L’Estadio Monumental di Buenos Aires, lo stadio del River Plate – oggi intitolato all’ex presidente del club, Antonio Vespucio Liberti – è stato inaugurato nel 1938. Gli anni con l’otto finale segnano il destino dell’impianto. Nel 1968 è testimone di un fatto tremendo. Si gioca il superclasico, la sfida tra River e Boca, e lo stadio si è riempito di pubblico. Verso il termine dell’incontro un ingente numero di tifosi tenta di uscire attraverso un cancello che non si apre, chiuso non si sa perché con un lucchetto. È la porta dodici. La folla si accalca e le persone rimangono schiacciate, soffocate, travolte: perdono la vita in settantuno, molti dei quali giovanissimi, e si contano decine di feriti. Da quel giorno le porte dello stadio sono contrassegnate da lettere. Negli anni settanta il Monumental viene ristrutturato e la sua capienza è ridotta di circa un quarto rispetto al massimo precedente, pari a centomila spettatori. Nel 1978 ospita la finale della Coppa del Mondo FIFA tra Argentina e Olanda.
Gli olandesi hanno la grande opportunità di giocarsi di nuovo il titolo Mondiale appena quattro anni dopo la sconfitta patita a Monaco di Baviera. Si presentano in campo con la stessa formazione che ha battuto l’Italia, salvo il portiere, Schrijvers, infortunatosi proprio nel corso della semifinale. Eccola: Jongbloed; Jansen, Brandts, Krol, Poortvliet; Haan, Neeskens, W. van de Kerkhof; R. van de Kerkhof, Rep, Rensenbrink. Gli esperti Rijsbergen e Suurbier, già titolari all’inizio del torneo, partono dalla panchina nonostante abbiano risolto i loro guai fisici – il secondo entrerà nel corso del secondo tempo. Nell’Argentina ritorna Ardiles a centrocampo, tassello fondamentale, per quanto sia in condizioni fisiche non perfette. Formazione della nazionale argentina: Fillol; Galvan, Olguin, Passarella, Tarantini; Gallego, Ardiles, Kempes; Bertoni, Luque, Ortiz.
Nelle ultime due occasioni in cui hanno incontrato gli orange su di un campo di pallone, gli argentini hanno preso in totale otto gol, equamente divisi, segnandone solo uno. Fra gli olandesi, i sette undicesimi dei titolari nella finale mondiale sono reduci dal quattro a zero a proprio favore messo a segno nei Mondiali 1974. Fra gli argentini, invece, soltanto Kempes (che nell’incontro di quattro anni prima era in panchina) e Houseman (in panchina ora) hanno assistito direttamente a quella disfatta. Non hanno memoria, a testimonianza dell’importanza di riuscire a rifugiarsi nell’oblio, almeno in alcuni frangenti. Come sostiene Nietzsche nella Genealogia della morale, “nessuna serenità, nessuna speranza, nessuna fierezza, nessun presente potrebbe esistere senza capacità di dimenticare”.
La finale si disputa il 25 giugno del 1978, alle ore due mezza del pomeriggio. La giornata è descritta come non particolarmente fredda, nuvolosa e carica di elettricità. Se guardate le immagini della partita, il cielo è di un giallo innaturale. Alla fine sarà nero, come in procinto di esplodere. La tensione e l’attesa tra il pubblico sono enormi. L’ultima e unica finale mondiale della sua storia, l’Argentina l’ha giocata nel 1930 – ben quarantotto anni prima. Le cronache segnalano la presenza di settanta – ottanta mila spettatori allo stadio, ma probabilmente sono molti di più. A me dà l’impressione che non ci sia mai stato uno stadio così pieno di persone nella storia: pare un muro umano che sale per decine e decine di metri. L’impianto ha la pista di atletica attorno al terreno di gioco. Ha le panchine interrate come una trincea. Il campo è invaso da pezzi di carta ed è circondato da pubblicità quasi solo di alcolici, alcuni dei quali ce li siamo ormai dimenticati: cognac Camus; Metaxa brandy; Smirnoff.
