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Corea/Giappone, 2002
IV. Il secolo asiatico?

La nazionale sudcoreana che gioca la Coppa tra le mura amiche e che sta catturando l’attenzione del mondo calcistico, è una formazione disciplinata tatticamente, combattiva e soprattutto in gran forma fisica. Il tecnico Guus Hiddink sistema in campo i coreani attraverso un 4-3-3 che prevede un’estrema mobilità dei giocatori d’attacco. Corsa e velocità sono i tratti distintivi della Corea del Sud. Nella lista dei migliori interpreti del Mondiale stilata dalla FIFA compaiono Hong Myung Bo, difensore centrale con licenza di spingersi in avanti e garantire così un uomo aggiuntivo in mediana, e il centrocampista Yoo Sang Chul, sorta di regista arretrato, il quale forma un’ottima coppia di mezzali assieme a Kim Nam Il. Con due reti all’attivo, il miglior marcatore della squadra alla fine del torneo risulta Ahn Jung Hwang, in forza al Perugia (quando gioca), mentre talvolta al suo posto è schierato Hwang Sun Hong. Niente male poi è anche il torneo disputato dal portiere Lee Won Jae. (Una precisazione: spesso uso anche i nomi perché in Corea i cognomi non sono tanti, metà dei coreani si chiamano Kim, Lee, Park o Choi, e infatti in nazionale ci sono due Kim, quattro Lee, un Park e cinque Choi).

Dopo le semifinali raggiunte con la nazionale del suo paese di origine, l’olandese Hiddink riesce a ritagliarsi un ruolo da protagonista anche nel Mondiale 2002. Gli anni successivi al torneo del ’98 non sono stati però troppo propizi: allena il Real Madrid, e poi per un breve periodo il Betis Siviglia, ma in entrambi i casi viene esonerato. Dall’inizio del 2001 Hiddink siede sulla panchina sudcoreana e nei primi tempi fatica molto in quel ruolo, a causa di risultati in parte deludenti. Lascerà l’incarico al termine della Coppa del Mondo e le autorità locali gli conferiranno la cittadinanza onoraria sudcoreana, primo caso di sempre.

Nell’avventura mondiale con la selezione sudcoreana, Hiddink può tentare di sfruttare a proprio vantaggio un paio di elementi. Innanzitutto il calcio in Corea gode già di solide basi. La nazionale gioca per la sesta volta una fase finale della Coppa, la quinta consecutiva, e in più i club del paese dominano da qualche anno la Coppa dei Campioni asiatica: i Suwon Samsung Bluewings hanno conquistato il titolo di campione continenatle negli ultimi due anni (nel 2002 in finale contro i connanazionali dell’Anyang LG Cheetahs), i Pohang Steelers invece nel ’97 e nel ’98. In secondo luogo è importante sottolineare come l’ultimo campionato sucoreano sia iniziato nel luglio 2001 e nell’ottobre dello stesso anno sia già terminato. Il tecnico della Corea ha avuto a disposzione i suoi uomini, in esclusiva e a tempo pieno, per tutti i quattro mesi che precedono l’avvio del Mondiale. È qualcosa di simile, benchè in scala necessariamente ridotta, a quanto accaduto ai coreani del nord in vista dei Mondiali del ’66: la nazionale nordcoreana venne strutturata come una sorta di club a spese dello Stato e per oltre tre anni i giocatori si allenarono e giocarono insieme1)Alessandro Trisoglio, I Mondiali di Jules Rimet, Bradipolibri editore, 2012. Da perfetti sconosciuti, in Inghilterra scrissero una pagina di storia del gioco, riuscendo a stupire i tifosi sparsi per il pianeta.

