È il 10 giugno 1978 e la nazionale italiana gioca la terza partita del girone eliminatorio del Mondiale, allo Stadio Monumental di Buenos Aires. Di fronte c’è l’Argentina. Gli azzurri sono già qualificati al turno successivo e, per chiudere il girone al primo posto, è loro sufficiente un pareggio. Oltre tutto hanno affrontato un girone non semplice, che comprende: i padroni di casa; l’emergente Francia; l’Ungheria. Dopo la disfatta in terra tedesca di quattro anni prima, l’Italia sta disputando un gran torneo. Non solo, ma sta ponendo le fondamenta per il futuro trionfo.
Da dove è ripartita la selezione italiana? Nel 1974 la guida tecnica della squadra è stata affidata a sorpresa a Fulvio Bernardini. Gran talento calcistico negli anni trenta – forse fin troppo, si dice, al punto che Vittorio Pozzo lo riteneva poco utile e lo utilizzava raramente nella fortissima nazionale del periodo –, Bernardini ha condotto nel dopoguerra una carriera di allenatore fuori dagli schemi e lontano dalle grandi piazze. Ha vinto due scudetti storici: con la Fiorentina nel 1955 e con il Bologna nel 1964. È un personaggio sui generis, è intelligente, sagace, irriverente, immune alle critiche. Ha il grande merito di svecchiare la squadra. Chiude con i gloriosi reduci di Messico ’70 (Riva, Rivera, Mazzola) e lancia in nazionale una quantità spropositata di esordienti, fra i quali alcuni giovani che saranno le future colonne azzurre: Gentile, Antognoni, Graziani. Nel settembre del 1974 l’Italia disputa una partita di qualificazione agli Europei contro l’Olanda, a Rotterdam. Il girone è proibitivo per quell’Italia convalescente: oltre ai fortissimi vice campioni del Mondo, c’è la Polonia, terza al recente Mondiale. L’Olanda è pertanto sin da subito nel destino di quella generazione di giocatori italiani. L’incontro rappresenta un primo timido, ma concreto, segnale di rinascita del calcio italiano; il primo mattone delle fondamenta, nonostante si risolva in una sconfitta. L’Italia sorprende gli olandesi e va in vantaggio con Boninsegna; poco dopo l’arbitro nega agli azzurri un rigore solare. L’Olanda pareggia, poi nel secondo tempo dilaga con una doppietta di Cruyff, anche se il primo gol è probabilmente in fuorigioco.
I risultati di Bernardini non sono però nel complesso esaltanti e così nel 1975 la federazione italiana gli affianca Enzo Bearzot, un tecnico da sempre all’interno dei ranghi federali. Il futuro monumento del calcio nazionale diventerà commissario tecnico unico nel 1977. Come da pronostico, l’Italia fallisce l’accesso alla fase ad eliminazione diretta dei campionati europei del ’76. Per volare in Argentina a giocarsi il Mondiale nel 1978, deve passare attraverso un girone che la vede contrapposta a Finlandia, Lussemburgo – squadre materasso – e Inghilterra. Si qualifica solo la prima.