Per la prima volta, poi, una finale del Mondiale di calcio viene teletrasmessa in Cina. I tempi cambiano in fretta. Due anni prima sono morti Zhou Enlai e Mao Zedong. Nel dicembre di quell’anno la presa del potere di Deng Xiaoping è completata. Viene avviata la riforma economica che muterà per sempre il volto della Cina e realizzerà l’esito naturale del progetto storico avviato da Mao con la rivoluzione del ’49.
Un mare di folla accompagna il bus degli argentini verso la stadio per incoraggiare i giocatori; lo stesso accade alla nazionale olandese, ma in questo caso la gente prende a sputi e a pugni il mezzo. L’autobus fa appositamente un giro lungo impiegando parecchio tempo per raggiungere lo stadio. Ma la tattica intimidatoria dei padroni di casa non si ferma qui. Scesi in campo, gli olandesi devono attendere per alcuni minuti l’arrivo degli avversari, rimanendo così esposti alla folla urlante. Poi, prima del via, la seleccion protesta per il bendaggio che Willy van de Kerkhof porta al polso infortunato nel corso della prima partita – quindi una protezione già usata durante tutto il torneo. Gli argentini chiedono di estromettere il giocatore, gli olandesi minacciano di ritirarsi e, guidati dal capitano Krol, si recano a bordo campo. Confabulano alcuni minuti con l’arbitro e con altri soggetti, alla fine si accordano per applicare al giocatore una fasciatura più leggera.
Finalmente si può iniziare. I giocatori si scambiano i gagliardetti in un clima decisamente teso. Il direttore di gara è l’italiano Gonella; gli olandesi avrebbero preferito l’israeliano Klein, l’arbitro di Argentina – Italia nella prima fase, che, a parer loro, avrebbe garantito maggiore imparzialità. Gonella verrà molto criticato per una presunta direzione di gara pro Argentina, ma di fatto non ci sono favori eclatanti. Fischia molto all’inizio per calmare gli animi e tenere in mano l’incontro. La partita è comunque dura, intensa ed emozionante; nel complesso l’Olanda imbastisce qualche azione d’attacco in più (55 a 48), ma i tentativi a rete, diciotto, sono pari, e tanti. È una battaglia campale, calcisticamente parlando, e tecnicamente molto valida, “un incontro da ricordare, pieno di azioni, di dramma e di cangiante fortuna”1)Technical Study – Final, World Cup Argentina 78 – Official FIFA Report.
L’Olanda parte meglio. Non fa un pressing eccessivo, ma controlla il gioco e sfiora quasi subito il gol di testa con Rensenbrink. Con il passare dei minuti però cresce in modo deciso l’Argentina, forse entrata in campo eccessivamente contratta. Salgono in cattedra Ardiles e Passarella. il quale sfrutta gli inserimenti in avanti per mettere in difficoltà e in inferiorità numerica i difensori avversari. Olguin e Tarantini spingono sulle fasce, Bertoni è scatenato. In difesa Galvan chiude i varchi senza commettere un fallo in tutto l’incontro – una prestazione che gli varrà alcuni dieci sui giornali del giorno seguente. Luque ha un’occasione a porta vuota ma la palla è ribattuta da un difensore. Passarella sfiora il gol in paio di circostanze. Gli argentini fanno movimento e imprimono un ritmo veloce e continuo alle loro azioni. Ma proprio nella fase di gioco migliore dei biancocelesti c’è una grande occasione da rete per l’Olanda. La palla arriva in area, carambola sulle teste di Gallego e Passarella, che si scontrano, per giungere infine sui piedi di un calciatore olandese. Nel mezzo dell’area di rigore, Neeskens scaglia un tiro fortissimo, non troppo angolato ma destinato a terminare proprio sotto la traversa; Fillol è straordinario nel respingere.