La Corea disputa un numero davvero elevato di amichevoli durante l’anno e mezzo che precede il campionato del Mondo. Nel 2001 sono diciotto: batte il Messico nel corso della Confederations Cup, sconfigge altresì Nigeria e Croazia, ma incassa cinque gol sia dalla Francia (sempre durante la Confederations Cup), sia dalla Repubblica Ceca. A inizio 2002 la Corea del Sud è invitata a partecipare alla Gold Cup negli Stati Uniti ma le prestazioni mostrate nell’occasione non sono molto soddisfacenti. Perde contro la nazionale ospite e pareggia con Cuba, superando il girone solo grazie al fatto che sono promosse due squadre su tre; dopo aver battuto i messicani ai rigori, viene sconfitta dalla Costa Rica in semifinale. Le amichevoli giocate nei primi mesi del 2002 sono quattordici e si concludono però con risultati incoraggianti: quattro a uno inflitto alla Scozia; poi uno a uno contro gli inglesi; infine onorevole sconfitta tre a due per mano della Francia, pochi giorni prima dell’esordio mondiale.

E all’esordio mondiale arriva una vittoria, la prima nel corso di una fase finale della Coppa dopo ben quattordici tentativi andati a vuoto. I sudcoreani sin da subito lasciano una bella impressione, dominando una Polonia che pare non essere in grado di opporre resistenza. Alla metà del primo, su cross di Lee Eul Young, Hwang è lasciato completamente libero nel cuore dell’area e infila al volo; raddoppia all’inizio della ripresa con un tiro da fuori Yoo, il migliore in campo: due a zero per la Corea del Sud.

La seconda partita dei padroni di casa viene giocata Daegu, di fronte a un tifo che è stato definito “la folla più intimidatoria nell’intera storia del torneo2)Terry Crouch, James Corbett, The World Cup: the complete history, deCoubertin Books, 2014 – e questo la dice lunga sulle condizioni ambientali incontrate in Corea. Opposta ai coreani c’è la nazionale statunitense, già incontrata pochi mesi prima quando gli americani si sono imposti per due a uno. Sono due formazioni a punteggio pieno che stanno girando bene e si dimostreranno capaci di dar vita a una partita bella e combattuta. La Corea parte forte, Song spreca una grande occasione per segnare, e in vantaggio vanno gli USA: bella palla di O’Brien per Mathis (con i suoi capelli alla moicana, o come De Niro in Taxi Driver) che entra in area e mette in rete. Sotto di uno a zero, gli asiatici usufruiscono di un calcio di rigore di cui si incarica Lee Eul Young, ma il portiere americano Friedel è bravissimo a respingere, e sulla ribattuta Kim Tae Young calcia fuori; Friedel parerà un altro rigore nell’incontro con la Polonia. In splendida forma, l’estremo americano salva di nuovo il vantaggio americano all’inizio del secondo tempo su tentativo di Seol. Donovan ha sui piedi la palla del due a zero, non concretizza, e allora la Corea del Sud perviene al meritato pareggio: Ahn, entrato nella ripresa, infila di testa quando mancano dodici minuti al termine. E in prossimità del recupero Choi tira fuori un pallone a porta vuota.

Ecco la Corea del Sud che vola prima agli ottavi e poi addirittura ai quarti di finale, superando le nazionali di Portogallo e Italia. Cresce la consapevolezza nei propri mezzi, così come crescono anche i sospetti che un occhio benevolo stia agevolando i successi coreani. Adesso è il turno della Spagna.

Ancora una volta la nazionale spagnola chiuderà il torneo iridato assumendo il ruolo di grande incompiuta, per quanto in questo frangente possa biasimare tutt’altro che sé stessa. E avviene tra l’altro durante un Mondiale che vede gli spagnoli vincere, per la prima volta dal 1950, la gara inaugurale (e che invece riusciranno a perdere pure nella trionfale edizione del 2010). Camacho, tecnico delle furie rosse come quattro anni prima e destinato a lasciare a breve, gioca con un prudente 4-4-2: Hierro comanda la difesa, e segna (due reti qui in Asia e saranno cinque in totale nel corso di tre Mondiali – niente male per un difensore); rende bene la coppia d’attacco formata da Raul e Morientes, autori di tre gol a testa nel torneo, mentre a partita in corso spesso entra in campo Mendieta, un centrocampista offensivo per molti anni al Valencia e ora alla Lazio. Iniziano poi ad affacciarsi sulla ribalta mondiale quei nomi che sfateranno il triste destino della Spagna quale squadra forte ma perdente: Casillas in porta; Puyol in difesa; Xavi a centrocampo, ma in panchina.