Gli inglesi hanno una formazione temibile in quegli anni, guidata da un grande attaccante quale è Kevin Keegan, che nel 1977 conquisterà la Coppa dei Campioni con il Liverpool. Keegan passa poi all’Amburgo, ma il Liverpool vincerà il massimo trofeo per club anche nel 1978. Le squadre inglesi stanno quindi iniziando a dominare il calcio europeo, facendo propria in maniera brillante – non solo, ma soprattutto – la lezione del calcio totale olandese, coniugata alle caratteristiche nazionali di atletismo e gioco aereo. L’Inghilterra ha saltato l’edizione ’74 della Coppa del Mondo e ha una gran voglia di tornare al Mondiale. Le due squadre si sono già incrociate poco tempo prima, nel maggio del 1976 a New York, nel corso del torneo del bicentenario. È una competizione organizzata per festeggiare i duecento anni degli Stati Uniti d’America, alla quale sono invitati Italia, Inghilterra, Brasile e una curiosa compagine mista di giocatori statunitensi e vecchie glorie in forza al campionato locale, fra le quali un attempato e svogliato Pelé. Gli italiani giocano un gran primo tempo e vanno negli spogliatoi sul due a zero. Poi nell’intervallo, che dura quasi mezzora, sfilano le majorettes – d’altronde siamo pur sempre in America. I giocatori della nazionale ingannano l’attesa del secondo tempo prestando particolare attenzione alle grazie delle ragazze, o almeno così si narra. Morale della favola, l’Italia incassa tre gol in pochi minuti e perde tre a due. Arriviamo quindi al 17 novembre 1976, quando l’Italia ospita gli inglesi a Roma nell’incontro valido per le qualificazioni mondiali. È un passaggio chiave nella sua storia calcistica.
L’Italia di quel periodo è un paese a dir poco turbolento ma nel contempo davvero interessante. Una sera di inizio dicembre di quell’anno, in occasione della prima alla Scala, violenti scontri fra manifestanti e forze dell’ordine attraversano le strade di Milano. Poco tempo dopo, è il febbraio 1977, il segretario della CGIL Luciano Lama subisce l’attacco dei giovani estremisti di sinistra ed è cacciato dall’Università La Sapienza, dove stava tentando di tenere un comizio. Nel mese di marzo Bologna e Roma sono travolte dalla guerriglia urbana. È il movimento del Settantasette, con il suo carico di contestazione rivoluzionaria all’ordine borghese e alle istituzioni storiche del movimento operaio, ed è anche la modernità che irrompe definitivamente nella società italiana, nel costume, nella vita quotidiana. Una cesura storica netta rispetto al Sessantotto. Nell’estate del 1976 si è svolto a Milano il mitico festival musicale del Parco Lambro. Il giovane proletariato e sotto proletariato delle grandi metropoli italiane è entrato in scena in una forma anarchica, disordinata, provocatoria; ma è stata altresì la rappresentazione di una splendida esperienza di vita comunitaria, il tentativo di andare, anche solo per un momento, oltre i disumani rapporti interpersonali imposti dal modo di produzione capitalistico. Il Settantasette è stato anche questo. “Look at Mother Nature on the run / In the Nineteen Seventies” (Neil Young, After the gold rush, 1971). È in tale contesto che migliaia di tifosi festanti riempiono lo Stadio Olimpico di Roma per Italia – Inghilterra. Chissà, qualcuno di loro sarà stato anche al Parco Lambro, solo poche settimane prima.
Grandissima partita della nazionale azzurra che va in vantaggio con Antognoni, molto ispirato, su punizione, nel primo tempo. Causio è straordinario e con un azione personale, partendo dalla propria metà campo, sfiora il raddoppio. Nella ripresa l’Inghilterra preme, conscia del rischio concreto di saltare un altro Mondiale, ma stavolta non ci sono majorettes sculettanti in giro per il campo e l’Italia raddoppia. L’azione e il gol sono magnifici: Benetti dà a Causio, che di tacco libera ancora Benetti sulla fascia; cross, Bettega si lancia in tuffo, quasi orizzontale, e infila di testa. Al ritorno a Wembley, siamo già nel novembre 1977, l’Inghilterra domina e si impone a sua volta per due zero. È quella l’ultima partita in nazionale di Giacinto Facchetti. L’Italia però è già abbastanza certa della qualificazione in virtù di una migliore differenza reti, conquistata soprattutto grazie a un sei a uno rifilato poco tempo prima alla Finlandia. In quell’incontro un Bettega incontenibile ha segnato quattro reti – una delle quali ricorda da vicino la mitica prima marcatura di Pelé nella finale del Mondiale ’58. Per andare al Mondiale l’Italia deve soltanto battere il debole Lussemburgo, e così avviene.