L’estremo difensore argentino è probabilmente in quei giorni il più forte portiere al mondo. Gioca un torneo ad alto livello ed è un tassello fondamentale nel mosaico della nazionale argentina. Fillol è un portiere di stampo tradizionale, dotato di un grande istinto fra i pali, attento, regolare, difficilmente propenso a comportamenti avventati. È una colonna del River Plate. Difenderà i pali dell’albiceleste anche nei successivi Mondiali del 1982 mentre salterà il torneo del 1986, dopo aver comunque contribuito alla qualificazione della sua squadra.
Ubaldo Fillol ha un antagonista che si chiama Hugo Gatti. “La stampa e i tifosi parlavano di rivalità. D’accordo, la verità, però, è che io e lui non solo siamo assolutamente diversi dal punto di vista calcistico ma anche per come viviamo. Il modo in cui vive lui, quello che dice è agli antipodi di come vivo io e di quello che penso” – così si esprime Fillol sul collega2)Johnathan Wilson, Il portiere, Isbn Edizioni, 2013. Gatti è detto el Loco, il pazzo. Fa delle uscite dall’area di rigore, dell’uso dei piedi e della testa, delle corse verso l’attaccante in arrivo, i tratti distintivi del suo modo di stare in campo. Se paragonato a Fillol, è un’impostazione molto più moderna, in teoria maggiormente in sintonia con le idee di gioco di Menotti – ma il ct argentino nella pratica sceglie bene. Ha i capelli lunghi, Gatti, raccolti da una fascia come Bjorn Borg, e i tratti somatici di un indio; rende al meglio con il sole, mentre soffre il maltempo. Nella finale di Coppa Libertadores, anno ’77, para il rigore decisivo e regala il trofeo alla sua squadra, il Boca Juniors. Si ispira a Carrizo, grande portiere (ma del River Plate, squadra nella quale anche Gatti ha giocato) negli anni quaranta e cinquanta. Diventa a sua volta fonte di ispirazione di una generazione di portieri sudamericani, tra cui Higuita e Chilavert.
Hugo Gatti è il titolare della nazionale sino circa un anno prima della Coppa. Poi emerge il dualismo con Fillol, e nel contempo crescono le prestazioni del suo diretto avversario. Al Mondiale Gatti è assente, si dice per infortunio, o forse rinuncia poiché con ogni probabilità sarebbe stato soltanto il secondo portiere. Fillol verso la gloria e Gatti a casa, quindi. Ma paradossalmente fra gli appassionati la fama del secondo è cresciuta nel tempo, grazie ai suoi atteggiamenti anticonformisti e al suo stile di gioco spettacolare, quasi oscurando l’immagine di chi lo ha sostituito in nazionale.
La parata di Fillol su Neeskens è uno dei momenti chiave della finale. Sarebbe stato un peso non indifferente per gli argentini subire un gol mentre stavano schiacciando gli avversari con un gioco ben orchestrato. E così al minuto trentasette l’Argentina passa in vantaggio. Grande realizzazione. Ardiles serve per vie centrali Luque, che passa a Kempes (sin lì piuttosto assente dal gioco) appena fuori dall’area. Kempes, capelli all’aria e sul volto, parte da fermo, infila in mezzo due difensori di scatto e potenza, e batte il portiere con un tiro rasoterra. Sulle ali dell’entusiasmo l’Argentina sfiora l’immediato raddoppio con Passarella, di testa. Poco prima della pausa c’è ancora tempo per un grande salvataggio di Fillol, su intervento ravvicinato di Rensenbrink.
Poi si va al riposo con l’Argentina meritatamente avanti uno a zero. Durante l’intervallo, la diretta internazionale inquadra la tribuna autorità da lontano, i contorni un po’ sfuocati, la telecamera quasi timorosa di avvicinare l’immagine e di metterla a fuoco. Pare l’antro di una belva immonda. C’è anche Licio Gelli lì seduto, assieme ai militari e a Kissinger, l’ex segretario di Stato americano.