I club spagnoli hanno dominato le ultime tre edizioni della Champions League con quattro finaliste su sei e due vittorie, e stanno sostituendo le squadre italiane nel ruolo di club da battere in Europa. Il Real Madrid avvia il mito dei galacticos per la quantità di stelle che raccoglie nella propria rosa. Il Valencia raggiunge due sorprendenti finali nel 2000 (derby spagnolo con il Real) e nel 2001, entrambe perse, sotto al guida dell’argentino Hector Cuper; con Rafa Benitez in panchina conquista la Liga nell’anno mondiale e ancora due anni dopo.

Nel primo incontro la Spagna affronta un’esordiente al campionato del Mondo, la nazionale slovena, che ha in Zlatko Zahovic del Benfica il proprio uomo migliore; il giocatore però litiga con il ct Katanec e dopo la partita di esordio viene mandato a casa. Finisce tre a uno per le furie rosse: bello il gol del vantaggio di Raul, poi segnano anche Valeron e Hierro, su rigore (di Cimirotic il gol sloveno). Contro il Paraguay, una doppietta di Morientes – entrato nella ripresa – a un Chilavert un po’ imbolsito ribalta l’iniziale vantaggio sudamericano per autogol di Puyol (la palla gli è rimbalzata addosso dopo una parata di Casillas ed è finita nella sua rete); un altro rigore di Hierro fissa un altro tre a uno. Già qualificata, la Spagna segna tre gol (a due) anche al Sudafrica e passa il turno a punteggio pieno e con il vento in poppa, pronta ad affrontare l’Eire negli ottavi di finale.

Il primo tempo è di marca spagnola e si chiude sull’uno a zero grazie a un gol di Morientes su assist di Puyol. Nella ripresa il tecnico irlandese inserisce Quinn in attacco e sposta Duff sulla fascia. La Spagna invece a venti dal termine prova a coprirsi, sostituendo Morientes con Albelda, un centrocampista; poi all’ottantesimo deve lasciare il campo Raul causa infortunio. L’Irlanda cresce con il passare dei minuti. Sbaglia un rigore fischiato per fallo di Juanfran su Duff e apparso un po’ dubbio al replay: calcia Harte, para Casillas, e Kilbane calcia fuori con la porta praticamente spalancata. Ma l’Irlanda non demorde e perviene a un giusto pareggio quando ormai si è giunti ai minuti di recupero. Hierro quasi toglie la maglietta a Quinn durante un corpo a corpo in area di rigore: per quanto probabilmente sia più la scena che il danno effettivo patito, l’arbitro vede bene il fallo e fischia un secondo tiro dagli undici metri a favore degli irlandesi. Keane va sul dischetto – la palla pesa come un macigno – e spedisce in rete l’uno a uno.

Gli irlandesi giocano meglio i tempi supplementari ma non sbloccano il risultato e si va ai tiri di rigore. E qui a imporsi è la Spagna, tre a due: gli irlandesi ne falliscono tre su cinque (uno finisce sulla traversa, mentre due sono respinti da un Casillas in stato di grazia); gli spagnoli ne sbagliano uno e in meno e il gol decisivo è opera di Mendieta.