Enzo Bearzot è un tecnico intelligente, intuisce che il tempo del catenaccio è giunto al termine e che ci sono scuole calcistiche attorno all’Italia che stanno contribuendo all’evoluzione del gioco – prima di tutte, ovviamente, quella olandese. Propone quindi un equilibrio tra la tradizionale scuola italiana, la sua capacità di costruire i risultati partendo dalla forza difensiva, e le novità che da qualche anno si vedono sui campi di calcio. È un gioco pertanto non solo di attesa ma in molte occasioni propositivo, basato su giocatori il più possibile eclettici. In diversi frangenti l’Italia comanda e controlla la partita. C’è una nuova, validissima generazione di giocatori italiani che si affaccia all’orizzonte. L’idea di Berazot sarà sempre quella di costruire prima di tutto un gruppo, un insieme di giocatori affiatati in grado di rendere come collettivo. Trova quindi il serbatoio di uomini necessari ai suoi scopi nella città di Torino, ovvero in quelle squadre che dominano il calcio nazionale in quel periodo, la Juventus e il Torino. Ma il blocco dei titolari della nazionale sarà composto quasi esclusivamente da giocatori bianconeri. Saranno addirittura nove su undici nelle partite contro Argentina e Olanda.
Sotto la guida di Radice, nel 1976, un Torino fortissimo – forse anche superiore a quello degli anni quaranta – e bello da vedere, vince lo scudetto rimontando la Juve. L’anno successivo sulla panchina juventina siede Giovanni Trapattoni, il quale inaugura un decennio prodigioso. Conquista il tricolore 1976/77 davanti al Torino per un punto, al termine di un testa a testa avvincente e di una stagione egemonizzata dalle squadre torinesi. Il 18 maggio del ’77 (il giorno stesso in cui è nato chi scrive queste righe) i bianconeri si aggiudicano la Coppa UEFA. Nel 1978 la Juventus è ancora campione d’Italia e cade in semifinale di Coppa Campioni per mano del Bruges, allenato da Ernst Happel. Segnarsi questo nome.
Trapattoni è l’altro grande interprete, assieme a Berazot, del gioco così detto all’italiana. Schiera la squadra senza regista classico, con un offensivo 4-3-3 (o 4-4-2), ma coperto da una solida difesa. Ci sono marcature a uomo in difesa, con un moderno libero in grado spesso di proporsi come centrocampista aggiunto, e marcature a zona a centrocampo. La nazionale di Berazot sfrutta la stessa logica di gioco, ma utilizzerà sempre il regista di centrocampo. È una sorta di 4-4-2 oppure, volendo essere più precisi se non pignoli, 4-3-1-2. Nella formazione tipo schierata in Argentina, il portiere è Dino Zoff, trentaseienne, già un veterano. In difesa, da destra a sinistra troviamo Gentile, Bellugi, Scirea – libero, lanciato a livelli mondiali – e Cabrini. Questi è un giovane terzino della Juventus che Bearzot di fatto fa esordire ai Mondiali, al posto di Maldera. È un’intuizione eccellente perché Cabrini sfodera prestazioni ad altissimo livello e riceve il premio come miglior giovane del torneo.
A centrocampo, nel ruolo di ala destra, così detto tornante, troviamo Franco Causio, il giocatore italiano più importante della seconda metà dei Settanta, un talento di stampo sudamericano. Milita anch’egli nella Juve; con i suoi baffi e la sua folta criniera somiglia tanto a quegli operai immigrati dal sud che lavorano nella fabbriche del capoluogo piemontese e che in quegli anni sono stati protagonisti di lotte sindacali e politiche memorabili. Anche Causio viene dal sud dell’Italia, da Lecce. Il suo impiego tra i bianconeri, e quello di altri giocatori meridionali quali Anastasi, Furino, Cuccureddu, è stato definito come una strategia da parte della proprietà (della Juve e della FIAT) finalizzata a tenere buono l’irrequieto proletariato immigrato. Causio disputa un grande Mondiale in terra argentina. Il centrocampo è completato da Benetti e da Tardelli, altro giovane talento emergente. Regista è Antognoni, della Fiorentina, molto atteso ma interprete di un torneo sotto tono, spesso sostituito da Zaccarelli del Torino. Antognoni è frenato nel fisico da un fastidio a un piede e anche nella mente, si scoprirà solo anni dopo, a causa di un triste lutto famigliare.
