle due edizioni precedenti della Coppa continentale e a quella successiva. Grande protagonista del torneo è l’attaccante Kazuyoshi Miura, miglior giocatore asiatico nel ’93 e primo giapponese nel campionato italiano, ingaggiato dal Genoa – ben lontano però da prestazioni di rilievo, con un solo gol all’attivo nell’unica stagione disputata in Italia. Miura è il miglior marcatore di sempre in nazionale, decisivo anche nel percorso di qualificazione a Francia ’98 ma inspiegabilmente lasciato a casa dal ct Okada. Mentre scrivo, Miura ha più di cinquant’anni e gioca ancora nella seconda divisione del suo paese.
I giapponesi hanno mancato per un soffio l’accesso al Mondiale del ’94: a Doha, in Qatar, durante i minuti di recupero dell’ultimo incontro sono stati raggiunti sul due a due dalla nazionale irachena, e il risultato ha dato il via libera ad Arabia Saudita e Corea del Sud (stessi punti degli arci-rivali giapponesi, ma con migliore differenza reti). Il calcio giapponese ricorda l’evento come the agony of Doha; quale evidente esempio di relativismo applicato al pallone, per i coreani passa invece alla storia come the miracle of Doha. In occasione delle qualificazioni asiatiche per il Mondiale francese, il Giappone supera tre a due al golden gol l’Iran – che comunque, come narrato più avanti, riuscirà lo stesso a qualificarsi – nello spareggio giocato in Malesia, e così la partita può essere definita in modo unanime the joy of Johor Bahru. È pertanto la prima qualificazione giapponese al Mondiale, ma da lì in avanti diventerà una costante.
Tutti i giocatori nipponici provengono dal campionato nazionale e ci sono alcun giovani di belle speranze come i centrocampisti Ono e Nakata, quest’ultimo già nominato miglior calciatore asiatico nel ’97 e di lì a breve pronto per l’esperienza in Serie A. Viste le varie premesse, le aspettative sono discrete ma il Giappone chiude il torneo con tre sconfitte, seppur di misura; un esito comunque accettabile stante l’inesperienza della nazionale e il valore delle avversarie, salvo però i giamaicani. Quattro anni dopo il Giappone ospiterà la fase finale della Coppa del Mondo FIFA assieme ai vicini sudcoreani, anch’essi presenti in Francia e anch’essi destinati a tornare subito a casa senza aver lasciato alcun segno: otto gol passivo e uno solo all’attivo, sconfitti da Messico e Olanda, pari con il Belgio. I dubbi sull’opportunità di affidare il prossimo Mondiale ai due paesi, per altro entrambi qualificati di diritto in quanto organizzatori, hanno buon gioco a diffondersi, ma giapponesi e coreani sapranno fugarli brillantemente.
Sono trascorsi vent’anni dall’ultima apparizione della nazionale iraniana ai Mondiali di calcio, vent’anni intensi quanto difficili in cui la Persia è passata attraverso la rivoluzione islamica, la crisi degli ostaggi nell’ambasciata americana, la guerra con l’Iraq e l’isolamento internazionale. Di gran lunga la selezione asiatica più forte nel corso degli anni Settanta, l’Iran ricostruisce una lega calcistica semiprofessionistica soltanto nel 1989, poco tempo prima della morte dell’ayatollah Khomeyni. Nello stesso periodo torna a disputare le qualificazioni della Coppa del Mondo.
Due anni prima del Mondiale francese, l’Iran regola sei a due la Corea del Sud e giunge in semifinale nel campionato continentale: qui è sconfitto ai rigori dall’Arabia Saudita, futura campione d’Asia sui padroni di casa degli Emirati Arabi Uniti. L’Iran è quindi pronto a giocarsi un posto per il torneo iridato. La disparità di forze fra le nazionali in campo per le qualificazioni asiatiche determina un inaudito diciassette a zero che gli iraniani rifilano alla malcapitata selezione delle Maldive; poi la sconfitta con il Giappone conduce la nazionale iraniana allo spareggio intercontinentale, ultima porta d’accesso alla fase finale del Mondiale. La sfida fra Iran e Australia è uno dei passaggi più emozionanti nelle intere qualificazioni per Francia ’98, oltre a testimoniare il grado di passione che il pallone sta ormai raggiungendo un po’ ovunque nel mondo.