È un quarto di finale mondiale storico per entrambe quello che si gioca nel pomeriggio del 22 giugno 2002: la Spagna potrebbe rientrare fra le prime quattro al mondo dopo oltre cinquant’anni, mentre la Corea sarebbe la prima asiatica a riuscirci. La selezione padrona di casa schiera la stessa formazione che ha sconfitto l’Italia. Grossa assenza invece fra gli iberici: manca Raul, il leader della squadra, che non ha assorbito l’infortunio all’inguine patito nell’incontro precedente. Camacho quindi aggiunge Helguera a metà campo e avanza Valeron nel ruolo di Raul. Arbitra l’egiziano Ghandour; i suoi collaboratori sono Tomusange dall’Uganda e Ragoonath da Trinidad e Tobago. Teatro dell’incontro è il World Cup Stadium (li hanno chiamati quasi tutti così) di Gwanju, ma alla vigilia la federazione coreana dichiara che, in caso di passaggio del turno, l’impianto verrà intitolato al commissario tecnico Hiddink.

Non è un partita di particolare pregio. Nel primo tempo la Spagna macina più gioco e potrebbe portarsi in vantaggio – ci provano fa gli altri Joaquin e Morientes – ma non concretizza. A inizio ripresa ecco prendere forma il gol spagnolo, ma viene annullato: calcio di punizione, la palla giunge in area dove Helguera colpisce di testa, indirizzando in rete; l’arbitro vede un fallo, in realtà ci sono vari contrasti in area e quale sia veramente l’episodio incriminato si fatica a comprenderlo. Nel corso del secondo tempo, e in vista di tempi supplementari sempre più probabili, Hiddink gioca nuovamente le sue carte aggiungendo due attaccanti, Lee Chun Soo e Hwang, al posto di un centrocampista e di un difensore. La Corea del Sud ha sul piede la sua miglior occasione da rete quando Park Ji Sung, con un colpo al volo, costringe Casillas a esibirsi in una splendida parata. C’è poi un tentativo di Joaquin che termina fuori di poco.

Durante la prima frazione supplementare Joaquin scatta sulla destra e giunto al fondo mette in mezzo; la palla giunge a Morientes che, a un passo dalla porta, tocca in rete di testa il possibile golden gol degli spagnoli, ma un fischio dell’arbitro ha interrotto il gioco: il guardalinee Ragoonath sta sventolando la bandierina, la palla avrebbe oltrepassato la linea di fondo prima del cross. Come noto, la palla deve oltrepassare per intero la linea, affinché sia ritenuta fuori dal campo (oppure sia gol, se in porta). Nel caso di specie la palla non è uscita neanche di uno spicchio. Allora la Spagna ci prova ancora, Morientes colpisce il palo su girata in area e poi Mendieta spedisce alto. Il pari resiste e l’incontro si dovrà decidere dal dischetto.

Qui è utile sottolineare un elemento di possibile, seppur lieve, vantaggio a favore dei coreani (oltre a tutti gli altri). Nel campionato nazionale tutti gli incontri terminati in parità sono decisi ai tiri di rigore, per cui i coreani sono abbastanza abituati a questo tipo di sfida – ad esempio il portiere della Corea Lee ne ha disputati sette nell’ultima stagione, e per altro li ha vinti tutti; poi se e quanto conti davvero nella tensione di un quarto mondiale è ovviamente da dimostrare. Hwang esegue il primo rigore, Casillas tocca ma la sfera gli passa sotto la pancia ed entra lo stesso. Hierro pareggia il conto per la Spagna. Poi segnano nell’ordine: Park, Baraja, Seol e Xavi (entrato nei supplementari). Ahn tira centrale, Casillas si tuffa sulla destra e sfiora soltanto, con il piede. Va sul dischetto Joaquin. Prende la rincorsa, ha come un’esitazione quando arriva sul pallone e in quel momento Lee è già un metro oltre la linea di porta: il portiere si tuffa sulla sinistra e respinge abbastanza agevolmente. Ha sbagliato proprio Joaquin, il miglior in campo durante l’incontro. Ora la palla decisiva è sui piedi del coreano Hong Myung Bo: tira, segna e dà il via a un nuovo tripudio coreano. Nel contempo qualche giocatore spagnolo tenta l’assalto alla terna arbitrale per motivi a questo punto abbastanza evidenti.