Nel corso del secondo tempo l’Olanda si mostra più aggressiva e intraprendente. Emergono i senatori: Krol, Neeskens, Jansen, Haan. Aumenta il ritmo della gara e aumentano anche i colpi proibiti. Lo staff medico argentino compare sugli schermi con uno stile impeccabile per l’epoca: giubbotto corto di pelle, maglione chiaro a collo alto, pantaloni kaki a zampa di elefante. L’Argentina sembra meno compatta, più sfilacciata. Fillol deve salvare di nuovo su Neeskens. Gli orange ci provano a più riprese con tiri da fuori area. Negli spazi che l’Olanda lascia liberi alle proprie spalle, però, si infila Bertoni: un suo passaggio al centro verso Luque viene intercettato per un soffio da Jongbloed. Ardiles, dolorante per il precedente infortunio, perde colpi e viene sostituito da Larrosa. Entra anche Houseman per Ortiz. Nell’Olanda uno spento Rep lascia il posto a Nanninga, cambio che risulterà decisivo.
Infatti, a meno di dieci minuti dal termine, l’Argentina regala palla malamente nella propria trequarti all’avversario. Haan apre splendidamente sulla destra per René van de Kerkhof, cross nell’area, stacco di testa imperioso proprio di Nanninga e gol. Uno a uno che resiste sino al novantesimo. Dopo il pareggio, l’Argentina pare destarsi dal suo torpore; Passarella fin troppo, perché pianta una gomitata in faccia a Neeskens. Gonella non se ne accorge ma l’argentino avrebbe meritato il rosso, è l’errore principale che si può imputare all’arbitro. I tempi regolamentari volgono al termine.
È quindi il momento adatto per parlare di due protagonisti della finale e dell’intero torneo, su sponde opposte: Rob Rensenbrink e Mario Kempes.
“Era forte come Cruyff, ma completamente diverso. Cruyff era un allenatore in campo; Rensenbrink era un introverso”3)Gareth Bland, When Anderlecht and Club Brugge were amongst the kings of Europe, in These Football Times ha detto Raymond Goethals, l’uomo che lo ha allenato nell’Anderlecht dal ’76 al ’79. Sono dello stesso tenore le parole pronunciate da Jan Mulder, ex giocatore olandese, secondo il quale Rensenbrink valeva Cruyff, tranne che nella sua testa. Rensenbrink è un’ala sinistra tecnicamente molto valida, dotata di dribbling e notevoli capacità realizzative. È un dei talenti più validi di quella generazione d’oro che ha portato il calcio olandese sugli altari.
Trascorre gli anni migliori della carriera in Belgio: prima al Brugge (o Bruges), poi all’Anderlecht, le due grandi rivali dei Settanta. Lega il suo nome soprattutto alla formazione di Bruxelles, con la quale conquista tre finali di Coppe delle Coppe dal 1976 al 1978, vincendone due. Nella finale casalinga del ’76 – un partita molto spettacolare, l’Anderlecht batte quattro a due il West Ham – l’olandese sfodera una prestazione strepitosa e infila due reti. L’anno dopo i belgi devono cedere il passo all’Amburgo, ma nell’anno dei Mondiali riconquistano il trofeo e in finale Rensenbrink mette a segno di nuovo due gol. Rensenbrink è protagonista anche in nazionale. È in campo nella finale di Monaco ’74 ma in precarie condizioni fisiche. Negli anni seguenti il suo peso nel determinare le sorti dell’Olanda cresce progressivamente, sino ad arrivare al Mondiale ’78 quando, in assenza di Cruyff, è assieme a Krol l’uomo chiave della squadra. Gioca a pallone sino al 1982, poi abbandona definitivamente il mondo del calcio. Le ultime notizie sul suo conto lo descrivono dedito alla pesca, nei pressi della sua casa a pochi minuti da Amsterdam.