All’andata, il 22 novembre del 1997, centotrentamila persone accorrono allo Stadio Azadi (Libertà) di Teheran. L’Australia guidata da Terry Venables passa in vantaggio ma gli iraniani pareggiano, finisce uno a uno e tutto è ancora aperto. L’entusiasmo degli australiani non è da meno poiché l’incontro di ritorno si disputa sette giorni dopo di fronte a centomila tifosi, presso il Cricket Ground di Melbourne. Assisteranno a un incontro al cardiopalma e storico. La formazione australiana prevale nel gioco e all’inizio della ripresa è avanti due a zero grazie alle reti di Kewell e Vidmar. Poco dopo il raddoppio un disturbatore seriale di eventi – il cui taglio di capelli da solo costituirebbe un valido motivo per l’arresto – strappa la rete di una porta e rende necessaria la sospensione della gara per alcuni minuti. Si riprende, l’Australia continua ad attaccare e pare fatta, ma ad un quarto d’ora dal termine l’Iran si desta: Bagheri accorcia le distanze, e dopo quattro minuti, su lancio di Daei, Azizi si ritrova da solo davanti al portiere avversario e infila il decisivo due a due. Gli assalti finali sono inutili: l’Australia, imbattuta e con un piede già in Francia, resta a casa e la delusione è notevole anche per un paese di deboli (ma crescenti) tradizioni calcistiche.
La possibilità di giocare la fase finale del Mondiale è il detonatore di una gigantesca festa popolare in Iran, le cui modalità e dimensioni gettano nel panico non pochi esponenti del regime al potere: si calcola che tre milioni di persone abbiano invaso le strade e le piazze della sola capitale, e che siano state altrettante nel resto del paese4)David Goldblatt,The ball is round, Penguin Books, 2007. Scorre il vietatissimo alcool, le donne partecipano alle celebrazioni e diverse di loro abbandonano il velo obbligatorio. La folla raggiunge l’ambasciata francese e il personale diplomatico, memore dell’esperienza dei colleghi americani qualche anno prima, è terrorizzato, ma la gente lancia fiori all’interno del complesso urlando “ci vediamo a Parigi!”5)Ibidem. Quando viene organizzata una celebrazione allo stadio di Teheran, accorrono ai cancelli anche molte donne, alle quali l’accesso alle arene sportive è precluso dalla legge della Repubblica islamica: forzano il blocco delle guardie e riescono a entrare lo stesso allo stadio per partecipare alla festa6)Brizzi Riccardo, Sbetti Nicola, Storia della Coppa del mondo di calcio (1930 – 2018), Le Monnier, 2018.
In Francia la selezione iraniana perde la prima partita con la Jugoslavia, una sfida fra due squadre che nel complesso hanno segnato novantotto gol durante le qualificazioni (41 gli europei, 57 gli asiatici). L’Iran è ancora in gioco quando incrocia la nazionale tedesca – dove gioca Klinsmann, molto popolare nel paese asiatico per l’aiuto fornito otto anni prima al popolo iraniano in occasione di un disastroso terremoto – nelle terza sfida del girone: il primo tempo si chiude a reti bianche, poi l’Iran subisce due gol nel corso della ripresa e deve così abbandonare il torneo. Ma la partita più importante per gli iraniani nell’intera spedizione in Francia è la seconda del girone, sia per motivi calcistici (è l’unica in cui hanno ragionevoli possibilità di vittoria), sia – e soprattutto – per motivi extra-calcistici: si parla infatti di Iran – Stati Uniti.
La sera del 21 giugno 1998, Stade Gerland di Lione, a prevalere è la formazione asiatica, per due a uno: un gran colpo di testa di Estili porta in vantaggio l’Iran nel primo tempo, poi raddoppia Mahdavikia in contropiede a pochi minuti dal termine, prima dell’ininfluente gol americano. Gli USA chiudono con tre sconfitte – un passo indietro rispetto ai risultati ottenuti nel Mondiale precedente -, mentre in Iran si ripetono i grandi festeggiamenti popolari occorsi al momento della qualificazione. Mehdi Mahdavikia, l’autore della rete decisiva, è un giovane esterno destro che diverrà il miglior giocatore iraniano di sempre: si mostra al mondo durante il torneo francese, prologo di una pregevole carriera nel campionato tedesco, soprattutto all’Amburgo. Eletto giocatore asiatico dell’anno nel 2003, Mahdavikia partecipa anche al Mondiale del 2006 ed è allontanato dalla nazionale nel 2010, quando scende in campo indossando un braccialetto verde che testimonia il suo supporto alle proteste popolari per le elezioni presidenziali dell’anno precedente, provocando così le ire del potere politico e della federazione.