Come commentare questa partita? Gli spagnoli avranno anche sprecato, e Hiddink troverà opportuno invitarli ad analizzare i propri errori anziché cercare scuse, ma sul campo la partita l’hanno vinta loro: non c’è davvero altro modo di esprimere quanto avvenuto nel quarto di finale tra Spagna e Corea del Sud. “Tutti hanno visto due gol perfettamente validi. Se la Spagna non ha vinto è perché non ci hanno permesso di vincere3)Amy Lawrence, Spain rage at referee, The Guardian, dichiara Helguera al termine dell’incontro. Si registra a danno degli spagnoli anche una chiamata di fuorigioco molto dubbia nel secondo supplementare, con uomo lanciato a rete, simile al gol annullato a Tommasi nella precedente partita dei coreani. È difficile dire cosa sia successo, Ghandour è comunque un arbitro di grande esperienza e tra l’altro è stato l’unico fischietto extra-europeo ad aver diretto una gara dei campionati Europei, nel 2000; sicuramente non era nella sua giornata migliore, senza dubbio è stato penalizzato da assistenti non all’altezza della situazione, e per il resto rimangono congetture inevitabili quanto inutili. Nell’edizione speciale del giorno stesso, sul quotidiano sportivo spagnolo AS compare il titolone “Robo!”, con a fianco la sentenza “Italia tenia razon” – magra consolazione.

Il Mondiale nippo-coreano del 2002 registra quindi lo storico approdo di una selezione asiatica in semifinale; l’AFC è la quarta confederazione a portare una squadra fra le prime quattro al mondo. E da quel giorno lo stadio di Gwanju si chiama Guus Hiddink Stadium.

La gioia dei coreani dopo la vittoria sulla Spagna – fourfourtwo.com

Dopo l’avvio scoppiettante dei primi anni Novanta4)Vedi infra Francia, 1998: II. Un mondo che gioca, la lega calcistica giapponese (la J-league) subisce i contraccolpi della crisi economica che investe da anni il paese del sol levante e nella seconda metà del decennio rischia di pagare caro gli eccessi e l’entusiasmo precedenti. Nel 1999 viene pertanto varata una riforma il cui scopo è evitare un probabile collasso economico al calcio giapponese. I campi di intervento sono vari: i club sono spinti a trovare nuovi sponsor e a costruire solidi legami con il territorio che li ospita; è creata una serie inferiore sino ad allora assente; lo svolgimento degli incontri diventa gradualmente simile al modello delle leghe europee (dunque senza supplementari e rigori in caso di parità). Il cambiamento dà i suoi frutti anche se il record di presenze dell’anno 1994 (quasi ventimila spettatori in media) non verrà mai battuto. Campione nazionale nella stagione 2002 è il Jubilo Iwata, che da anni si alterna al potere con i Kashima Antlers – ma dall’anno successivo il dominio sarà interrotto dagli Yokohama F-Marinos. Il Jubilo Iwata, altresì campione d’Asia nel ’99 e finalista negli anni 2000 e 2001, è espressione della prefettura Shizuoka, il cuore storico e pulsante del calcio giapponese.

L’obiettivo della federazione giapponese è riassunto nel progetto Hundred Year Vision, ovvero riuscire, entro cento anni, a mettere in piedi cento club professionistici nella propria lega e anche – ancor più ambizioso – vincere la Coppa del Mondo. Se ci saranno riusciti lo vedremo nel 2092. Nel frattempo il calcio supera il baseball come sport di squadra più amato dal popolo e il Giappone ospita, in coabitazione, i Mondiali.