Mario Alberto Kempes Chiodi (il suo nome completo) è uno dei migliori attaccanti argentini della storia. Milita nel Rosario Central dal ’74 al ’76 e segna un gol storico ai nemici del Newell’s, che decide la partita di spareggio per il passaggio ai gironi di semifinale nella Coppa Libertadores del 1975. Poi è in Spagna, nel Valencia per cinque anni, dove è allenato da Alfredo Di Stefano e dove conquista la Coppa delle Coppe del 1980 contro l’Arsenal ai rigori (uno dei quali sbagliati proprio da Kempes). È un giocatore atipico, soprattutto per il periodo. È un regista, ma gioca molto avanzato; è una punta, ma arretra volentieri per partecipare al gioco e servire assist. Ha velocità, potenza fisica e soprattutto un un innato senso del gol. Nel Rosario Central realizza 97 reti in 123 partite; nel Valencia, 125 reti in 187 incontri, ed è due volte capocannoniere della Liga. In nazionale segna 20 gol (in 43 partite). La sua ultima partita con l’albiceleste è la disfatta contro il Brasile nel Mondiale ’82, ma il suo ultimo gol in nazionale risale alla finale di Buenos Aires. Il nome di Kempes rimarrà sempre legato alla Coppa del Mondo del ’78.
Una volta terminata la carriera di calciatore sparisce dall’orbita del calcio che conta. Tenta la strada della panchina e allena in giro per il mondo in campionati per lo più di secondo piano: Indonesia, Venezuela, Bolivia, Albania, dove nel 1997 è costretto a scappare in fretta e furia perché il paese in crisi economica è sull’orlo della guerra civile. Nel 2001 siede per un mese sulla panchina del Casarano, formazione pugliese che all’epoca milita nella seria D italiana. Probabilmente si rende conto che il mestiere di tecnico non fa per lui. Smette quindi di allenare e si stabilisce in una tranquilla villetta suburbana nello Stato di New York, USA, dove commenta le partite di calcio in castigliano per l’emittente ESPN. L’Argentina non lo dimentica e nel 2010 viene intitolato a Mario Kempes lo stadio di Cordoba, costruito per i Mondiali del 1978 e inaugurato proprio da un suo gol.
Rensenbrink e Kempes sono, assieme a Keegan (che al Mondiale non c’è) e Bettega, i più forti attaccanti della seconda metà dei Settanta. Ma non è l’unico elemento che accomuna i due. Hanno scelto entrambi di allontanarsi in punta di piedi dall’attenzione generale, dopo aver raggiunto la fama calcistica. Come se quanto avevano già realizzato potesse bastare, e non ci fosse una ragione plausibile per continuare a insistere. I destini di Rensenbrink e Kempes si incrociano quel pomeriggio di luglio al Monumental di Buenos Aires. Al momento i due hanno segnato lo stesso numero di gol nel campionato del Mondo, cinque a testa. Però Kempes è cresciuto molto nel corso del torneo.
Alla vigilia della partita contro la Polonia, la prima del girone di semifinale, Kempes è ancora a secco. Menotti lo avvicina e scherzosamente gli dice: “Mario, perché non ti togli i baffi? Non avevi barba e baffi quando ti ho visto giocare nel Valencia. Magari ti porterà fortuna e tornerai a segnare…”4)Kempes: the mustache had to go, intervista a Mario Kempes, fifa.com. Kempes lo prende alla lettera. Taglia i baffi e comincia a segnare gol a raffica, tanto che da quel momento, ogni volta che lo vede, Menotti si sincera che il suo uomo si sia rasato. Rensenbrink è partito alla grande, poi ha un po’ rallentato: l’ultima rete l’ha realizzata all’esordio del secondo girone, proprio quando Kempes si è sbloccato. Finora hanno giocato entrambi una grande finale. E allora, Rob Rensenbrink e Mario Kempes, a voi la scena.