In attacco esplode il talento di Paolo Rossi. Non doveva partire titolare, ma Bearzot lo preferisce a Graziani proprio alla vigilia dell’esordio mondiale, e anche in questo case azzecca in pieno la scelta. L’altro attaccante è Roberto Bettega. Nato a Torino, simbolo della Juventus di quegli anni, è forte di testa e di piede, ma è un giocatore moderno capace di gestire il gioco, non solo di segnare. Ha un ottimo eloquio e pone le premesse per una futura carriera da dirigente. Vince con la Vecchia Signora sette scudetti, due coppe nazionali, una Coppa UEFA. Perde però due finali di Coppa dei Campioni: nel ’73 contro il grande Ajax e nel 1983 contro l’Amburgo – e chi siede sulla panchina dei tedeschi in quell’occasione? Ernst Happel. Bettega riscuote grande ammirazione nel corso del Mondiale in Argentina. Quattro anni dopo salterà il torneo in Spagna per un infortunio.
L’avvicinamento al Mondiale della nazionale italiana non è particolarmente esaltante. L’ultima amichevole internazionale si risolve in un pareggio interno con la Jugoslavia che denota alcuni limiti nel gioco. Le critiche della stampa sono come sempre feroci. Bearzot non se ne cura e prepara la sua squadra ad affrontare un girone impegnativo. C’è l’Argentina, paese organizzatore e fra le squadre favorite per la vittoria finale. C’è l’Ungheria, che ha eliminato l’Unione Sovietica nel girone di qualificazione. Ha dovuto poi affrontare la Bolivia nello spareggio intercontinentale, squadra che a sorpresa aveva eliminato l’Uruguay dalla corsa alla qualificazione. Poi però la Bolivia ha incassato tredici gol da Brasile e Perù nel gironcino finale dell’America Latina, e poi ancora nove gol complessivi dagli ungheresi nelle due sfide decisive per la partecipazione al campionato del Mondo.
E c’è la Francia. I transalpini sono un nazionale in crescita, composta da nuovi talenti quali il futuro Roi Michel Platini, Tresor in difesa, Six e Rocheteau sulla fasce. L’allenatore è Michel Hidalgo, che costruisce una squadra in grado di vincere e divertire, interprete di un calcio spettacolare. La Francia torna al Mondiale dopo dodici anni e ci riesce vincendo il girone di qualificazione davanti a Bulgaria e Irlanda. Nella partita di Sofia, finita due a due, subisce parecchi torti arbitrali, tanto che il telecronista francese dà esplicitamente dello stronzo al direttore di gara – ne nasce un caso, in Francia. Al ritorno i francesi si impongono per tre a uno. Una delle amichevoli pre-mondiale è stata proprio Italia – Francia. È finita due a due, con doppietta di Graziani nel primo tempo e gran ritorno dei francesi nella ripresa. Un particolare: le due squadre alloggiano in Argentina nella stessa struttura, l’Hindu Club.