Fra le due padrone di casa, la selezione più attesa ed accreditata alla vigilia è proprio quella giapponese, frutto di una crescita costante negli anni e di risultati importanti raccolti sul campo. Dopo l’esordio mondiale in Francia quattro anni prima, i giovani calciatori nipponici giungono secondi nel Mondiale under-20 edizione 1999. L’anno dopo il Giappone conquista la sua seconda Coppa d’Asia (dopo quella del ’92) sconfiggendo nella finale di Beirut l’Arabia Saudita campione in carica e alla sua quinta finale consecutiva; confermerà poi il titolo continentale nel 2004 con Zico in panchina, divenuto ct subito dopo il Mondiale. Nel 2001 i giapponesi raggiungono tra le mura amiche la finale di Confederations Cup, questo torneo estivo che si gioca ogni due anni e che comprende all’incirca le finaliste del Mondiale precedente e le squadre campioni continentali in carica (o in generale le loro sostitute), nonché il paese ospitante; è una competizione che nel corso del decennio riuscirà a ottenere una certa visibilità.

Diciannove selezionati su ventitré militano nel campionato di casa, ma gli elementi in grado di fare la differenza sono in forza a club europei. In particolare, il Giappone del 2002 sfodera una mediana di tutto rispetto. Hidetoshi Nakata è un centrocampista avanzato per diversi anni attivo in Serie A (Perugia; poi campione d’Italia con la Roma; e poi ancora al Parma, dove vince una Coppa Italia) ed è il miglior giocatore giapponese del periodo: famosissimo in patria, contribuisce notevolmente alla crescita del calcio nipponico. Come accaduto probabilmente a migliaia di altri bambini giapponesi, inizia a giocare a pallone perché ispirato da Capitan Tsubasa, un anime giapponese sul calcio di metà anni Ottanta stranoto anche in Italia con il nome di Holly e Benji, due fuoriclasse5)Nakata: a japanese football icon, FIFA.com. Shinji Ono è votato calciatore asiatico del 2002; esterno di metà campo, alza la Coppa UEFA nell’anno mondiale in un bel Feyenoord che include Tomasson, van Hooijdonk e un giovanissimo van Persie. Junichi Inamoto è un altro valido centrocampista della selezione giapponese, accasato in Premier League (prima all’Arsenal, dove però non gioca mai, e dalla stagione seguente al Fulham). È lasciato a sorpresa a casa Nakamura, il quale verrà eletto miglior giocatore della Coppa d’Asia due anni dopo. Degno di nota è il fatto che tutti questi giocatori continueranno a calcare i campi verdi sin oltre i quarant’anni, a marcare la particolare longevità dei calciatori giapponesi. Tutti salvo Nakata, che invece lascia abbastanza presto il calcio giocato, gira il mondo per un po’ di anni e poi si dedica a iniziative benefiche e allo sviluppo della cultura e dell’artigianato giapponesi6)Daniele v. Morrone, Nakata e gli altri, l’Ultimo Uomo, mostrando così un’apertura mentale non comune nell’ambiente.

Alle sei del pomeriggio del 4 giugno 2002, a Saitama nei pressi di Tokyo, inizia l’avventura mondiale della nazionale giapponese contro il Belgio. Accade tutto nel secondo tempo: al dodicesimo Wilmots, in rovesciata, regala il vantaggio agli europei; due minuti dopo la difesa belga lascia inopinatamente sfilare pallone e avversario, nella fattispecie Suzui, verso la propria porta, ed è il pareggio nipponico; altri dieci minuti e Inamoto si infila nella retroguardia belga, che si fa sorprendere di nuovo, e segna il gol del due a uno; infine Van der Heijden fissa il due a due finale con un pallonetto sul portiere in uscita. Le due nazionali si ritroveranno di nuovo ai Mondiali sedici anni dopo in un passaggio importante quanto drammatico.