Siamo quasi allo scadere dei tempi regolamentari e c’è una punizione per l’Olanda dalla propria metà campo. Tutti sono con la testa già ai tempi supplementari, incombenti. Il calcio di punizione viene battuto dagli olandesi con un lancio lungo verso l’area. La difesa argentina è disattenta, lascia sfilare la palla, ma l’accorrente Rensenbrink capisce di poterci arrivare. Scatta, distanzia il difensore e la raggiunge, sulla sinistra, già nel cuore dell’area di rigore. Fillol intuisce il pericolo ed esce alla disperata; ma un attimo prima prima di essere travolto dal portiere avversario, al limite dell’area piccola, Rensenbrink riesce a toccarla con la punta dello scarpa. La palla oltrepassa il portiere sulla destra, va verso la porta, scende, fa un rimbalzo, risale. E sbatte sul palo. Poi torna in campo per essere calciata via dagli argentini. Il tutto in una manciata di secondi, un niente. Dirà poi Rensenbrink che non c’era proprio lo spazio per far entrare in rete la palla, e che inoltre avrebbe preferito tirarla fuori, quella maledetta palla, invece di continuare per anni a rispondere sempre alla stessa (e fottutissima, ndr) domanda sull’episodio. Lui, l’uomo introverso, riservato, e costretto a confrontarsi con quei pochi centimetri che avrebbero cambiato la storia del calcio.
Minuto quattordici del primo tempo supplementare: Bertoni difende un pallone sulla trequarti avversaria e allunga un ottimo assist sulla corsa a Kempes; questi salta due avversari per vie centrali e si presenta al tiro davanti a Jongbloed, in uscita, che però riesce a respingere. Kempes è esattamente nello stesso pezzo di campo e di universo nel quale si trovava Rensenbrink quando ha preso il palo, appena pochi minuti prima. Ma l’attaccante argentino ha fortuna sul rimpallo perché la sfera, superato il portiere, rimane lì vicino; allunga una zampata verso il pallone, appena un attimo prima dell’arrivo degli olandesi, e lo spedisce in fondo alla rete. Il raddoppio dell’Argentina è un capolavoro di Kempes, diventato adesso capocannoniere del Mondiale. Argentina verso il titolo, per la formazione dei Paesi Bassi è la fine.
Nei supplementari si è picchiato ancora di più e il livello del gioco è calato al crescere della stanchezza. I più stanchi sono gli olandesi. Nel secondo tempo gli argentini in vantaggio le tentano tutte per perdere tempo, ma con ogni probabilità non ne avrebbero neanche bisogno. Jongbloed in uscita salva su Luque. Il terzo gol della seleccion arriva lo stesso e nasce ancora da un irresistibile sfondamento centrale. Lo segna Bertoni dopo un ripetuto fraseggio con Kempes, sempre lui.
Finisce tre a uno: Argentina campeon – i giocatori e la folla sono in tripudio. Sugli spalti sventolano migliaia di bandierine a strisce bianche e celesti. Tarantini e Fillol si abbracciano, inginocchiati, piangendo in mezzo al campo. Si avvicina a loro un estraneo in abiti civili, un tifoso; si china, come per stringerli, ma dal suo corpo pendono solo due maniche vuote del maglione. L’uomo non ha le braccia. Un fotografo immortala la scena, meravigliosa, che finisce sulla copertina di El Grafico: la chiameranno el abrazo de l’alma, l’abbraccio dell’anima.
La giunta militare consegna la Coppa a Passarella. La festa che si scatena a Baires ed in tutte le città argentine è enorme, è la prima manifestazione spontanea di popolo che la terra argentina vede da più di due anni a questa parte. Rimarrà l’unica ancora per altri cinque, lunghi e lugubri anni. “Vamos, vamos Argentina / vamos, vamos a ganar / que esta banda quilomberà / no te deja , no te deja de alentar”.