Il 2 giugno 1978 le nazionali italiana e francese scendono in campo a Mar del Plata. Trenta secondi e la Francia segna: fuga sulla sinistra di Six, splendido cross e imbucata di testa di Lacombe. Pare una botta tremenda per la formazione di Bearzot, e invece no. L’Italia non si scompone, inizia a macinare gioco e perviene al pareggio a metà del primo tempo, con Rossi. Nella ripresa Zaccarelli, in diagonale, fissa il definitivo due a uno. Si assiste a un’ottima prestazione di Cabrini, di Tardelli e di Rossi. L’Italia sorprende tutti, imponendosi in rimonta su di una Francia davvero notevole.
Il secondo incontro della prima fase vede gli azzurri opposti all’Ungheria. I magiari pagano le assenze di due giocatori importanti, Torocsik e Nyilasi, squalificati in quanto espulsi nel precedente incontro. L’Italia domina in lungo e in largo la partita e vince tre a uno – segnano Rossi, Bettega e Benetti. Prende anche tre legni: in totale, al termine della manifestazione, saranno nove – non è molto fortunata in questo torneo.
Eccoci quindi arrivati a Italia – Argentina. È la seconda sfida consecutiva tra le due squadre alla fase finale del Mondiale, e la serie proseguirà. Entrambe sono già qualificate ai gironi di semifinale, ma entrambe schierano la formazione titolare. La scelta, in particolare riguardo la nazionale italiana, è stata oggetto di discussioni. Si è imputato al mancato riposo dei titolari il calo atletico, o presunto tale, occorso agli azzurri nelle partite successive. Si è parlato di una pressione degli sponsor, di un’imposizione da parte dei giocatori della Juventus, e anche di un accordo informale stipulato dai due tecnici in occasione del sorteggio. In realtà la decisione di disputare l’incontro con i titolari si può spiegare abbastanza agevolmente. Innanzitutto, chi avesse superato il girone al primo posto sarebbe rimasto a Buenos Aires, evitando così un noioso trasferimento a Rosario, sede dell’altro girone. Inoltre una vittoria su di una diretta avversaria per il titolo avrebbe rappresentato una dimostrazione di forza non indifferente. Infine, e vale soprattutto per l’Italia, la squadra sta funzionando, lo schieramento ideale è stato trovato, e pertanto è utile provarlo il più possibile, in un torneo breve come il Mondiale. Ecco perché Berazot non cambia squadra.
Partita ininfluente, quindi, ma passata alla storia fra le più importanti esibizioni della nazionale italiana. Il ritmo non è ossessivo e le entrate violente sono quasi assenti – elemento in netta controtendenza rispetto agli altri incontri del Mondiale – ma è partita vera, combattuta e avvincente. L’Italia lascia il pallino del gioco agli avversari, senza rischiare troppo e lanciando alcune puntate offensive insidiose. Sfiora il gol con Bettega già nel primo tempo. Nella ripresa, mentre la pressione argentina cresce, l’Italia passa in vantaggio grazie ad un gol strepitoso. Antognoni cede la sfera a Bettega, che triangola di prima con Rossi. Palla ancora verso Bettega appena dentro l’area, tiro rasoterra di prima, rete. Difesa dell’Argentina affrontata nel mezzo in velocità e tagliata fuori, spaccata in due.
L’incontro termina quindi uno a zero per l’Italia, qualificata come prima del girone. La nazionale azzurra per il momento sta mostrando il gioco migliore del Mondiale ed è diventata una delle maggiori pretendenti al titolo. La squadra ha consapevolezza del proprio valore. Dirà Bettega, in merito allo scetticismo iniziale: “Poco male, noi ci credevamo, e lo capimmo dopo sessanta secondi di mondiale, al gol di Lacombe contro la Francia. Una mazzata da k.o. per chiunque. Noi reagimmo spazzandoli via. Eravamo sereni, sapevamo di essere forti”1)Luca Argentieri, Bearzot fa le prove…, intervista a Roberto Bettega, la Repubblica. E adesso lo sanno tutti.
19 ottobre 2018
References
1. | ↑ | Luca Argentieri, Bearzot fa le prove…, intervista a Roberto Bettega, la Repubblica |