Giappone – Russia è una sfida anomala nel calcio. Ricorda di primo acchito le battaglie sportive fra le due selezioni che, a cavallo dei ’60 e ’70, dominarono la pallavolo maschile e femminile ai Giochi Olimpici (sette titoli su otto tra Tokyo ’64 e Montreal ’76). Oppure – su tutt’altro piano – la guerra intercorsa negli anni 1904-1905, evento storico di importanza capitale in quanto rappresentò l’ingresso del Giappone sulla scena politica internazionale, l’innesco della rivoluzione russa e soprattutto la prima affermazione militare di una nazione asiatica su un’europea nell’era moderna. La partita costituisce per le due squadre lo scontro decisivo del girone. Al quindicesimo minuto Izmailov lambisce palo con conclusione dal limite; intorno alla mezzora è invece Nakata ad avere la palla buona, ma il suo tiro dal cuore dell’area russa termina alto. La selezione russa non si risparmia e sul finire del primo tempo c’è forse un rigore a suo favore, non fischiato, ma al quinto della ripresa passano i padroni di casa: palla in area, Yanagisawa al volo mette Inamoto – sul filo del fuorigioco – di fronte al portiere ed è gol. Fioccano le occasioni da rete, la partita è intensa: Beschastnykh (entrato al tredicesimo della ripresa) spreca la possibile palla pareggio calciando sull’esterno della rete dopo aver saltato il portiere; dall’altra parte del fronte anche Yanagisawa fallisce una buona occasione; e poi Nakata coglie la traversa con un tiro da lontanissimo.

Finisce uno a zero per gli asiatici, il risultato che quasi spalanca le porte degli ottavi anche ai padroni di casa della sponda giapponese. In occasione del terzo incontro il Giappone affronta la Cenerentola del girone, la Tunisia, da una posizione abbastanza solida poiché potrebbe accontentarsi di un pari: vince due a zero con i gol di Morishima e Nakata e raggiunge la fase a eliminazione diretta.

Qui, nell’ottavo di finale in programma a Rifu, il Giappone sfida la nazionale turca. Paiono legittime le speranze giapponesi di avanzare ancora, visto l’avversario non di prima grandezza, e non solo: la prospettiva dei nipponici può spaziare fino alla semifinale senza scorgere ostacoli all’apparenza insormontabili. Ma stavolta l’effetto sorpresa è completamente a danno della compagine asiatica. Partita tutt’altro che entusiasmante, il gol decisivo è marcato già al dodicesimo del primo tempo da Davala, di testa (è l’unico uomo in area che salta), su corner calciato da Ergun Pembe. Si fa notare Alessandro dos Santos, detto Alex, un centrocampista brasiliano naturalizzato giapponese: in un’occasione impegna il portiere turco, poi prende l’incrocio dei pali su calcio di punizione e provoca anche l’ammonizione di due avversari, Alpay e Ergun Pembe. È il più intraprendente dei suoi, ma all’intervallo il suo allenatore inspiegabilmente lo toglie per mettere Suzuki, una punta.

Nella ripresa non accade molto, anzi non accade proprio niente, e sotto una pioggia a dirotto il Giappone lascia il suo Mondiale, in modo sommesso e un po’ triste. Non senza qualche rimpianto, poiché grazie al tasso tecnico della squadra e (soprattutto) agli incroci fortunati del tabellone, avrebbe potuto eguagliare il risultato raggiunto dai coreani. Intervistato sul campo subito dopo la partita, il tecnico del Giappone, il francese Troussier, non trattiene le lacrime mentre ringrazia tutti, al termine di un’esperienza che comunque sarà fondamentale nella storia del calcio giapponese.