Argentina ’78 è stato nel complesso un bel campionato del Mondo, divertente, combattuto, tecnicamente valido. Molte marcature sono nate da tiri da lontano, da fuori area, un fatto particolare che ha contribuito ad aumentare lo spettacolo negli incontri. Dall’altro lato, però, il torneo è stato caratterizzato dal gioco duro e in generale da un numero esagerato di falli che, lentamente ma inesorabilmente, stanno iniziando a danneggiare la possibilità di godere di un gioco piacevole. È stato un Mondiale equilibrato. Ciascuna delle prime quattro classificate (Argentina, Olanda, Brasile e Italia) avrebbe potuto tranquillamente portare a casa il titolo. Le differenze sono state nei dettagli, più che in una reale supremazia.
L’Olanda ha segnato con il suo nome in maniera indelebile il calcio mondiale degli anni settanta, ma è rimasta a bocca asciutta, per lo meno a livello di competizioni fra squadre nazionali. Negli anni a seguire passerà attraverso un nuovo periodo di anonimato che la escluderà dal lotto dei partecipanti di due edizioni della Coppa. Sarà soltanto un momento transitorio: l’Olanda è ormai entrata definitivamente nel gotha del calcio che conta. Lo dimostrerà presentando in svariate occasioni una nazionale altamente competitiva, in grado tra l’altro di laurearsi campione d’Europa a soli dieci anni dalla sconfitta di Buenos Aires grazie ad una nuova, splendida generazione di talenti. La conquista della Coppa più importante, però, continuerà a essere una chimera.
Nel 1978 la nazionale olandese perde la seconda finale di Coppa del Mondo consecutiva ed è un risultato fino ad allora mai raggiunto da altri. La squadra vista sui campi argentini paga il confronto con quella del 1974, seppur in modo non eccessivo. È meno incisiva nel controllo del gioco, non sovrasta gli avversari come prima, offre meno spettacolo e gli manca un certo Cruyff. È quindi paradossale che riesca ad arrivare molto più vicina al titolo nel ’78, con quel palo colpito all’ultimo istante. Ma l’Olanda di entrambi i campionati soffre soprattutto un preciso fattore: ottiene il massimo della condizione troppo presto. La migliore prestazione è facilmente individuabile nella quarta partita del campionato, quella centrale, che gli orange disputano in maniera strepitosa in tutte e due le Coppe – quattro a zero all’Argentina nel ’74, cinque a uno all’Austria nel ’78. Poi qualcosa si perde per strada, nella forma fisica, nell’efficacia del gioco. Non così tanto da precludere l’accesso alla finale, ma abbastanza per essere decisivo. Si può aggiungere che l’Olanda ha sempre affrontato in finale la squadra di casa. Non è però un handicap a priori, non è automatico. Il fattore campo, nelle partite che contano delle grandi competizioni calcistiche, è bilanciato infatti dalla pressione e dall’aspettativa che gravano soprattutto su una parte, e molti risultati stanno lì a dimostrarlo. Pertanto, nel ’74 la Germania Ovest è stata abile a trarne vantaggio, e lo stesso dicasi per l’Argentina nel ’78.
Il trionfo in patria della compagine sudamericana è nel solco dell’alternanza Europa – America Latina che marcherà il calcio mondiale ancora per un po’ di tempo. Ribadisce inoltre il dominio delle squadre americane quando il torneo si disputa sul proprio continente. Poi, su quattro semifinaliste, due sono americane: è un evento non così anomalo, è già accaduto nel 1930 (addirittura tre), e poi nel ’50, nel ’62 e nel ’70. Passeranno però trentasei anni prima che si ripeta di nuovo.
Cesar Menotti dichiara che la vittoria è un omaggio al vecchio e glorioso calcio argentino, riferendosi con queste parole alla tradizione di bel gioco della quale si presenta come il successore. Nello specifico è corretto, perché l’Argentina ha mostrato in diversi momenti prestazioni di alto profilo. Ma il giudizio non può tralasciare altri elementi che hanno pesato sul risultato finale, come il vantaggio di giocare conoscendo in anticipo il risultato dei brasiliani o alcune decisioni arbitrali troppo sbilanciate a favore del paese organizzatore.