Iran – USA del Mondiale ’98 è stato definito come l’incontro più politicizzato nella storia della Coppa7)Neil Billingham, USA vs Iran at France ’98: the most politically charged game in World Cup history, FourFourTwo. Dopo il sorteggio il presidente della federazione statunitense dichiara che la sfida con l’Iran è la madre di tutte le partite – ma per il ct americano Sampson saranno soprattutto gli iraniani a voler dare un peso politico a incontro. “Vinceremo per i nostri martiri”, sono le parole di Azizi, attaccante iraniano8)Eoin O’Callaghan, Great Satan 1-2 Iran: the most politically charged match in World Cup history, The Guardian. Gendarme dell’imperialismo americano – in casa propria e nell’area mediorientale – quando il paese era sotto il tallone dello Scià e della sua feroce polizia politica, l’Iran post-rivoluzione è invece diventato il nemico pubblico numero uno degli USA tanto che i due paesi hanno sfiorato in più occasioni il conflitto armato. Per l’Iran gli Stati Uniti sono il grande Satana. Qualcosa però si è mosso nei mesi che precedono la partita ed è stato avviato un timido processo di avvicinamento fra i due paesi, ispirato dai presidenti Khatami (riformista, eletto a fine ’97) e Clinton.
In ogni caso gestire l’organizzazione dell’incontro non è per niente semplice. La sicurezza è decisamente rafforzata; ci sono problemi anche per una prevista contestazione nei confronti del regime di Teheran da parte di esuli iraniani presenti sugli spalti, e la regia televisiva è appositamente istruita affinché eviti spiacevoli inquadrature (spiacevoli per la diplomazia). Da sorteggio spetterebbe agli iraniani il dovere di muoversi per primi per stringere la mano agli avversari, ma la guida suprema religiosa Khamenei esprime il proprio netto rifiuto; gli americani allora accettano di muoversi per primi e vengono accolti dagli iraniani con una rosa bianca in mano quale dono e simbolo di pace. Diciotto mesi dopo le due squadre si incontreranno di nuovo in un’amichevole organizzata sul suolo americano, a Pasadena, e stavolta finirà uno a uno.
Ma al di là degli accordi sotto banco e delle mosse fra le cancellerie, qualcosa di splendido e di francamente inaspettato (benché quel giorno sia stato designato dalla FIFA come il giorno del fair-play) accade sul prato dello Stadio Gerland poco prima del fischio di inizio. Al momento delle foto di rito, i giocatori delle due squadre si mischiano fra di loro, si abbracciano e si sottopongono ai flash dei fotografi, agli applausi del pubblico e allo sguardo del mondo. Come se fossero un unico gruppo. Un’immagine che resta nella storia – del calcio, e non solo.
23 maggio 2020
References
1. | ↑ | Team analysis – Nigeria, FIFA Technical Report France 1998 |
2. | ↑ | Terry Crouch, James Corbett, The World Cup: the complete history, deCoubertin Books, 2014 |
3. | ↑ | Marco Gaetani, Una cosa divertente che la Giamaica non farà mai più, l’Ultimo Uomo |
4. | ↑ | David Goldblatt,The ball is round, Penguin Books, 2007 |
5. | ↑ | Ibidem |
6. | ↑ | Brizzi Riccardo, Sbetti Nicola, Storia della Coppa del mondo di calcio (1930 – 2018), Le Monnier, 2018 |
7. | ↑ | Neil Billingham, USA vs Iran at France ’98: the most politically charged game in World Cup history, FourFourTwo |
8. | ↑ | Eoin O’Callaghan, Great Satan 1-2 Iran: the most politically charged match in World Cup history, The Guardian |