Il gol che decide Turchia-Giappone – imdb.com

Non poteva mancare in Estremo Oriente anche il gigante asiatico per eccellenza, cioè la Cina. Il primo passaggio cinese nella fase finale della Coppa è certificato dalla vittoria sull’Oman del 7 ottobre 2001, una partita seguita in televisione da 250 milioni di cinesi7)David Goldblatt, The ball is round, Penguin Books, 2007. La strada da fare però è ancora parecchia. Nonostante sieda in panchina l’esperto Bora Milutinovic, la nazionale cinese perde tutte e tre gli incontri (nell’ordine Costa Rica, Brasile e Turchia), incassa nove reti senza segnarne nemmeno una.

Anche nel caso cinese, l’approdo al Mondiale testimonia la crescita di un movimento calcistico che in quegli anni ottiene importanti traguardi a livello continentale. La Cina raggiunge la semifinale nella Coppa d’Asia del 2000 ma è sconfitta dal Giappone per tre a due dopo essere stata avanti due a uno. Quattro anni dopo, ecco la grande occasione per il calcio cinese: organizza il campionato asiatico, supera l’Iran ai rigori in semifinale e sfida nuovamente il Giappone, stavolta per il titolo. Allo Stadio dei Lavoratori di Pechino va in scena una partita bella e combattuta, in un contesto molto teso (fischi alla formazione giapponese, risse e, dopo l’incontro, tentativi di assaltare i tifosi ospiti e il bus della squadra): la Cina perde tre a uno, ma il decisivo gol che porta il Giappone sul due a uno è segnato, da Nakata, con la mano.

Ad ogni modo la domanda da porsi inevitabilmente al termine del Mondiale è questa: Corea/Giappone 2002 rappresenta l’annuncio del secolo asiatico anche nel calcio? A posteriori possiamo dire di no, o almeno non ancora. La Corea del Sud continuerà a qualificarsi alla fase finale della Coppa del Mondo, ma approderà agli ottavi solo nel 2010, mentre nelle altre edizioni sarà sempre fuori al primo turno. Mancherà anche l’appuntamento con la vittoria in Coppa d’Asia, un trofeo che non vince del 1960, fermandosi due volte in semifinale e una finale, nel 2015. La Cina, alla data odierna, non è più riuscita a qualificarsi per i Mondiali.

Fra le nazionali asiatiche reduci della Coppa 2002, sarà la selezione giapponese a ottenere negli anni successivi i risultati di maggiore prestigio, assumendo il ruolo di autentica regina del calcio continentale nei primi due decenni del ventunesimo secolo (campione d’Asia anche nel 2011 – quarto titolo in sei edizioni – e finalista nel 2019) e altresì di protagonista del calcio internazionale. Il Giappone sarà sempre ai Mondiali, raggiungerà gli ottavi di finale in due occasioni e in entrambi i casi sfiorerà il passaggio del turno. I progressi del calcio giapponese coinvolgeranno anche il versante femminile, consentendo alle calciatrici giapponesi di centrare un grande traguardo: la vittoria della Coppa del Mondo in Germania, nel 2011, battendo le americane in finale ai rigori – è da sottolineare come nei venticinque precedenti tra le due formazioni, le giapponesi avessero rimediato tre pareggi e ben ventidue sconfitte. Un successo inaspettato, storico e soprattutto emozionante poiché conquistato appena quattro mesi dopo il terribile terremoto e maremoto del Tohoku che ha devastato una parte del paese, e quindi ottenuto nel ricordo delle vittime di quella tragedia.

24 dicembre 2020

References   [ + ]

1. Alessandro Trisoglio, I Mondiali di Jules Rimet, Bradipolibri editore, 2012
2. Terry Crouch, James Corbett, The World Cup: the complete history, deCoubertin Books, 2014
3. Amy Lawrence, Spain rage at referee, The Guardian
4. Vedi infra Francia, 1998: II. Un mondo che gioca
5. Nakata: a japanese football icon, FIFA.com
6. Daniele v. Morrone, Nakata e gli altri, l’Ultimo Uomo
7. David Goldblatt, The ball is round, Penguin Books, 2007