In generale, però, la frase di Menotti può essere interpretata in tal senso: è la dovuta e necessaria riparazione ad un’ingiustizia storica. La scuola argentina è stata di assoluto rilievo nel movimento calcistico mondiale. Ha contribuito all’edificazione del gioco, come dimostra la partecipazione alle importanti finali olimpiche del ’24 e del ’28. L’Argentina è stata inoltre protagonista del campionato sudamericano sin dagli esordi. Solamente al Mondiale ha sempre faticato a imporre il proprio nome. Dopo la finale persa nella prima edizione in Uruguay, anno 1930, è stato un susseguirsi di mancate partecipazioni o di scarsi risultati. Le ragioni degli insuccessi sono diversi e di vario stampo: la migrazione di molti dei più forti giocatori verso i ricchi campionati di Spagna e Italia; i problemi di carattere organizzativo; le faide interne; addirittura, questioni di carattere politico.
Al Mondiale del ’34 viene inviata una squadra di dilettanti, subito eliminata; nel ’38 l’Argentina non partecipa; lo stesso avviene nelle edizioni del 1950 e del 1954. In questi due casi pare che il regime peronista abbia preferito tenere in patria i giocatori al fine di evitare il danno d’immagine – e quindi politico – di un’eventuale sconfitta, mantenendo invece intatta nella popolazione l’idea di una presunta superiorità calcistica nei confronti del resto del mondo5)David Goldblatt, The ball is round, Penguin Books, 2007. Nel 1958 l’Argentina torna ai Mondiali, forte di una strepitosa prestazione mostrata nel corso del Sudamericano, edizione ’57. L’Argentina vince e domina a suon di gol il torneo continentale, sconfiggendo anche i futuri campioni del Mondo del Brasile. Era la squadra degli angeli dalla faccia sporca – Maschio, Angelillo, Sivori – con l’aggiunta di Corbatta, Cruz e Nestor Rossi. Gli angeli emigreranno subito in Italia e non parteciperanno al Mondiale, ma ciò non basta a spiegare la tremenda disfatta cui va incontro la seleccion in Svezia, nel girone eliminatorio: sei a uno subito dalla Cecoslovacchia. È una sconfitta storica per gli argentini, che, come detto, avrà pesanti ripercussione anche sul loro modo di intendere il gioco. Nel ’62 escono di nuovo nella fase a gironi, seppur con modalità non così umilianti. Nella Coppa del ’66 una buona nazionale argentina raggiunge i quarti di finale, dove è sconfitta dagli inglesi padroni di casa e, a detta degli argentini stessi, dall’arbitro. Nel 1970 l’Argentina fallisce la qualificazione alla fase finale del Mondiale, mentre nel ’74 è fra le prime otto, ma senza molta gloria.
Ecco perché la conquista del titolo mondiale nel 1978 segna una svolta nella storia del calcio argentino e, di conseguenza, nella storia del calcio mondiale. È l’anno zero del calcio albiceleste. Da quel momento saranno bene o male sempre protagonisti nelle edizioni dei Mondiali, pur con un periodo di appannamento ventennale, chiuso con la finale del 2014. Soprattutto, l’affermazione del ’78 avvia un grandioso ciclo per la nazionale argentina, che nei successivi dodici anni conquisterà un secondo Mondiale e ne sfiorerà un terzo. La giusta ricompensa del passato.
19 ottobre 2018
immagine in evidenza: Mario Kempes esulta dopo un gol – storiedifuorigioco.altervista.org
References
1. | ↑ | Technical Study – Final, World Cup Argentina 78 – Official FIFA Report |
2. | ↑ | Johnathan Wilson, Il portiere, Isbn Edizioni, 2013 |
3. | ↑ | Gareth Bland, When Anderlecht and Club Brugge were amongst the kings of Europe, in These Football Times |
4. | ↑ | Kempes: the mustache had to go, intervista a Mario Kempes, fifa.com |
5. | ↑ | David Goldblatt, The ball is round, Penguin Books, 2007 |